Alien Ginsberg non è stato soltanto il più famoso poeta di una generazione, ma un testimone del tempo suo e nostro, un instancabile sperimentatore di forme e tecniche espressive, straordinariamente coraggioso, curioso e aperto; fino a incarnare l'ideale di un anziano "poeta-professore", molto diverso dall'icona Hipster Droga & Beat anni sessanta che lo ha portato alla celebrità. "Saluti cosmopoliti" è la sua ultima raccolta pubblicata in vita, per la quale è stato finalista al Premio Pulitzer: un diario privato, un libro dei sogni, una guida gnomica alla "pazza saggezza", un album di canzoni ironiche che raccolgono i modi della cultura popolare; ma anche un pacato e sorridente recupero della satira e perfino dell'elegia classica. Un'opera pervasa da un'intensa e serena meditazione buddhista sulle immagini fluttuanti del mondo e sull'impermanenza del sé, in cui, non di rado, il poeta si fa intenerito e placido cantore della quotidianità. Con "Saluti cosmopoliti", uscito originariamente nel 1996, iniziava la breve ma intensa collaborazione tra il Saggiatore e Alien Ginsberg. Per ricordare, nei suoi risvolti umani e letterari, una vicenda editoriale che ha visto la casa editrice accompagnare il poeta, senza saperlo, nei suoi ultimi anni, il libro qui riproposto è introdotto da un epistolario. Una corrispondenza multipla, affollata di persone che, intorno e insieme a Ginsberg, hanno reso possibile la nuova e definitiva pubblicazione delle sue opere. Premessa di Luca Formenton.
Lungo un decennio, dal 1953 al 1963 – nel pieno della loro amicizia –, William Burroughs e Allen Ginsberg intrattengono un epistolario «lisergico» tra i più immaginifici e radicali di tutto il movimento Beat, di cui rappresenta una vera sintesi estetica e cognitiva. Ma se il contributo di Ginsberg è concentrato in sostanza in una lunga lettera-poema da Pucallpa (Perù) dove gli effetti dell'ayahuasca si traducono in una visionaria tragicità cosmologica, i molti referti di Burroughs coniugano alle visioni dell'alterazione psicofisiologica lo sguardo acuto e mimetico dell'antropologo sul campo, fino a rendere i due piani intercambiabili. Burroughs si abbandona infatti alle tante droghe cercate e provate lungo un percorso che oltre al Perù comprende anche Panama e la Colombia – dalla liana dello yoka al mitico yage, estratto di una pianta che spalanca nella mente sterminati territori onirici. E nel contempo registra ogni frammento del paesaggio circostante, con esiti di violenta ambivalenza: in primo piano, una catena di fisionomie squallide di rado interrotta da qualche oggetto di accensione omoerotica, come il ragazzo di Cali dai «delicati lineamenti ramati» e dalla «bellissima bocca morbida»; sullo sfondo, luoghi e paesi degradati ma collocati in una natura immensa e sgomentante. E la cerniera tra la percezione-allucinazione e il mondo esterno è data come sempre da una scrittura eversiva, la cui inconfondibile tonalità horror si vena qui di una corrosiva ironia.
Concepite come annotazioni private, appunti sparsi in cui anche l'ordine cronologico viene a volte a mancare, le pagine del "Diario indiano" non vogliono essere la fedele registrazione di una vicenda autobiografica legata a un viaggio. Il viaggio naturalmente c'è, ed è quello compiuto da Allen Ginsberg nella penisola indiana tra il marzo del 1962 e il maggio del 1963, in compagnia dell'amico Peter Orlovsky e di Gary Snyder, anche loro poeti della Beat Generation; e ben avvertibile è anche la dimensione "on the road" del libro; ma molto più intenso è il lato introspettivo del viaggio, scandito dai tentativi di una presa di coscienza diretta e partecipata della vita indiana; l'autore cerca di immergersi nell'India, piuttosto che di conoscere l'India, che così diviene soprattutto il luogo ideale per un'esperienza spirituale. Assai lontano quindi dal poter essere letto come una cronaca o un reportage, il "Diario" deve la sua suggestione al fascino visionario che emanano le sue pagine, in cui le poesie "urlate" si alternano agli stati di allucinazione, le descrizioni cittadine alle trascrizioni dei sogni, le risposte laconiche dei guru agli smarrimenti dell'uomo messo di fronte all'insondabilità dello spirito e della morte. Ma, ancora di più, il libro trova misura, coesione e intensità entro i modi e i tempi della sua prosa uniforme e cadenzata, quasi scandita dal ritmo mentale di versi lunghissimi e ipnotici, fino a confondere se stessa e le poesie con cui si avvicenda in una sola lentissima musica.