Nella vita di ogni lettore ci sono scrittori che occupano un posto speciale: spesso scoperti attraverso letture giovanili, diventano compagni di vita, sorgenti alle quali tornare nel tempo, scoprendovi ogni volta qualcosa di nuovo. Fëdor Dostoevskij rappresenta tutto questo per Julia Kristeva. Fin dai suoi primi studi la filosofa ha insistito sulla presenza, talvolta manifesta, spesso inconsapevole, delle voci degli altri all'interno della propria voce: la lingua non è mai neutra o pura, è resa più ricca dalla stratificazione di significati che altri prima di noi le hanno attribuito. Attraverso decenni di letture sedimentate Kristeva ha imparato a riconoscere la voce di Dostoevskij, e a sentirla risuonare dentro di sé. Il suo essere rivoluzionario, la sua esperienza nelle carceri della Siberia, il suo amore per la Russia e la sua fede tormentata e mai dogmatica la attraggono irresistibilmente, ma a stregarla è soprattutto il suo essere il romanziere del carnevale umano, capace di comprendere che l'oscurità infernale non riguarda solo l'animo di chi vive ai margini, ma è un elemento costitutivo della condizione umana.
In una riflessione che presta ascolto alla Bibbia ebraica e alla voce dei teologi, al pensiero di Freud e alla letteratura di Dostoevskij, Julia Kristeva affronta il tema dei giovani radicalizzati nel contesto dei malesseri della civilizzazione. L’impotenza del discorso politico, l’inarrestabile crescita del populismo, l’affermazione di culti identitari e l’esplosione della pulsione di morte sono sintomi di un disagio che, in alcuni casi, produce l’incapacità di distinguere il bene e il male, l’interno e l’esterno, il soggetto e l’oggetto. E’ un quadro che richiede di mobilitare tutti i mezzi, politici ed economici, «senza dimenticare quelli che ci danno la conoscenza delle anime», per accompagnare con la delicatezza dell’ascolto necessario, con un’educazione adatta e con la generosità che si impone, questa dolorosa malattia che irrompe su di noi. «Domandare perdono per il male commesso, accordare il proprio perdono per il male subìto – scrive Julia Kristeva - sono due condizioni necessarie perché l’avvenire cessi di ripetere il passato e rinasca la speranza».
"Quali possibilità c'erano che Julia e Philippe, le cui storie rivelano singolarità incommensurabili, si incontrassero a Parigi nel 1966? Che si amassero prima, durante e dopo il Maggio '68? Che restassero sposati dal 1967? Poche possibilità: il calcolo delle probabilità avrebbe bisogno di una serie astronomica di cifre dopo lo zero...". Eppure, tutto ciò è successo. Due "stranieri" nel corpo e nell'anima hanno deciso di restare saldamente in un luogo che essi stessi hanno scelto di disegnare come il loro matrimonio dal momento in cui ciascuno ha sentito che il "vivere con l'altro" gli era inevitabile. Prende avvio da qui un dialogo serrato sull'amore, che assume la forma di un vero e proprio lessico della vita matrimoniale. Julia Kristeva, psicanalista e scrittrice, e Philippe Sollers, scrittore e filosofo, due personalità di spicco della cultura del nostro tempo, si interrogano sull'arte di costruire un matrimonio che duri e che resista agli urti della società globalizzata, ma anche sulle ragioni per cui hanno scelto di armonizzare le loro diversità all'apparenza inconciliabili in un "luogo vivente come un organismo, le cui parti perdono un po' di se stesse in nome della libertà dell'altro".
Che cosa dico quando dico "io credo". Il primato della parola, la fede nell'amore: è ciò che hanno in comune il credente che prega e il paziente che si affida all'analisi. Mossi da una sofferenza che prende i toni ora dell'ansia di compiutezza e perennità, ora del disagio esistenziale, entrambi investono nell'altro, nella speranza di riceverne una rivelazione pacificante e salvifica. Ma le loro esperienze, per un tratto così vicine da coincidere quasi, si divaricano e giungono ad approdi interiori radicalmente diversi: la perpetua fusione spirituale in un caso, l'apprendimento della separatezza e della perdita nell'altro.
Intellettuale poliedrica, psicoanalista e semiologa, Julia Kristeva parla di fede da un punto di vista laico. L'uomo ha bisogno di credere nel fatto che la vita collettiva sia migliore della guerra, di tutti contro tutti, dell'individualismo. La narrazione del cristianesimo, in particolare di quello cattolico, crea e riproduce il collante sociale e culturale di una società che guarda, tutta insieme, al futuro. Nessuna pretesa superiorità per una chiesa, ma l'ammissione che il cristianesimo è questa narrazione complessa in grado di dare prospettiva alla società occidentale, alle sue tante culture e mitologie diverse. Il dio che soffre e muore in croce rappresenta la forza e insieme l'umana debolezza che fa il senso d'umanità e può costruire la pace.
"Essere una psicoanalista significa sapere che tutte le storie finiscono per parlare d'amore". Julia Kristeva spiega così l'origine di questo libro, ormai divenuto un classico. Il dolore che i pazienti confessano è sempre generato da una mancanza d'amore, sia essa presente o passata, reale oppure immaginaria. E se una possibilità c'è, per chi si pone all'ascolto, di intercettare e intendere questa sofferenza, essa è legata solo alla scelta di condividere quel senso di smarrimento che l'amore sempre mette in scena, dando così all'altro la possibilità di comporre il senso della propria avventura. "Storie d'amore" si confronta così con tutte le forme dell'amore: dall'agape cristiana all'amore sessuale, dall'amore fraterno a quello dei genitori verso i propri figli. Kristeva analizza quale sia la natura di questo sentimento, tanto vasto e universale, attraverso le sue molte manifestazioni: da Platone a san Tommaso, da Romeo e Giulietta a Don Giovanni, dai trovatori a Stendhal, dalla Madonna a Baudelaire o a Bataille. L'amore come figura delle contraddizioni insolubili, laboratorio del nostro destino: come se tutta la storia umana non fosse che un immenso e permanente transfert. Un'appassionata difesa dei sentimenti in un discorso che a partire dal metodo della psicoanalisi attraversa il pensiero, la letteratura, l'arte dell'Occidente, arrivando al cuore di tutti noi.
«Caro Jean, perché, a proposito dei disabili, “lo sguardo tarda a cambiare”? È un cambiamento epocale quello che ci viene richiesto, perché concerne l’idea stessa di umanità. Tu e io affrontiamo qui l’immensa questione a partire dalla più temibile delle esclusioni. L’handicap ci mette a confronto con la morte fisica e psichica, con la mortalità che opera dentro ciascuno di noi».
Julia Kristeva
«Cara Julia, la tua lettera arriva a me come un grido. Il grido di una donna e di una madre che raggiunge il mio grido. È un grido che penetra il muro eretto intorno ai nostri cuori per impedire all’altro, e soprattutto al diverso, di entrare in noi».
Jean Vanier
Cos’hanno in comune una delle voci più autorevoli del pensiero laico occidentale contemporaneo come Julia Kristeva e Jean Vanier, il filosofo cattolico fondatore dell’Arca, l’organizzazione internazionale sorta a tutela delle disabilità mentali? Lo si scopre nel fitto dialogo che i due intrecciano in queste pagine, nate da uno scambio epistolare durato oltre un anno e incentrato sulle loro rispettive esperienze: quella di psicanalista, scrittrice e soprattutto madre, che vede Julia Kristeva impegnata da anni in una battaglia politica per assicurare ai disabili una vita dignitosa nella società, e quella di Vanier, che da quarantasei anni pratica e predica il vivere insieme alle persone portatrici di handicap. Perché l’handicap fa tanta paura? Perché l’irriducibile differenza delle persone affette da disabilità motorie, sensoriali e psico-mentali suscita distacco, angoscia e persino spavento? Come riuscire a cambiare lo sguardo della società su queste persone che la nostra cultura dell’efficienza, dell’eccellenza e della competizione relega tra gli esseri umani più «estranei»? Sono questi alcuni degli interrogativi cui Julia Kristeva e Jean Vanier cercano risposte, nel pieno rispetto dei loro differenti punti di vista. Ma ecco che sul filo di questi interrogativi si vanno dipanando altre domande di senso sul nostro vivere presente: perché desideriamo essere genitori? Cosa significa essere madre? Qual è il ruolo della religione? Fino a dove si spingerà la scienza? Cosa può fare la famiglia? E lo Stato? Uno scambio di lettere tra due testimoni dell’esperienza dell’handicap – osserva il cardinale Ravasi – in cui, «come nel più emblematico e supremo degli epistolari, quello dell’apostolo Paolo, la concretezza si insinua nella riflessione, l’affetto non esita a inoltrarsi sui sentieri d’altura del mistero, la quotidianità lacerata si sottopone al giudizio della ragione e della fede. Alla fine si leva da una modesta radice un albero dal tronco solido e dai rami possenti».
JEAN VANIER
Jean Vanier è nato a Ginevra, nel 1928, da famiglia canadese. Laureatosi in filosofia a Parigi, ha insegnato a Toronto.Nel 1963 conosce padre Thomas Philippe, che lavorava in un istituto per persone handicappate vicino a Parigi. Segnato da quell’incontro, nel 1964 Vanier fonda l’Arca, che oggi conta 130 comunità nei cinque continenti. Nel 1971, insieme a Marie-Hélène Mathieu, dà vita al movimento Fede e Luce, che riunisce portatori di handicap, genitori e amici per condividere momenti di svago e di preghiera. Da allora 1400 sono diventate le comunità di Fede e Luce sparse nel mondo.
JULIA KRISTEVA (9 libri)
Julia Kristeva, semiologa, scrittrice e intellettuale, insegna Linguistica e Semiologia all’Università di Parigi. Esponente di spicco della corrente strutturalista francese, ha concentrato i suoi interessi attorno ai temi della psicanalisi. Di Kristeva, Donzelli ha pubblicato, oltre alla grande trilogia del «Genio femminile» (Colette, 2004; Hannah Arendt, 2005 e Melanie Klein, 2006), Bisogno di credere (2006), Teresa, mon amour (2008) e La testa senza il corpo (2009).
Teste decapitate: dai crani degli Indios sudamericani alle statue della Grecia classica, da Dùrer a Rodin, da Paul Klee a Picasso, da Cezanne a Max Ernst, da Delacroix a Francis Bacon. Teste di donne e uomini, di santi e profeti, di regnanti e figure mitologiche, a cavallo dei secoli e degli stili. Di questo originalissimo argomento tratta il nuovo libro dell'intellettuale francese, che sostiene con forza «la necessità dello sguardo, la necessità di guardare alla raffigurazione in sé, ma anche la necessità di vedere ciò che non viene raffigurato, per esempio la violenza della morte, la depressione, la castrazione e i tanti altri aspetti correlati alla mutilazione». Con una prosa a metà tra il letterario e il filosofico, e un ricchissimo apparato iconografico, il libro ripercorre una storia per immagini del visibile in Occidente, e diventa l'occasione per un ripensamento di alcune sue specificità, come l'importanza delle icone, che per i bizantini equivalevano non solo a una forma d'arte visuale ma anche a una forma di scrittura. Quel che infatti vediamo in un'icona è l'economia di ciò che non vediamo; essa è uno stimolo tanto a vedere quanto a pensare ciò che non è visibile. L'icona possiede dunque in sé una dimensione realmente minimalista: la sua essenza è assente da ciò che mostra.
Quando Sylvia Leclercq - psicoterapeuta, atea, scrittrice, palese alter ego di Julia Kristeva - riprende in mano l'opera completa di Teresa d'Avila, inizia un incontro che si rivelerà capace di coinvolgerla e sconvolgerla totalmente e inaspettatamente. Teresa d'Avila, la monaca di clausura vissuta tra il 1515 e il 1582, la riformatrice dell'ordine dei carmelitani, la santa dell'estasi, si rivela agli occhi di Sylvia una donna malata d'amore e di desiderio, al pari dei pazienti in cura sul suo divano. Di pagina in pagina, scopriamo i retroscena psicanalitici dei suoi tormenti e della sua estasi, immortalata dal celebre gruppo marmoreo di Bernini. Sylvia si lascia prendere da Teresa, si fa portare in Spagna, si introduce nelle pieghe della sua scrittura, capace di restituire, dietro l'ostentata umiltà, una rivoluzionaria coscienza di sé e un'inedita capacità di elaborazione del proprio disturbo. La ricostruzione dell'universo mentale e del malessere psicofisico della santa diventa così per Julia Kristeva lo spunto per una profonda riflessione sul nostro attuale bisogno di credere. Teresa aveva riversato nella scrittura la propria esperienza per sublimare il possesso dell'Altro, dell'Amato, incorporandolo dentro di sé, fino a goderne in ogni parte del corpo. Allo stesso modo, Kristeva adotta la forma romanzo per restituire il senso di quell'esperienza, riproponendola come un capolavoro di erotismo, spiritualità, consapevolezza di sé.
Julia Kristeva, intellettuale, semiologa, psicoanalista, scrittrice, ha accettato una sfida alta: parlare al pubblico raccolto nella prima chiesa cattolica di Francia niente meno che della sofferenza. Parlarne da laica, quale si professa; ma anche con un'attenzione particolarmente sensibile a quel "bisogno di credere" e a quell'elaborazione del dolore che rappresentano uno degli apporti più originali del cristianesimo alla nostra civiltà. Non solo infatti il dio cristiano è un dio singolare, caratterizzato dall'essere persona: è un dio che accetta e incorpora in sé la sofferenza, fino alla conseguenza della passione e della morte. A ben vedere, è questa una differenza profonda tra il cristianesimo e le altre religioni monoteiste. Ed è una differenza che noti fonda, beninteso, alcuna superiorità, tua che definisce una peculiarità di cui l'intero Occidente è portatore. Di questa peculiarità sarebbe assurdo e pericoloso disfarsi. Essa merita piuttosto. in tempi così difficili, di essere ripresa e ripensata.