Il ’68 nell’analisi di una testimone d’eccezione: repubblicana, democratica radicale e anticonformista per natura, dopo il trauma della fuga dalla Germania nazionalsocialista e la riflessione sul totalitarismo, negli anni Sessanta Arendt guarda con favore la contestazione giovanile che rianima i «diritti costituzionali popolari» e reclama la potestas popolare riducendo il «sistema dei partiti» a un «fastidioso impedimento». Contro il conformismo della middle class e l’anonima tirannia delle burocrazie, che frustrano il sacrosanto desiderio di agire ed esprimersi pubblicamente, il ’68 riscopre che «agire è divertente». E se la ribellione violenta è inaccettabile, non è tuttavia incomprensibile. L’unico antidoto alla disperazione generata dall’impotenza e dalla frustrazione, infatti, è la libertà di partecipare al mondo comune: questo il messaggio che Arendt lascia alla società futura, la nostra.
Dopo il trauma della fuga dalla Germania nazionalsocialista, Arendt si dette anima e corpo a un’idea di politica che non smise mai di teorizzare come espressione di creatività e gioia, intendendo il potere come potenzialità e possibilità di agire, di esprimersi insieme e con i propri pari nell’esaltante consapevolezza di poter cambiare il mondo, e ciò in netta contrapposizione alla condizione umana di isolamento, impotenza e superfluità sperimentata sotto i regimi totalitari. D’altro canto, Arendt non risparmiò critiche asprissime verso un movimento che, nato nella gioia dell’agire insieme per cambiare il mondo, ella vedeva spegnersi nella violenza, impolitica espressione di frustrazione, disperdendosi nei mille rivoli della società dei consumi, nuovo non-luogo in cui le masse postmoderne sperimentano ancora una volta quell’isolamento e quell’impotenza che solo la gioia dell’agire comune può trasformare da destino a possibilità.