Ogni volta che posso chiedo a mio padre di parlarmi di Lodz, della sua famiglia, di Auschwitz. Nel farlo sollevo automaticamente la manica della sua camicia, mettendo a nudo il numero tatuato sul suo braccio. Mentre mi parla continuo a fissare quel numero che diventa uno schermo capace di trasformare istantaneamente le sue parole in immagini. Le poche cose che mi racconta, della sua infanzia felice, dell'abbrutimento nel ghetto che aveva prosciugato persino le lacrime che sarebbe stato giusto versare per la morte del padre, dell'ultimo sguardo rivoltogli dalla madre, degli incubi che popolavano le notti ad Auschwitz, me le dice sorridendo. Per i pochi che sono riusciti ad uscirne vivi, e sicuramente per mio padre, dopo Auschwitz è iniziata un'altra esistenza che in nessun caso è riuscita a costruire un ponte sospeso che li collegasse alla vita precedente. Sono io che debbo costruire quel ponte, perché la sua esistenza, subita e vissuta con coraggio, e le contraddizioni, le incertezze, le angosce, le sue debolezze acquistino il senso e la dignità che meritano.