"Se non avete mai letto Orazio (65-8 a. C.), la sbalorditiva modernità di Roma e della civiltà classica non vi è stata ancora rivelata per quanto merita. I suoi versi raccontano le opere e i pensieri di una febbrile e raffinata società metropolitana di duemila anni fa, smascherandone satiricamente le vanità, le goffaggini e i vizi. A cominciare da quello stato d'animo di trafelata ansia che noi contemporanei definiamo 'stress': quell'accumulare obblighi mondani e inutili impegni, quel dannarsi per avere sempre di più che distolgono dalla virtù anziana per eccellenza, la giusta misura. Orazio sembra scrivere per gli 'emergenti' dei giorni nostri, per gli ammalati di potere, per le vittime delle mode. Non gli sfugge un solo vezzo, una sola debolezza: ma ha il pregio (rarissimo per un moralista) di non dispensare severi precetti, né ammaestramenti infallibili. Preferisce, sorridendo, descrivere i romani (incluso se stesso), e accompagnarli lunga i loro errori, piuttosto che maledirli da qualche pulpito presunto. A dimostrazione che la buona satira è il miglior antidoto conosciuto della cattiva retorica." (Michele Serra)
Per le Epistole (e soprattutto per queste del I libro) "si potrebbe parlare di un carpe diem della sapientia": nessuna definizione meglio di questa (Alfonso Traina, 1991) si attaglia alla ricerca costante della saggezza, dichiarata da Orazio fin dalla I epistola al patronus che lo vorrebbe accanto a sé a Roma per dedicarsi ancora alla poesia lirica, a cui risponde: "non ho più l'età, non ho più lo spirito". Ora è giunto per lui il momento di fare un bilancio della sua vita allontanandosi dalla stressante confusione di Roma: solo la campagna, il ritiro nell'amata villetta in Sabina, nella verità di una vita sobria, attenta alle cose semplici, gli consente di ritrovare se stesso; solo qui, lasciandosi guidare giorno per giorno dalla sua filosofia alla buona, cioè dalla ricerca della saggezza, che è una sapientia a sua misura, egli potrà raggiungere quello che gli sta a cuore: l'equilibrio interiore, quell'aequus animus che è garanzia di autàrkeia, cioè di autonomia spirituale da ogni forma di dipendenza a di potere.
L'interesse di Orazio per il genere letterario della satira, di cui egli è certo la voce più alta nel mondo romano, nasce da un'abitudine sviluppata fin dalla più tenera età grazie all'insegnamento del padre: osservare i vizi della gente per evitare di cadervi a sua volta. La reazione morale al costume corrente, che gli dovette sembrare particolarmente urgente nella Roma del suo tempo, lo portò così a scrivere i due libri delle Satire. L'insegnamento che ancor oggi ricaviamo da questa opera è quello del modus, il giusto mezzo tra gli eccessi: una sobrietà che è la cifra della vita dell'uomo Orazio ancor prima che del poeta.
Senso della miseria e saggezza fanno dei versi di Orazio un classico, la cui memoria è contesa fra "classicisti" e "romantici". A tali schieramenti non può, però, ridursi: nelle Odi (30-13a.C.) Orazio consegna a Roma un'opera degna dei Greci, in cui modelli di poesia ellenica sono armonizzati con il mondo dell'età augustea. Letture discordanti ne riflettono piuttosto la polimorfa poetica: cantare l'immagine pubblica della potenza di Roma ma coglierne anche la sfera privata, perlustrando l'enigma del tempo e della fragilità umana. Sono forse questi i temi, perenni come il fluire della storia, che consentono di afferrare l'invito del cantore del carpe diem ad appropriassi del presente.
"La vera novità della poesia lirica oraziana, anche sul piano formale, fu quella di ricongiungersi, con le sue Odi, alla lirica greca antica di Archiloco e Pindaro, di Alceo e Saffo. Celebrando se stesso come l''inventore' romano di questo genere letterario, il poeta di Venosa non si esaltava vanagloriosamente; si può infatti dire che prima di lui i lirici antichi erano conosciuti soltanto di nome e che, per quanto ne sappiamo, nessun romano aveva letto Alceo o Pindaro." Introduce così Ugo Dotti la sua edizione –tagliata su misura per la sensibilità contemporanea – delle Odi e degli Epodi oraziani, opere indimenticabili che fanno ormai parte della cultura interiore occidentale. Fra l'invettiva tormentata degli Epodi, il tono solenne del Canto secolare e la celebrazione, nelle Odi, della vita tranquilla e del sereno godimento dell'oggi nell'ignoranza del domani, Orazio ha scolpito nei suoi versi un insegnamento poetico ancora attuale, come il suo celebre invito al carpe diem.
L'opera completa di Orazio: dalla sottile ironia delle Epistole, le lettere in esametri che dedica ad amici, letterati e uomini illustri del suo tempo, all'alternanza di toni delle Odi ed Epodi, in cui rivisitando i modelli greci dà risalto ai suoi crucci e alle sue gioie, fino alle Satire, dedicate come le Epistole a Mecenate e nelle quali la società romana del suo tempo è osservata con spietata ironia nella sua quotidianità. E l'epistola ai Pisoni, l'Ars poetica, il più significativo testo di teoria letteraria in lingua latina, sul modo di scrivere una poesia valida, sui generi letterari, sulla necessità di contemperare l'ingenium con l'ars: per scrivere bene bisogna unire alla predisposizione naturale l'esperienza frutto dello studio e la solida conoscenza del genere praticato.
Se Orazio, a partire dal 23 a.C. e dopo aver pubblicato le Odi nel 20 a.C., torna a scrivere - ci dice nella lettera proemiale delle Epistole - è per via del tormento di essere quel che non si vorrebbe e di non essere quel che si vorrebbe. L'esperienza lirica è conclusa, poiché non è più l'età del canto della gioia e dell'amore, resta la possibilità di veicolare nel verso meditazioni morali di carattere generale, sul vero, sul bello, sulla condizione umana, rivolte all'uomo comune. Con quest'opera di conversazioni in esametri composta di due libri (rispettivamente di venti lettere e di due aggiunte successivamente e centrate sul tema della poesia) Orazio creò un genere letterario del tutto nuovo. In componimenti eterogenei per materia il poeta tratta di diversi aspetti della vita quotidiana con una pratica saggezza del vivere, nutrita di filosofia stoica ed epicurea. Tenendosi lontano da ogni dogmatismo si abbandona a riflessioni sulla potenziale grandezza umana, sull'incerto procedere del tempo, sulla necessità di restare imperturbabili di fronte a tutto riconoscendo tuttavia il piacere del vivere, soprattutto dell'amore, sull'arte del sapersi accontentare.
"Mentre noi parliamo, sarà già sparita l'ora, invidiosa del nostro godere. Cògli la giornata d'oggi e confida il meno possibile in quella di domani." Quinto Orazio Flacco
"Se non avete mai letto Orazio (65-8 a. C.), la sbalorditiva modernità di Roma e della civiltà classica non vi è stata ancora rivelata per quanto merita. I suoi versi raccontano le opere e i pensieri di una febbrile e raffinata società metropolitana di duemila anni fa, smascherandone satiricamente le vanità, le goffaggini e i vizi. A cominciare da quello stato d'animo di trafelata ansia che noi contemporanei definiamo 'stress': quell'accumulare obblighi mondani e inutili impegni, quel dannarsi per avere sempre di più che distolgono dalla virtù anziana per eccellenza, la giusta misura. Orazio sembra scrivere per gli 'emergenti' dei giorni nostri, per gli ammalati di potere, per le vittime delle mode. Non gli sfugge un solo vezzo, una sola debolezza: ma ha il pregio (rarissimo per un moralista) di non dispensare severi precetti, né ammaestramenti infallibili. Preferisce, sorridendo, descrivere i romani (incluso se stesso), e accompagnarli lunga i loro errori, piuttosto che maledirli da qualche pulpito presunto. A dimostrazione che la buona satira è il miglior antidoto conosciuto della cattiva retorica." (Michele Serra)
L'opera di Orazio si distende tra gli ultimi anni del torbido periodo delle guerre civili e l'età dell'assestamento del regime di Augusto. Se gli "Epodi" testimoniano delle tempeste contemporaneee trascrivono il disorientamento del poeta alla ricerca di un so ideale di misura che lo salvi dalle tensioni interne e non gli precluda il godimento della vita, le "Odi", la sua opera più complessa e alta, sono una profonda meditazione sulla precarietà della vita, sull'amore e la morte, sulla bellezza. Motivo centrale è il "carpe diem", un invito a superare la immanente precerietà delle cose per godere dell'attimo, di cui si può, per un momento balugiante, essere padroni.