"Essere fragili" è una riflessione filosofica e letteraria sulla vulnerabilità della nostra esistenza e sui modi in cui attraverso di essa possiamo crescere come individui e come società. Quando accettiamo che il nostro corpo è minato di ferite, cicatrici e dolore; quando consideriamo la condizione umana come precaria e transitoria, siamo di fronte a un bivio. Possiamo rifugiarci in un'idea di mondo in cui tutto è ordinato, privo di problemi, e appellarci a questo principio per dare un senso alla nostra vita, orientarla e dirigerla negando la possibilità e la potenza dell'imperfezione. Oppure possiamo affrontare con una critica radicale questo tipo di pensiero, per ritrovarci come corpi sì fragili, ma uniti. Ecco quindi che per Joan-Carles Mèlich la via non è la metafisica ma l'etica. Non nella forma di un insieme di regole da seguire, ma intesa come il perseguimento dell'empatia, del perdono, della compassione, dunque della cura di sé e dell'altro. In un saggio che prende spunto dalle opere di Virginia Woolf, Hannah Arendt, Rainer Maria Rilke, Emmanuel Lévinas e da Moby Dick, Mèlich prova a rispondere a un quesito: come possiamo farci carico della nostra fragilità? La risposta sta nel contatto - ossia nella «carezza» - tra corpi diversi; perché riconoscendoci vulnerabili insieme sapremo darci conforto gli uni con gli altri, fronteggiando paura e sofferenza grazie alla loro condivisione.
"La fabbrica del consenso" è una dimostrazione, chiara e illuminante, di come la manipolazione delle notizie da parte del potere - politico, economico e culturale - plasmi l'opinione pubblica. Un'opera che vuole farsi portatrice di un'accusa ferma e inquietante: anche nei paesi considerati fari della democrazia, l'indipendenza e la neutralità dei media sono costantemente minate. Ovunque, ci rivelano Chomsky e Herman, la comunicazione, anche quella considerata più imparziale, cela sempre in sé la morsa della propaganda. Gli esempi citati sono molteplici: nelle elezioni in Nicaragua dei primi anni ottanta, l'intromissione degli Stati Uniti era giustificata dalla narrazione di uno stato meno democratico dei paesi confinanti; nel complotto Kgb-Bulgaria per l'uccisione di Giovanni Paolo II, i media hanno strumentalizzato la disinformazione; lo stesso è accaduto nelle guerre di Indocina, in cui per la prima volta nella storia l'esito di un conflitto non è stato deciso in battaglia ma sulla carta stampata e sugli schermi televisivi. Secondo la seminale analisi di Chomsky e Herman, sono i potenti a fissare le premesse del discorso pubblico: sono loro a decidere che cosa dobbiamo vedere e di cosa dobbiamo dibattere, su cosa polarizzarci e cosa sottostimare, e tutto questo grazie al regolare controllo sui media, i quali presentano così il mondo in accordo con i loro interessi economici. Ovunque non si vigila sull'informazione, ci ammoniscono gli autori, da cane da guardia della democrazia essa si trasforma in giullare delle élite: e quando la nostra libertà sarà in pericolo, non ci aiuterà una risata.
"Storia sentimentale del telefono" è il racconto lungo 150 anni del nostro romantico e turbolento rapporto con questa invenzione rivoluzionaria. Un album di ricordi composto dalle telefonate che ci siamo scambiati da ogni parte del mondo. Tutto è iniziato quasi per caso. Da una donna malata e un marito che non voleva lasciarla sola mentre lavorava in un'altra stanza. L'esigenza che aveva spinto l'emigrato italiano Antonio Meucci a progettare il «telettrofono» è rimasta la stessa attraverso tutta l'evoluzione di questo prodigioso oggetto: comunicare, annullare le distanze. Ma come siamo cambiati noi, mentre cambiava il modo di farlo? Che esseri umani erano quelli che entravano nelle cabine telefoniche armati di un sacchetto di monetine? E quanto siamo diversi da chi allungava il filo a spirale della cornetta da una stanza all'altra in cerca di un po' di privacy? Ci hanno fatto perdere di più la pazienza la linea che cade o le insistenti chiamate dei call center? Bruno Mastroianni ci guida in un viaggio che da Meucci e Bell conduce sino al dispositivo fisso con la rotella e ai primi cellulari, per approdare infine all'era degli smartphone, in cui telefonare è diventata l'ultima necessità per cui utilizziamo il telefono: una narrazione che si snoda tra storia e costume, musica e pubblicità, per raccontare come, in uno strumento così semplice e geniale, abbiamo trovato il mezzo per esprimere la nostra anima.
"Breve storia dell'anima" è il racconto di come, nel corso dei secoli, ogni civiltà abbia utilizzato questo concetto per esplorare quelli di coscienza, spiritualità, vita oltre la morte e più in generale il rapporto dell'uomo con Dio e con i suoi simili. All'origine di tutte le parole che indicano l'anima c'è il respiro, il fiato, il vento: «anima», dal greco anemos, «vento», che a sua volta discende dal sanscrito aniti, «egli soffia». Per denotarla Platone usava un'altra parola, psyché, a sua volta figlia del verbo psycho, «soffiare». L'ebraico nefesh la rappresenta con il pittogramma di trachea e polmoni stilizzati. Attorno a ognuno di questi termini sono nate riflessioni inesauribili, che hanno coinvolto la religione e la filosofia, la morale e l'etica. Gianfranco Ravasi attraversa le epoche inseguendo questo alito vitale con cui gli uomini hanno cercato di definire loro stessi: da Aristotele a san Tommaso, da Hegel a Leopardi, toccando rimandi biblici e letterari, quello di Ravasi è un viaggio nelle parole e nel pensiero ricco di incontri con scrittori e mistici. Un viaggio che si muove tra terre antiche e nuove, tra la Mesopotamia, l'Egitto e la Grecia, tra il mito e le neuroscienze, inseguendo un orizzonte nitido: «Risvegliare, purificare, ravvivare l'anima genuina che è spirito, coscienza, intelligenza e amore».
Il XXI secolo è il secolo della solitudine. Noreena Hertz lo sperimenta in prima persona: a un colloquio di lavoro viene valutata da un algoritmo; un pomeriggio fa shopping con un'«amica del cuore» affittata tramite un servizio online; di sera si trova a sfiorare la pelle artificiale di un robot progettato per essere il suo animale da compagnia. La solitudine che Noreena Hertz racconta non si limita alla frustrazione del desiderio di avere qualcuno vicino; è un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetto della nostra società. È la solitudine strutturale creata dal sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici. È l'isolamento provato dalle persone che si sentono trascurate e tradite dai propri rappresentanti e dalle istituzioni, al punto di lasciarsi sedurre dal richiamo del populismo e degli estremismi politici. È l'anziana signora giapponese che fa in modo di farsi arrestare per un reato minore, per poter trovare in carcere una forma di comunità. È il mondo parallelo e incontrollato dei social network, dove l'io si occulta dietro una maschera. È l'emarginazione sul posto di lavoro, dove il lavoratore si percepisce come un ingranaggio insignificante. È la solitudine speciale delle metropoli, dove possiamo ordinare centinaia di menu in consegna a domicilio ma non sappiamo il nome del nostro vicino di casa. "Il secolo della solitudine" è il racconto dolente della condizione in cui ciascuno di noi è venuto a trovarsi e insieme una chiamata alle armi contro le distanze siderali che si infiltrano nelle nostre vite, infettando come un virus tanto la salute dei nostri corpi e delle nostre menti quanto le strutture stesse della società. È una sfida a trasformare questa economia disumanizzante in un sistema più sostenibile attraverso interventi mirati dall'alto e dal basso, come maggiori investimenti nel welfare, ricostruzione delle comunità locali, banche del tempo e condomini solidali. È un invito a riscoprire e cementare i valori della collaborazione e dell'altruismo: la celebrazione del singolo non come atomo isolato ma come parte integrante di una comunità.
Come si forma il pensiero? Che cosa sono esattamente memoria, coscienza e mente? Davvero tutto quello che accade dentro di noi non è dovuto ad altro che a un fascio di impulsi elettrici? Quanto c'entra l'istinto e quanto la razionalità nelle scelte che facciamo? In "Che cosa abbiamo nella testa?" Edoardo Boncinelli e Antonello Calvaruso ci spiegano tutto quello che oggi sappiamo sul cervello e sul suo funzionamento. Grazie ai progressi della scienza ora siamo consapevoli che proprio il cervello è la casa dei pensieri, della mente, della razionalità, perfino delle emozioni. E anche se non esiste ancora una definizione univoca di «pensiero», sappiamo che ne convivono in noi due tipi: uno immediato - l'istinto che ci fa sottrarre la mano dal fuoco quando ci scottiamo - e uno complesso - che implica l'intervento della razionalità e comporta una valutazione delle variabili prima di compiere una qualsiasi scelta. Ma anche in questo caso siamo molto meno razionali di quanto crediamo, perché di fatto il nostro cervello risponde agli stimoli esterni in modo schematico, guidato dal retaggio della nostra evoluzione: tendiamo a prendere le decisioni rapidamente e col minimo sforzo, spesso cadendo in tranelli di cui nemmeno ci rendiamo conto. Con "Che cosa abbiamo nella testa?" Boncinelli e Calvaruso ci offrono una guida al cammino accidentato della ragione, alla scoperta di ciò che siamo e delle insidie che la mente infila fra i nostri pensieri, insegnandoci a riconoscerle per evitarle o servircene attraverso molti esempi in cui possiamo ritrovare le nostre esperienze quotidiane. Per comprendere meglio noi stessi, il nostro nucleo più autentico: forse la sfida più temeraria che possiamo affrontare. Postfazione di Domenico De Masi.
Le "Lettere a un giovane poeta" sono un manifesto della creazione artistica. Eppure pochi finora si sono interrogati sulla personalità del destinatario delle celebri missive di Rilke: Franz Xaver Kappus, uno studente ventenne che nelle pause tra le lezioni divora i libri di Rilke e un giorno decide di contattarlo. Il rapporto tra i due è al centro di questa edizione delle "Lettere a un giovane poeta", in cui, dopo anni di oblio, sono presentate al lettore le risposte di Kappus. L'aspirante poeta affida allo scrittore le prime prove poetiche e i segreti della sua anima, cui il maestro risponde con sincerità, talvolta fermezza, impegno e affetto. Per fare arte è necessario sentire un'urgenza assoluta, l'«ineludibile risposta a una chiamata», come la definisce Valerio Magrelli nella prefazione. Le "Lettere a un giovane poeta" si trasformano così in una conversazione a due, un dialogo, un botta e risposta tra mentore e allievo in cui si intrecciano arte e vita; perché, scrive Rilke, «l'arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo».
Il nostro mondo è in costante, vorticoso cambiamento: nel giro di pochissimi anni social media, globalizzazione, nuove tecnologie, perfino una pandemia, hanno cambiato forma a tutto ciò che conoscevamo. Ma queste rivoluzioni hanno aperto le porte a una vera e propria "età dell'eccellenza", a un futuro in cui le menti più creative e brillanti potranno creare idee, progetti e oggetti straordinari, che mettano al centro l'uomo e i suoi bisogni. Una nuova società, più prospera e felice. Ma cosa serve per avere successo in questa nuova era? Mauro Porcini, Chief Design Officer di PepsiCo, ha fatto dell'innovazione il proprio mantra e ha modificato radicalmente il modo di lavorare di alcune delle più importanti e ricche multinazionali al mondo: in questo libro, fondendo teoria e pratica, business strategy ed esperienze personali, incontri tanto con guru dell'imprenditoria quanto con star della musica e dello spettacolo (Lana del Rey, Tiësto, Jovanotti), spiega cosa significa essere innovativi e traccia la via che individui e imprese dovranno seguire per prosperare nel futuro, per liberare energie creative e per creare un mondo migliore, con al centro, sempre più, gli esseri umani.
Il lavoro: definisce la nostra posizione nella società, determina dove e con chi passeremo gran parte della nostra giornata, è il mediatore della nostra autostima e un mezzo per trasmettere i valori in cui crediamo. Se gli economisti moderni profetizzavano la progressiva scomparsa del giogo del lavoro, oggi siamo sempre più indaffarati e sempre più occupati, a discapito del tempo dedicato a noi stessi. Ma lavorare fa davvero parte della nostra natura? Per rispondere, James Suzman ripercorre la storia dell'umanità dalle origini ai nostri giorni, spaziando tra antropologia e zoologia, fisica e biologia evolutiva, economia e archeologia. Se è vero che oggi troviamo una realizzazione e uno scopo nel lavoro, i nostri antenati concepivano in modo molto diverso se stessi e il tempo a loro disposizione. Il mito odierno dell'occupazione, considerata quasi una virtù, è un'evoluzione relativamente recente nella nostra storia millenaria, che ha avuto origine con l'avvento dell'agricoltura e con la nascita delle città, con la domesticazione degli animali e, successivamente, con la comparsa delle macchine. Lavoro racconta come nei secoli si siano trasformati radicalmente non solo la nostra capacità di produzione e il nostro impatto sull'ambiente, ma anche i concetti stessi di noia, ozio e tempo libero, seguendo i mutamenti dettati da ideologie, religioni e scoperte scientifiche. A lungo abbiamo faticato per noi stessi e per gli altri - talvolta fino a morirne -, ci siamo chiesti se ne valesse la pena, abbiamo lottato per ricavare qualche ora di libertà da dedicare alle persone e alle cose che ci piacevano. Oggi, alle soglie di un'era che promette di automatizzare gran parte delle nostre attività, James Suzman ci invita a riflettere sui valori e desideri cui vogliamo dare spazio nell'uso che facciamo del tempo della nostra vita.
Heather Christle è come tutti noi: piange. Spesso, in alcuni momenti della vita; poco, in altri. Come capita a tutti, fin da quando siamo piccoli. Piangiamo per gli amici scomparsi e per i figli che nascono, crescono, giocano sul tappeto di casa. A volte, piangiamo senza motivo. A volte, piangiamo per troppi motivi. Ci ricordiamo tutte le lacrime versate, i pianti a dirotto, i singhiozzi? No, con tutta probabilità. Ma cosa direbbero, di noi e della vita, quei pianti, se potessimo riscostruirne la storia e la geografia? È questo l'ambizioso progetto di Heather Christle: rintracciare le lacrime che hanno punteggiato non solo la sua esistenza, ma anche quella degli altri; chiedersi perché e come piangiamo, scoprire che cosa accomuna occhi lucidi e pianti disperati. "Il libro delle lacrime" si muove tra ricordi personali e storia recente, tra poesia e spunti scientifici; nelle sue pagine si sovrappongono vicende, si intrecciano emozioni a formare un profondo e commovente tributo al nostro complicato rapporto con il dolore e la felicità.