Quasi duemila e cinquecento anni fa, Aristotele avviò la discussione sui diversi aspetti dell'organizzazione della polis definendo l'essere umano come "animale politico", l'unico vivente capace di dar forma a comunità politiche. Da allora, pensatori antichi, moderni e contemporanei si sono susseguiti nel dare una propria definizione di che cosa è la politica, ognuna delle quali derivata dalle vicende particolari e dalle idee che a questo termine risultano associate nei diversi momenti storici: dalla polis all'Impero, dallo Stato alla sua crisi nella globalizzazione, fino alla nascita delle Relazioni Internazionali. Attraversando più di due millenni di riflessioni si giunge a riconoscere come l'espressione aristotelica conservi ancora il suo valore e ci induca a individuare nella politica non soltanto un "mezzo" o un tipo particolare di potere con leggi perenni, bensì soprattutto la forma specifica delle relazioni sociali con cui gli esseri umani organizzano e sperimentano la vita associata, oscillando fra l'obbedienza all'autorità costituita e la ricerca di spazi di libertà.
Travolti dall'onda della personalizzazione della politica e dai ritmi della società dello spettacolo, i partiti hanno ormai modificato il loro volto e sono irrimediabilmente distanti dalle macchine politiche novecentesche. Oggi i partiti sembrano a molti soltanto maschere che celano, maldestramente, interessi di piccole e grandi consorterie, presenze fantasmatiche senza più consistenza, destinate a rimanere tra le memorie di un mondo definitivamente perduto. Ci sarà, dunque, una democrazia senza partiti? Saranno direttamente i cittadini a incidere sulle scelte politiche senza l'intermediazione di strutture organizzate? O, piuttosto, dovremo fare i conti con una nuova modalità di partito, più leggera e fluida, in grado di intercettare i mutamenti nelle domande della società e dei suoi settori? Sono gli interrogativi che muovono le riflessioni di Damiano Palano. La sua ricostruzione del processo di trasformazione delle 'gabbie d'acciaio' del XX secolo verso i partiti 'liquidi' odierni e futuri porta in primo piano il cuore del problema: dare sostanza reale a quell'oggetto misterioso e inafferrabile che siamo soliti chiamare 'democrazia europea'.
Cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali? Ciclicamente riproposto dalla storia e dall’attualità, questo interrogativo fu al centro di una breve ma prolifica stagione teorica che, nel clima dell’Italia fin de siècle, salutò l’avvento dell’«era delle folle». Sebbene la fama della psicologia delle folle sia legata soprattutto al nome di Gustave Le Bon, pionieri di quella effimera ma tutt’altro che irrilevante avventura intellettuale furono alcuni studiosi italiani raccolti attorno alla contestata figura di Cesare Lombroso. L’indagine qui proposta ricostruisce per la prima volta in modo completo le modalità con cui essi iniziarono a interpretare i fenomeni di conflitto sociale e politico come testimonianze di reversioni atavistiche, e le tappe che diedero origine alla teoria della «fermentazione psicologica», di cui Scipio Sighele avrebbe tratto le conseguenze. Armati di un bagaglio teorico nel quale si fondevano antropologia, psichiatria, sociologia e teoria politica, questi autori cercarono di spiegare l’origine inconscia del potere delle moltitudini, fornendo risposte che, per quanto possano apparire datate, esploravano questioni decisive, purtroppo trascurate dalle odierne scienze sociali. Gli psicologi di fine Ottocento riconobbero infatti la realtà e l’importanza di quella dimensione dell’agire collettivo non riconducibile alla razionalità strumentale, e intuirono che si trattava di un legame controllabile e disciplinabile, ma di fatto ineliminabile e capace di sconvolgere il ferreo ordine della civiltà. Ricostruendo un itinerario che, dalle prime raffigurazioni romanzesche dei tumulti, giunge alle ipotesi di Ferri, Sergi e Sighele, al fitto dibattito con gli esponenti francesi della disciplina e, infine, alle sintesi di autori minori come Paolo Orano e Pasquale Rossi, Damiano Palano mette in luce come tali autori, lungi dal tradire il puro sgomento per l’avvento delle masse, delineassero una comune strategia interpretativa dell’azione politica e, più precisamente, della «politica assoluta». Raffigurando nella folla l’estrema e totale minaccia all’ordine politico europeo e riconducendo i moventi delle sue azioni alle profondità misteriose dell’inconscio, la psicologia collettiva costruiva una precisa immagine delle logiche del conflitto. In altre parole, ‘inventava’ quella figura ambivalente dell’inconscio collettivo cui il Novecento avrebbe guardato con orrore e con attrazione.
Damiano Palano è laureato in Scienze politiche ed è dottore di ricerca in Rappresentazioni e comportamenti politici. Attualmente è borsista dell’Università Cattolica di Milano, svolge attività di ricerca presso la Facoltà di Scienze politiche dello stesso Ateneo e collabora con il Centro di ricerca «Arti e mestieri». Ha pubblicato alcuni saggi sulla scienza politica in Italia e sugli aspetti istituzionali e organizzativi connessi alle trasformazioni produttive.
INDICE
Introduzione. L'uomo della folla
I. I barbari
1. "Un sanguigno tramonto di fine secolo"
2. Una risposta irrazionale?
II. Nella penombra della civiltà
1. Il viaggio negli "abissi"
2. Venere e sangue: il mondo criminale di Cesare Lombroso
3. Gli strati della psiche
4. Ribelli e "mattoidi"
III. Il fondo dell'uomo
1. Folle letterarie
2. "Il fango che piglia fuoco"
3. Le origini della psicologia collettiva: le folle di Hippolyte Taine
4. Istinto, alcol, dissoluzione
5. Psiche e società
IV. Fermentazioni
1. Il popolo delle epidemie psichiche
2. Psicosi epidemiche
3. La "psicologia collettiva" di Enrico Ferri
4. La "fermentazione psicologica"
5. La "folla" e la classe
6. Verso l'inconscio collettivo
V. Il fuoco sotto la cenere
1. "Contaminato dalla folla o preso da una femmina": Scipio Sighele e la psicologia collettiva
2. Una plebe "saldamente onesta"
3. Il lievito delle passioni
4. La responsabilità nella folla
5. Coppie criminali
6. La psicologia dell'atomo
VI. La metamorfosi
1. L'"era delle folle"
2. Il "diluvio socialista" e il "liberalismo individualista": Gabriel Tarde e la legge dell'imitazione
3. Sette criminali
VII. L'ombra della fine
1. In balìa del caso
2. L'"anima della folla"
3. Ipnosi e suggestione
4. Antropologia criminale e psicologia collettiva
5. La violenza e la frode
6. Quale suggestione?
VIII. Il soffio della modernità
1. Il crepuscolo dei popoli
2. La Chimera occhiuta
3. Plebe e popolo
4. "Facili filosofi dell'aneddoto"
5. Le folle del futuro
Conclusione
INTRODUZIONE
L'uomo della folla
Indiscusso capostipite di un genere cinematografico destinato a consumare fulmineamente le proprie fortune, il celebre The Night of the Living Dead, girato nel 1968 dal regista statunitense George Romero, imbastiva in uno scenario urbano claustrofobico un canovaccio che poneva a protagoniste assolute ed onnipresenti, orde di feroci morti viventi risvegliate da misteriose cause astrali. Rispetto all'iconografia ripresa dai rituali voodoo e già utilizzata con successo dal cinema di Hollywood, i nuovi zombie avevano caratteristiche per molti versi inedite. Se nelle vecchie produzioni degli anni Venti, i morti viventi erano stati semplicemente gli esecutori passivi di ordini criminali impartiti da malvagi stregoni, nella pellicola di Romero assumevano un volto ben più inquietante, che dava corpo alle ombre del più radicale conflitto metropolitano. Raffigurati come sanguinari e ferocissimi cannibali, gli zombie vagavano infatti nel panorama degradato delle città americane, guidati soltanto da un irrefrenabile e inesauribile desiderio di carne umana. Fatalmente, molti videro nelle immagini agghiaccianti dei branchi antropofagi un'anticipazione inquietante degli eventi che di lÏ a poco avrebbero travolto l'ordine apparentemente intangibile delle democrazie occidentali, e non mancò neppure chi scorse in quelle scene una sorta di istigazione alla violenza anarchica di cui sarebbero state teatro le periferie statunitensi. Dietro il volto terrificante dei morti viventi non era infatti troppo difficile intravedere le fattezze reali, ma non meno allarmanti, delle rivolte 'selvagge' condotte dalle minoranze nere nei ghetti nordamericani o delle battaglie innescate dal movimento studentesco contro quelle istituzioni e quei valori di cui avrebbe dovuto essere il più fiero ed interessato sostenitore. Ma forse, ancor più di quelle scene di radicale contrapposizione (le cui modalità espressive si inscrivevano nonostante tutto all'interno del repertorio consolidato della protesta politica), le immagini dei feroci zombie evocavano la dinamica di un conflitto i cui contorni negli anni seguenti si sarebbero riproposti sostanzialmente immutati in molte metropoli occidentali. Un conflitto 'selvaggio', 'primordiale', ed ëeccessivo', ma comunque tanto lontano dagli "eccessi" della pervasiva politica novecentesca, da essere considerato sovente come "impolitico" o "prepolitico"...