Gli sbandieratoci del produttivismo e dello sviluppismo - anche nella versione contrabbandata per "verde" o sostenibile - vorrebbero accreditare un'immagine settaria e marginale degli obiettori di crescita: un manipolo di utopisti tardomoderni con l'ossessione recessiva di far cambiare rotta alla civiltà. Ma la logica trionfante del "cresci o muori" non può certo invocare maggior realismo, proprio quando si profila lo schianto del pianeta sotto il peso ecologicamente e socialmente funesto di iperproduzione, iperconsumo e iperscarto. Quell'insensatezza che oggi è diventata sinonimo di catastrofe viene da lontano, come chi in ogni tempo ne ha denunciato le storture che già si annunciavano mortifere. Si tratta di filosofi, poeti, economisti, romanzieri, politici, teologi, di cui Serge Latouche fa qui l'appello in quanto precursori, pionieri e compagni di strada. Tutt'altro che gracile, l'albero genealogico della decrescita vanta il fior fiore del pensiero critico e della sapienza di diversi continenti, configurando una storia delle idee alternativa. In felice promiscuità vi prendono posto cinici, epicurei e buddhisti zen, decrescenti di città e decrescenti di campagna, mistici e anarchici naturisti, oppositori dell'industrialismo agli albori e antiglobalisti attuali.
Cosa ha a che fare l'economia con la sfera del divino, dello spirituale, del mistico? Dove troviamo le interconnessioni? Ci si rende conto che la proposta è di grande rilevanza teoretica, perché va in controtendenza con la tradizione occidentale (e occidentalistica) di separare e dividere ambiti di conoscenza e di esperienza (etica, filosofia e teologia; etica, teologia e scienza; etica e politica; etica ed economia, ecc.). La riflessione si snoda secondo una duplice prospettiva: da una parte il confronto con economisti, filosofi, teologi e teologhe che stanno pensando (e vivendo anche) modelli altri, prospettive nuove e quello con il pensiero di Raimon Panikkar dall'altra.
L'insostenibilità congiunta di pessime pratiche e mezzi fittizi per contrastarle ha trovato in Serge Latouche un analista affilato e conseguente, determinato a snidare l'impostura economica ovunque si rintani, nelle parole e nelle cose. Latouche addita il nostro vizio capitale nel vivere irresponsabilmente all'insegna dell'eccesso. Troppo di tutto: troppa produzione, troppo consumo, troppa rotazione dei prodotti, troppa obsolescenza, troppo scarto; e, insieme, troppa disuguaglianza, troppa disoccupazione, troppo saccheggio di risorse naturali, troppo inquinamento di ogni genere (biochimico, mentale, visivo, acustico). Ma a essere tossica, senza appello, è la nozione stessa di crescita ovunque si sia incarnata, nell'ultraliberismo del capitale globalizzato o nel produttivismo del socialismo reale. Dopo il fallimento delle politiche sviluppiste, anche nella versione cosiddetta "sostenibile" - ultimo, pericoloso abbaglio, secondo Latouche -, ci resta un'unica alternativa, ossia l'utopia concreta di una società governata da una logica di decrescita, che alleggerisca l'impronta ecologica, metta fine alla predazione, stringa un rapporto di parternariato con il Sud del mondo, rivitalizzi gli aspetti conviviali dell'esistenza. Un vagheggiamento irrealizzabile? Nient'affatto. Fino a che non imboccheremo la strada della decrescita serena, l'eccesso di benessere continuerà a coincidere con l'eccesso di malessere.
I saperi che si ammantano di scientificità nascondono talora un cuore di fede, l'adesione ottenebrante a un credo. Serge Latouche l'ha scoperto quando era un giovane economista allevato alle dottrine sviluppiste e da allora non ha smesso di sfatare la religione secolare che si annida nella scienza economica. In queste tre conversazioni - con Thierry Paquot, Daniele Pepino e Didier Harpagès - Latouche per la prima volta racconta ampiamente di sé, di come sia diventato "ateo" e abbia concepito l'idea sociale della decrescita: le erranze della vita e del pensiero, tra Francia, Africa e Oriente, il terzomondismo, i compagni di strada, la svolta verso un'ecologia politica, la determinazione a opporsi dal basso all'incultura dell'iperproduzione e dell'iperconsumo, il conio di espressioni ormai adottate da ampi movimenti, come "decrescita serena" e "abbondanza frugale". Se i dogmi tossici dello sviluppo a ogni costo hanno spalancato l'abisso di una crisi senza fine, l'alternativa radicale secondo Latouche è uscire dall'economia, nelle pratiche e nell'immaginario. Il solo modo, per lui e per tutti gli obiettori di crescita, di recuperare una prosperità non mercantile ma relazionale.
Ci hanno detto che per occuparci della nostra società, del nostro futuro, bisogna essere economisti o giù di lì. Ma prendere la nostra vita nelle nostre mani significa semplicemente assolvere alle nostre funzioni di cittadini sovrani come prescrive l'articolo 1 della Costituzione. In realtà non bisogna essere economisti per capire che crescita, produttivismo, mercantilismo, gigantismo, individualismo, conducono a iniquità, guerre, sopraffazione, infelicità, esaurimento delle risorse, degrado ambientale e planetario. Al contrario, più si è impregnati di concetti economici, meno si vede. Perché l'economia mercantilista è il problema. Non si vede con gli occhi, ma col cervello, e per vedere veramente bisogna avere la mente sgombra dai condizionamenti. Decolonizzare il nostro immaginario significa fare pulito nella nostra testa, liberarsi dalle scorie mercantiliste per permettere ai nostri sensi di vedere e sentire ciò che veramente succede, e soprattutto per permettere ai nostri valori di uscire in libertà per costruire un'altra società.
Storico delle istituzioni politiche, studioso della Bibbia e teologo protestante, sociologo e critico del sistema tecnico, Jacques Ellul (1912-1994) è uno dei principali precursori della decrescita. Maestro di Ivan Illich e ispiratore di José Bove, nei suoi scritti ha denunciato gli eccessi della società occidentale attraverso la critica della ragione geometrica e la denuncia del disvalore generato dal progresso tecnico e del fallimento della promessa di felicità della modernità, arrivando a teorizzare la riduzione del tempo di lavoro. "Non può esserci una crescita illimitata in un mondo limitato" è il messaggio dei brani scelti per presentare la figura del più grande contestatore della corsa senza freni della tecnica, il cui pensiero è illustrato in modo efficace in un saggio inedito di Serge Latouche.
"Crescita, crescita": è la parola magica pronunciata a sazietà per salvarci da crisi che non cessano di succedersi... Questo per la pretesa dell'uomo di credere di poter sfruttare senza limiti i suoi simili e il pianeta e di aver creato un modello destinato a generare sempre maggior ricchezza, sempre maggiore felicità. Tuttavia, a partire dalle tesi di Nicholas Georgescu-Roegen, noi sappiamo che ciò non è possibile, mentre Ivan Illich e André Gorz ci hanno insegnato che è possibile un altro schema di società, capace di rispettare insieme l'ambiente e l'uomo. Gli "incontri" di Latouche sono con gli indios latinoamericani, con l'autarchia italiana tra le due guerre, con i precursori della decrescita, con la mercificazione dei viaggi alle Seychelles, con l'Africa, con la Cina e con i dibattiti e le esperienze in corso in Europa. L'opera ha un andamento quasi biografico con il susseguirsi di avvenimenti, esperienze e riflessioni. Prefazione di Patrick Piro.
Stampanti bloccate a orologeria, dopo diciottomila copie, o computer fuori uso allo scadere dei due anni: non siamo di fronte a una strana moria elettronica degna della fantascienza, bensì alla manifestazione più recente di un fenomeno che è parte integrante della società della crescita. Si chiama "obsolescenza programmata" e fa sistema con il nostro modo di produrre, di consumare, di pensare, di vivere. Significa che gli oggetti messi in vendita hanno una fragilità calcolata, tanto che la durata della garanzia coincide spesso con la loro vita effettiva. Impossibile ripararli. Vanno gettati e subito sostituiti con altri, ancora e ancora. Di questa illimitatezza malata, che ci avvolge sempre più nella spirale di iperproduzione, turboconsumo e immane scarto, Serge Latouche è l'oggi l'accusatore più conseguente. Con la sua capacità di infilzare le storture di un'economia di catastrofe, mette in sequenza gli antecedenti storici e fraudolenti dell'"usa e getta", ne smaschera la logica simbolica e indica una via d'uscita: una prosperità senza crescita, prospettiva frugale ma non pauperista che sappia decolonizzare la mente dall'imperialismo delle merci, e riprenda il passo umano della durevolezza, della riparabilità e del riciclaggio.
Dappertutto, nell'intero pianeta, cresce la crisi economica e sociale. Il sacrificio, sull'altare del mercato, di equità, giustizia e partecipazione moltiplica lo sfruttamento e la povertà mentre si consuma il disastro ecologico. A ciò molti si sono abituati, ma non tutti. Una parte del mondo non si abitua e pone in maniera esplicita una domanda: la soluzione del problema è davvero - come sostengono i più - la ripresa della crescita. Oppure la crescita, mitizzata e acritica, è la causa della situazione, tanto da rendere necessario un modello economico e culturale ad essa antitetico? E la decrescita (governata e controllata) non è un modello pauperista con venature luddiste ma la sola speranza di futuro? Si colloca qui l'intervista di Daniele Pepino a Serge Latouche: non solo approfondimento di questioni note ma stimolo per ulteriori riflessioni.
Sfidare i limiti è l'imperativo del nostro tempo. Forzare il possibile, passare il segno, trasgredire in senso etimologico. Destino paradossale, quello delle parole. In nome della trasgressione appena ieri ci si faceva beffe dei divieti imposti per via autoritaria e del perbenismo, si aspirava all'equità sociale. Secoli prima, grandi movimenti di pensiero avevano ingaggiato battaglia con i valori tramandati, e inaugurato così la modernità. Ma l'"andare oltre" di oggi è l'emblema del dominio, perché si annida in un modello di sviluppo planetario che rispetta una sola regola: ignorare ogni confine naturale, geopolitico, etico, antropologico e simbolico, assimilandone l'idea stessa a remora passatista di cui liberarsi per aprire ai mercati. Il peccato di dismisura, sanzionato con severità dagli antichi, si è rovesciato in precetto; il furore prometeico ha sopravanzato lo spirito di sovversione. Serge Latouche non ci sta. Da anni elabora il progetto di un'alternativa praticabile al binomio crescita-illimitatezza. Si chiama decrescita e il suo concetto strategico è limite. Sinonimo di privazione in una prospettiva sviluppista, il limite appare qui come il vero punto di forza che può trattenerci dal baratro. Alla tracotanza autodistruttiva dell'universalismo liberoscambista e alla pervasività delle sue invarianti culturali, Latouche contrappone le eco-compatibilità, le sovranità circoscritte, le identità plurali, i legami che creano società.