Lo scrittore è il "sospetto", l'esule per eccellenza: ebreo, espatriato, vigile e inquieto, Norman Manea vive a New York da quasi vent'anni e continua a scrivere in romeno. Il romeno è molto più della sua lingua d'origine: attraverso di essa l'autore può conquistare la propria patria perduta, ricreare la propria "placenta". Segnato a soli cinque anni dal dramma della deportazione e dell"'estraneazione", il suo lento e inesorabile avvicinamento alla letteratura gli ha permesso di costruirsi un'identità ricca e poliedrica, con la vasta visione del mondo tipica degli esuli. In questi contributi e nelle interviste in cui dialoga con Marco Cugno, Philip Roth e Claudio Magris, Manea approfondisce temi come l'ebraismo europeo prima dell'Olocausto, la situazione dell'Europa dell'Est dopo il crollo del comunismo, la dissidenza intellettuale e la censura nei regimi assolutisti. Ma anche il caso Rushdie, la cronaca del suo 11 settembre newyorkese, i grandi incontri con il Nobel Kertész o Cioran, una sospirata, fugace visita da "evaso" a Venezia nel 1979.