Se è vero che nessuna battaglia si è mai svolta come era stata programmata né come viene raccontata dai vincitori, nel caso di Caporetto, che la storiografia non è ancora riuscita a spiegare compiutamente, agli errori si sommano volontà mistificatrici che l'hanno resa un simbolo ambiguo. Partendo dal volume che le dedicò in occasione del cinquantesimo anniversario, Mario Isnenghi torna sull'episodio della nostra storia che più di tutti ha rappresentato uno «scatenamento dell'immaginario, il virtuale che si sovrappone al materiale»: qualcosa che va molto oltre la dimensione militare ed entra nella psicologia e nella politica del nostro paese. Restituendo la parola ai «sommersi» e ai «salvati», emerge infatti il quadro di una situazione in cui, in assenza di informazioni oggettive, ciascuno reagì secondo le proprie ideologie e pregiudizi, producendo alternativamente moti d'orgoglio e letture devianti, la cui influenza arriva fino a oggi. Uno snodo cruciale tutto da chiarire, per trovare un filo conduttore che va ben oltre la rievocazione e il ricordo.
In questo libro, l'autore traccia un personalissimo percorso attraverso le infinite testimonianze, scritte e no, lasciate dagli italiani sulle guerre che hanno combattuto, da quelle d'indipendenza alla seconda guerra mondiale. Per cento anni la guerra è stata, per l'italiano comune, il punto d'incontro con la grande Storia: per cento anni ogni generazione ha avuto la sua guerra da combattere, da descrivere, da ricordare. Isnenghi propone un viaggio all'interno di questo infinito discorso sulla guerra, suddividendolo non secondo la cronologia, ma secondo il genere di testimonianze: i comizi, i proclami, i canti, i giornali, la letteratura, le immagini, le lettere dei soldati, i monumenti, i musei, i nomi delle vie.
«Un pullulìo di ex, dentro il quadro strategico di una frettolosa riconversione materiale e mentale: come Cesare Battisti, “social-patriota” di sinistra; Leonida Bissolati, social-patriota di destra; Agostino Gemelli, da positivista figlio di mangiapreti a bulimico consacratore dell’esercito al Sacro Cuore di Gesù; Benito Mussolini, da neutralista arrabbiato a spregiudicato araldo dell’Intervento; e infine l’idea stessa della guerra, da quella passiva e coercitiva di Cadorna a quella duttile e persuasiva di Diaz. D’altronde, in quegli anni si consuma in Italia un passaggio storico d’ordine generale: dalla società dei notabili alla società di massa».
Tra il giugno 1914 e il maggio 1915 l’Italia operò un clamoroso ribaltamento delle sue alleanze internazionali, che condusse alla decisione di dichiarare guerra all’Austria e alla Germania. Si trattò di una riconversione non solo militare, ma anche politica, culturale e ideale, fatta di abdicazioni, di trasfigurazioni, di palinodie e di abiure d’ogni sorta. La trasfigurazione dall’Italia triplicista alleata di Francesco Giuseppe a quella irredentista protesa alla liberazione di Trento e Trieste comportò la conversione dell’immagine della Germania da modello ad antimodello; l’eclissi dell’internazionalismo socialista e il conseguente passaggio al nazionalismo di settori importanti dell’opinione di sinistra, repubblicana, mazziniana; la trasformazione dei cattolici da intransigenti nemici dello Stato a clerico-patrioti; il completo riassetto degli equilibri interni alla classe dirigente liberale. In quella concitata transizione, si consumava il passaggio storico dalla società dei notabili alla società di massa. Così, i dieci mesi di maturazione dell’entrata in guerra trascorsero all’insegna di un clamoroso dualismo. Da un lato, avanzava sulla scena un nuovo, tumultuoso coacervo di minoranze, un labirinto di comitati mobilitati per la guerra che, mettendo in mora il Parlamento, si affermava come politicamente egemone, sempre più minaccioso nei confronti di chi alla guerra si dichiarava contrario. Dall’altro lato, continuava a esistere, quantitativamente forse maggioritaria, un’Italia composta di pura e semplice lontananza ed estraneità alla politica, un blocco d’ordine che contribuiva a rafforzare i poteri di un modesto governo di centro-destra, non certo pensato per così grandi compiti. Le risorse principali cui attingere per schierare le truppe in questa situazione appartenevano in larga misura al campo della disciplina e dell’ubbidienza. Anche per questa via più modesta – e a bassa temperatura – si supponeva che i tricolori potessero scaldare le menti e i cuori. Una volta ottenuto l’effetto desiderato e forzato il passaggio dalla pace alla guerra, queste risorse minimali si sarebbero rivelate essenziali al fine di ottenere che le masse militari rimanessero il più possibile ancorate alla «religione della patria» e al «senso del dovere» di coloro a cui spetta di comandare. E così, dopo il 24 maggio, il coinvolgimento dei cittadini attivi e politicizzati viene messo decisamente alla porta, lasciando il posto alle logiche della coercizione e dell’ubbidienza – sostenute e incoraggiate da una schiera di sacerdoti prontamente inviati al fronte –, unici strumenti con cui tenere a freno forme di obiezione e contrasto rispetto a una morte «assurda» che solo in una nuova «fede» patriottica può trovare la sua giustificazione. Ma in vista di Caporetto e dopo, nell’ultimo anno di guerra, le retoriche dell’ubbidienza e della passività rassegnata non basteranno più, e si torna questa volta per tutti a fare appello alle risorse del civismo e della politica, ridando protagonismo all’immaginario, alla parola e alle idee.
Autore
Mario Isnenghi
Mario Isnenghi, uno dei più autorevoli storici italiani, è professore emerito dell’Università di Venezia e presidente dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea. Studioso dei conflitti fra le memorie nella storia dell’Italia ottonovecentesca, ha pubblicato fra l’altro: Il mito della Grande guerra (il Mulino, 2014); L’Italia in piazza (il Mulino, 2004); I luoghi della memoria (Laterza, 2013).
Questa solida sintesi della Grande guerra è frutto del lavoro di due storici diversi ma affini: l'uno, Rochat, esperto della dimensione prettamente militare; l'altro, Isnenghi, versato nella storia della cultura e degli intellettuali. Il volume intreccia così felicemente due filoni di studio per raccontare vicende politiche e culturali ma anche operazioni militari, ideologie e sogni ma anche cifre e fatti: il racconto stringente di come la guerra fu voluta e non voluta, condotta e contestata, maledetta e ricordata, di quale ruolo vi giocarono le forze politiche e gli intellettuali, di quale fu l'agire e il pensare di generali, soldati e società civile, donne, prigionieri.
Da Mazzini a Mussolini, da Garibaldi a D'Annunzio, dai partigiani della Resistenza rossa e dell'"occasione perduta" ai neofascisti e ai brigatisti, i ritorni di fiamma sono una cifra di lungo periodo della storia d'Italia. Nel fare l'Italia e nella dialettica tra Stato e Nazione, a ogni svolta epocale dall'Italia liberale a quella fascista, a quella repubblicana - si sono riproposti fronti alternativi inconciliabili, con i corrispondenti miti e politiche della memoria. Dall'eterna contrapposizione tra guelfi e ghibellini a quella tra repubblicani e monarchici, neutralisti e interventisti, fascisti e antifascisti, terroristi e vittime del terrorismo. Si fa l'Unità, ma Garibaldi è un vincitore-vinto; si vince la Grande guerra, ma è una "vittoria mutilata"; il fascismo prende il potere, ma tradisce la rivoluzione; la repubblica nasce dalla Resistenza, ma al governo va la Democrazia cristiana. La nostra storia è piena di svolte deludenti per tanti, alcuni dei quali reagiscono spezzando la propria vita in due, un prima e un poi, e saranno gli "ex"; altri rivolgendo invece lo sguardo indietro, in una lunga serie di ritorni di fiamma. Le rispettive identificazioni hanno dato luogo a narrazioni individuali e racconti collettivi, in forma principalmente di finzione teatrale e memorialistica, con una rilettura a posteriori della propria rotta esistenziale.
In questa nuova edizione il volume, fortemente innovativo per tesi, documentazione e metodo, ha segnato uno spartiacque negli studi sulla prima guerra mondiale. Le riviste dell'età della "Voce", i fogli interventisti, i diari di trincea e la letteratura sulla guerra: rileggendo questa sterminata produzione Isnenghi ha ricostruito l'atteggiamento di una intera generazione di intellettuali italiani nei confronti dell'intervento e poi dell'esperienza bellica. Da Marinetti a Papini, da Prezzolini a Gadda, da Soffici a Jahier, Serra, Malaparte, Borgese, d'Annunzio, la guerra si configura di volta in volta come occasione rigeneratrice per l'individuo e la società, come veicolo di protesta o, al contrario, antidoto alla lotta di classe. Le molte facce del mito della Grande Guerra compongono in queste pagine uno spaccato di storia mentale, sociale, politica dell'Italia nel passaggio dalla politica delle élites alla società di massa.
"C'è una parola che sembra la più conveniente a definire la fase in cui viviamo e che intendo far mia per orientare alla scrittura e alla lettura. È la parola percezione. Questa parola difficile è diventata ultimamente una pacifica protagonista del lessico giornalistico e della cronaca d'ogni giorno. Nella realtà 'virtuale' che ci penetra e ci avvolge, conta quello che uno 'percepisce' non il fatto in se stesso, e sembra anzi grazioso far spallucce al 'fatto in sé'. I fatti con cui abbiamo a che fare sono - sarebbero - le nostre percezioni. Viviamo come se veri fossero, quindi sono veri per noi. Se è così, allora è andata proprio in questo modo. Per 'loro' - un buon numero di uomini e di donne, per diverse generazioni, fino a noi - l'Italia c'era, era vera, come spazio pubblico del loro anche individuale esserci e vivere. Racconterò questo, una storia dell'Italia via via percepita e raccontata nell'Otto e nel Novecento". È da questa prospettiva, dalla testimonianza di intellettuali, patrioti e politici che hanno partecipato alla costituzione della nazione, dai testi che hanno costruito il romanzo collettivo della nostra identità, che Mario Isnenghi tesse la storia d'Italia, a partire da Alessandro Manzoni fino alla cronaca degli ultimi decenni.
La figura di Garibaldi ovvero l'incarnazione della contraddizione. Amato e odiato, celebrato e vilipeso, emulato e disprezzato; il susseguirsi e il sovrapporsi di opposti atteggiamenti testimoniano l'esistenza di diversi Garibaldi: c'è un Garibaldi "di destra" e un Garibaldi "di sinistra", un Garibaldi "nazional-fascista" e un Garibaldi "brigatista ante litteram". Ecco perché Mario Isnenghi prova oggi a rileggere la vicenda di Garibaldi alla luce del nostro contraddittorio e conflittuale presente. Il Garibaldi di Isnenghi, dunque, è innanzitutto il fondatore dello stato, capace di accettare pro tempore che lo stato sia monarchico pur non nascondendo di preferirlo repubblicano. E cento anni dopo, nel 1946, l'Assemblea costituente repubblicana segna la vittoria di Mazzini e di Garibaldi. In secondo luogo, Garibaldi è il fondatore dello stato con la partecipazione attiva e critica di cittadini non più sudditi, che si mobilitano e fanno politica. Garibaldi è infatti un grande internazionalista libertario, e non un semplice nazionalista. Ecco uno dei tanti lati in ombra che Isnenghi tratteggia in queste pagine: la portata internazionale e internazionalista di Garibaldi.
"Quando incomincia l'Italia? Sembra una domanda strana. C'è sempre stata! Viene da pensare. E invece no. Ci saranno "sempre state" la catena degli Appennini e quella delle Alpi (anche se sono invecchiate strada facendo); il Po, all'incirca, ha sempre seguito il suo corso dal Monviso al mare Adriatico (ma ci ha messo secoli per fabbricarsi il suo delta); la penisola ha sempre avuto quella sua forma di grande stivale, anche quando chi ci abitava non lo sapeva; e i mari che la bagnano da tre parti, la bagnavano anche ai tempi di Ulisse nell'Odissea e di Enea nell'Eneide. Ma che cos'è che rende riconoscibile e distinguibile l'Italia? E che cosa fa di un paese un paese? Non bastano gli elementi materiali: le rocce e i fiumi di cui si parlava sopra, ci vuole qualcuno che li riconosca, qualcuno per il quale quella piramide di pietra significhi qualche cosa di molto particolare, un monte con un certo nome, dove si è arrampicato fin da piccolo e dove va sempre a far legna o a funghi. E così via, per tutti gli elementi di carattere naturale che costituiscono l'ambiente in cui l'uomo vive. Vivendoci, gli uomini hanno aggiunto qualche cosa ai luoghi: sentimenti, ricordi, case, campi, tombe. Storia, insomma, e storie. In capo a qualche generazione, quello è diventato il loro paese, una specie di prolungamento della loro stessa persona"; Mario Isnenghi stila una breve storia d'Italia, a partire dallo Stato unitario, tenendo ben presenti i più giovani e soprattutto e quelli che...
L'Italia è un fatto, a prescindere dalle retoriche di oggi che la vorrebbero divisa o da dividere. A partire da questo dato ineludibile, Mario Isnenghi propone una storia dell'unità d'Italia attraverso la ricostruzione storica degli avvenimenti e il confronto con testi letterari e testimonianze di intellettuali, patrioti e politici che hanno partecipato alla costituzione della nazione e dibattuto sulle sue molteplici identità. Da Alessandro Manzoni a Berlusconi, dal mangiare italiano di Artusi alle inchieste di Mani Pulite, il volume unisce il rigore storico a una struttura espositiva basata sugli sguardi e le idee di chi ha vissuto i diversi momenti. Secondo Isnenghi «c'è una parola che sembra la più conveniente a definire la fase in cui viviamo e che intendo far mia per orientare alla scrittura e alla lettura. È la parola percezione. Questa parola difficile è diventata ultimamente una pacifica protagonista del lessico giornalistico e della cronaca d'ogni giorno. Nella realtà “virtuale” che ci penetra e ci avvolge, conta quello che uno “percepisce” non il fatto in se stesso, e sembra anzi grazioso far spallucce al “fatto in sé”. I fatti con cui a che fare sono - sarebbero - nostre percezioni. Viviamo come se veri fossero, quindi sono veri per noi, Se è così, allora è andata proprio in questo modo. Per “loro” - un buon numero di uomini e di donne, per diverse generazioni, fino a noi - l'Italia c'era, era vera, come spazio pubblico del loro anche individuale esserci e vivere. Racconterò questo, una storia dell'Italia via via percepita e raccontata nell'Otto e nel Novecento».