Nei primi anni Ottanta, appena insignito del Nobel, Czeslaw Milosz fu chiamato dall'Università di Harvard a presentare, in sei lezioni, le sue idee sulla poesia. E della poesia decise di privilegiare la funzione ai suoi occhi più importante, vale a dire la miracolosa capacità di offrire una testimonianza sull'epoca a cui appartiene: "non ho dubbi" afferma "che i posteri ci leggeranno nel tentativo di comprendere che cosa è stato il Novecento, proprio come noi apprendiamo molto sull'Ottocento grazie alle poesie di Rimbaud e alle prose di Flaubert". Ma quale testimonianza del Novecento offre la poesia? Il "tono minore", il dubbio, l'amarezza, la cupezza che paiono contraddistinguerla derivano, certo, dalla fragilità "di tutto ciò che chiamiamo civiltà o cultura", dal presagio che quanto ci circonda "non è più garantito", e potrebbe scomparire. Resta nondimeno una via di salvezza: guardando al secolo dalla prospettiva di un'"altra Europa" ed eleggendo a guide Oscar Milosz e Simone Weil, Milosz ci introduce infatti a una diversa concezione della poesia, quella che ne fa un "inseguimento appassionato del Reale" - giacché solo nel mai appagato desiderio di mimesi, nella fedeltà al particolare, nel "senso della gerarchia" delle cose sta "la possibilità di sopravvivere a periodi poco propizi".
Tra l'inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czeslaw Milosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed enunciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell'occupazione nazista, con la rivendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l'ambiente degli Stati Uniti, in cui Milosz, dopo aver contemplato l'abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed equilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il "Trattato poetico" ha la forza espressiva di un romanzo storico, l'intonazione nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un'epoca, l'accento pacato di una meditazione sulla storia, sull'arte, sulla coscienza individuale.
Nella nona decade della sua vita, alle soglie del nuovo millennio, Czeslaw Milosz decide di raccontare il suo Novecento. Comincia allora a rovistare nei cassetti della memoria e ne trae figure, luoghi, fenomeni: un fulgido mosaico di vicende proprie e altrui che spaziano da un continente all'altro, da un'epoca all'altra, delineando una personalissima enciclopedia del secolo appena trascorso, un alfabeto di ricordi e riflessioni sulla civiltà occidentale. Ma, come sempre, la memorialistica di Milosz scaturisce non già dall'impulso a eternare sé e il proprio vissuto, bensì dall'esigenza di testimoniare, anzi di perpetuare il mondo, meraviglioso e terribile. Milosz rinuncia così al ruolo di protagonista per assumere quello di regista, chiamando in scena grandi attori e piccole comparse, mosso dal duplice intento di «salvare» tutto ciò che in un modo o nell'altro ha avuto un ruolo nella sua vita, e di riflettere sul proprio tempo. Non stupisce quindi che accanto a medaglioni imprescindibili per un grande intellettuale - come quelli su Rimbaud, Schopenhauer, Whitman, Dostoevskij o Baudelaire - compaiano riflessioni sulla pittura di Edward Hopper, sull'alchimia o sul buddhismo; che «la fine del capitalismo» o «la stupidità dell'Occidente» si specchino nei lemmi dedicati al mondo russo-sovietico; che i commenti sulla «spietatezza» o sulla «blasfemia», sul «pregiudizio» o sulle «lettere anonime» stemperino le loro note amare nel fascino di paesaggi nordici o mediterranei - Inverness, la Selva Rudnicka di Vilna, il Connecticut, le acque trasparenti di Bocca di Magra.
Alle soglie dei novant'anni, in modo del tutto imprevisto, con spregiudicata disinvoltura Milosz si racconta, proiettando in un vivace diorama tutta la sua vita intellettuale e creativa. Frammenti narrativi o filosofici si alternano a poesie, aforismi, aneddoti; saggi brevi, citazioni, criptici ritratti di scrittori compaiono accanto a scorci di paesaggio, ricordi personali, canzoni, resoconti giornalistici, perfino al biglietto di una piccola ammiratrice.
Nelle visioni di William Blake, la "terra di Ulro" designa un luogo di sofferenza e costrizione che molto somiglia a quello che Milosz ha attraversato, dalle turbolenze degli anni dell'anteguerra all'invasione nazista della Polonia, al regime sovietico, all'esilio. Ma per tutta la vita Milosz ha pensato che scrivere potesse servire anche a infrangere i cancelli di quel luogo sinistro. Il libro è una autobiografia intellettuale.