Era più piccola di Benito ma si comportava come una sorella maggiore, non si interessava di politica ma cercava di influenzare il potente fratello e pagò un prezzo altissimo per il cognome che portava: Mussolini. Edvige attraversa la parabola del fascismo come una comprimaria nell'ombra, eppure c'è sempre ed è a lei che il Duce affida nel 1930 i suoi preziosi diari. Esercita un forte ascendente sul dittatore, lo sa e se ne avvale non per indirizzarne le mosse, ma per perorare le cause di quanti si rivolgono a lei non potendo arrivare a Benito. L'uomo più potente d'Italia non riesce a dire no alla sorella, anche se nel privato sbuffa, persino con l'amante Claretta, per la sua invadenza (è assai diversa, per questo, da un'altra sorella vissuta nell'ombra, quella Paula Hitler con cui l'autore propone un intrigante parallelo). Rachele non la sopporta, è sempre propensa a immischiarsi in affari non suoi. Ha da ridire sul matrimonio della nipote Edda, e Benito alla fine è costretto a evitare ogni contatto tra la moglie e la sorella. La genuinità romagnola si avverte nel suo modo d'essere, ora estroverso ora pudico. È una provinciale e non può giocare a fare l'intellettuale anche se ambirebbe all'alta società dove parte della sua famiglia è entrata non per censo ma di forza, attraverso la politica in camicia nera. La sua storia privata ha sullo sfondo la grande storia: il fascismo, la dittatura, le leggi razziali e l'antisemitismo, il secondo conflitto mondiale, la guerra civile, la fine della guerra che per la sua famiglia e i suoi affetti si tradurrà in un bagno di sangue.
Dalla proclamazione dell'armistizio l'8 settembre all'imbarco del Re e del governo Badoglio sulla corvetta Baionetta a Ortona il giorno successivo trascorrono circa trenta ore. In questo lasso di tempo l'Italia implode, con una velocità e con conseguenze che non hanno precedenti nella storia. Il precipitoso abbandono di Roma da parte dei vertici istituzionali e militari provoca il crollo verticale dello Stato. Fu una fuga o un allontanamento? Tragedia e farsa si sono spesso mescolate nella narrazione storica quanto nelle varianti della vulgata e della dietrologia. Ma come e perché le cose andarono in quel modo è possibile ricostruirlo, come fa Marco Patricelli in questo libro prezioso, attraverso il raffronto incrociato delle fonti d'archivio, degli atti processuali, della diaristica e della memorialistica dei protagonisti, nonché dei contributi individuali di spettatori della fuga di Pescara (e di Ortona), e ancora con l'analisi delle versioni emerse a distanza di anni. Una potente rievocazione ora per ora, a 80 anni dagli eventi, che mette in luce la portata storica, le incongruenze e le mistificazioni sedimentate nel tempo, insieme a molti aspetti inediti. Una ricostruzione che per la prima volta mette in risalto come quel 9 settembre gran parte dei fili furono mossi - e male - proprio da Pescara. Da qui partirono ordini e informative, qui si decise di fuggire via mare, qui de Courten cercò di salvare il salvabile, qui Badoglio si imbarcò per primo sulla Baionetta senza neanche dirlo a Vittorio Emanuele che lo cercava sul molo di Ortona. E a Chieti, dopo lo scioglimento dello Stato maggiore generale, fu sciolto il Regio Esercito e l'Italia iniziò la sua rapida caduta.
“La guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai militari”. Per non farla fare solo ai militari i politici dell’Italia unita ci hanno messo di loro, riuscendo a realizzare un perverso mix che ha portato a una lunga teoria di eclatanti sconfitte. A Custoza si perde una battaglia già vinta perché La Marmora e Cialdini conducono una guerra privata. A Lissa l’inesperto ammiraglio Persano e i suoi vice neppure si parlano, e i sogni di gloria vanno a picco assieme alle navi e ai marinai. A Caporetto Badoglio, pur sapendo che gli austro-tedeschi stanno per attaccare, se ne va a dormire. L’attacco alla Grecia soddisfa solo le manie di grandezza di Ciano e Mussolini e si incanala subito verso un clamoroso disastro che fa sogghignare mezza Europa. Una tragedia che è la prova generale della campagna di Russia… Ma le sconfitte non hanno pesato solo sul piano militare. Spesso sono state l’occasione per scatenare psicodrammi assurdi o ancora più ridicole cacce a capri espiatori di comodo, rivelando tutta la fragilità della nostra identità nazionale, come accaduto con il disastro di Adua e la caduta di Crispi. In altri casi hanno prodotto una presa di coscienza e uno scatto di orgoglio che ha mutato, in meglio, la storia successiva. Cinque battaglie, cinque sconfitte che hanno contribuito a ‘formare’ l’Italia.
La vittoria ha mille padri ma la sconfitta è orfana. Di certo non in Italia, dove è figlia legittima di uomini che hanno fatto la storia col sangue di altri uomini. Loro malgrado.
«La guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai militari». Per non farla fare solo ai militari i politici dell’Italia unita ci hanno messo di loro, riuscendo a realizzare un perverso mix che ha portato a una lunga teoria di eclatanti sconfitte. A Custoza si perde una battaglia già vinta perché La Marmora e Cialdini conducono una guerra privata. A Lissa l’inesperto ammiraglio Persano e i suoi vice neppure si parlano, e i sogni di gloria vanno a picco assieme alle navi e ai marinai. A Caporetto Badoglio, pur sapendo che gli austro-tedeschi stanno per attaccare, se ne va a dormire. L’attacco alla Grecia soddisfa solo le manie di grandezza di Ciano e Mussolini e si incanala subito verso un clamoroso disastro che fa sogghignare mezza Europa. Una tragedia che è la prova generale della campagna di Russia…
Ma le sconfitte non hanno pesato solo sul piano militare. Spesso sono state l’occasione per scatenare psicodrammi assurdi o ancora più ridicole cacce a capri espiatori di comodo, rivelando tutta la fragilità della nostra identità nazionale, come accaduto con il disastro di Adua e la caduta di Crispi. In altri casi hanno prodotto una presa di coscienza e uno scatto di orgoglio che ha mutato, in meglio, la storia successiva.
Cinque battaglie, cinque sconfitte che hanno contribuito a ‘formare’ l’Italia.
La guerra era piombata in casa all'improvviso nell'estate del 1943. Da sud risalgono gli angloamericani, da nord scendono le truppe tedesche: chi risaliva la Penisola portava la fine della guerra, chi calava da nord ne voleva la prosecuzione. Due macchine belliche spietate. I primi crimini di guerra sul territorio italiano li commettono gli americani, che si propongono come amici e liberatori, ma non si fanno scrupolo di passare per le armi i soldati italiani che si sono arresi. Poi toccherà ai tedeschi, e saranno all'altezza della fama di crudeltà conquistata in Polonia e in Unione Sovietica. L'Italia è preda, gli italiani sono predati, in balia degli eserciti stranieri, che siano occupanti o alleati. La morte e risurrezione del fascismo sotto tutela delle baionette di Hitler aggiungono un elemento di incrudelimento alla contrapposizione militare, perché impongono di scegliere, e non sempre si può scegliere. C'è poi un'altra guerra, la vita di tutti i giorni: fame, paura, illusioni, sofferenze e speranze. Nella lotta per la sopravvivenza, la popolazione travolta dagli eventi diventa vittima e carnefice della guerra civile. Venti mesi durissimi: mancava tutto, non solo la libertà che qualcuno negava, qualcun altro sognava, qualcuno cercava di conquistare e qualcun altro ancora intendeva regalare con l'arroganza del vincitore. La libertà sarebbe arrivata col pane e con la pace. E non necessariamente nello stesso ordine.
La guerra era piombata in casa all'improvviso nell'estate del 1943. Da sud risalgono gli angloamericani, da nord scendono le truppe tedesche: chi risaliva la Penisola portava la fine della guerra, chi calava da nord ne voleva la prosecuzione. Due macchine belliche spietate. I primi crimini di guerra sul territorio italiano li commettono gli americani, che si propongono come amici e liberatori, ma non si fanno scrupolo di passare per le armi i soldati italiani che si sono arresi. Poi toccherà ai tedeschi, e saranno all'altezza della fama di crudeltà conquistata in Polonia e in Unione Sovietica. L'Italia è preda, gli italiani sono predati, in balia degli eserciti stranieri, che siano occupanti o alleati. La morte e risurrezione del fascismo sotto tutela delle baionette di Hitler aggiungono un elemento di incrudelimento alla contrapposizione militare, perché impongono di scegliere, e non sempre si può scegliere. C'è poi un'altra guerra, la vita di tutti i giorni: fame, paura, illusioni, sofferenze e speranze. Nella lotta per la sopravvivenza, la popolazione travolta dagli eventi diventa vittima e carnefice della guerra civile. Venti mesi durissimi: mancava tutto, non solo la libertà che qualcuno negava, qualcun altro sognava, qualcuno cercava di conquistare e qualcun altro ancora intendeva regalare con l'arroganza del vincitore. La libertà sarebbe arrivata col pane e con la pace. E non necessariamente nello stesso ordine.
In breve
Il volume di Patricelli è un’efficace, impressionante ricostruzione di quei giorni. L’autore, che unisce la preparazione dell’accademico alla capacità di racconto del giornalista, ha scritto un saggio esemplare, animato dal ritmo narrativo e da uno sdegno non celato per i comportamenti di chi doveva pensare al popolo italiano e invece pensò anzitutto alla propria salvezza, mascherandola da ragion di Stato. Giordano Bruno Guerri,“il Giornale”
Il piccolo re e il grande dittatore. Novanta ore di cinismo e incapacità per azzerare uno Stato, fra l’alba del 9 e il pomeriggio del 12 settembre 1943. Marco Patricelli racconta con stile serratissimo l’incredibile sequenza di eventi che mise fine al regime e consegnò l’Italia a un destino di macerie.
Indice
Introduzione - Prologo. Azione e reazione - I. Il re in fuga da Roma - II. Mussolini in fuga da Campo Imperatore - Epilogo. Memoria condivisa e memoria manipolata - Bibliografia - Indice dei nomi
In breve
È l’unico a essersi fatto rinchiudere volontariamente ad Auschwitz e tra i pochi a essere riuscito a evadere. Ha combattuto il nazismo ed è finito stritolato tra le fauci dello stalinismo. Questa è la storia del ‘più coraggioso tra i coraggiosi’.
Il tenente di cavalleria Witold Pilecki nel 1940 ha 38 anni. Sotto falso nome si lascia arrestare, come fosse per caso, nel corso di una retata della Gestapo ed entra ad Auschwitz per raccontare al mondo cosa accade: il suo è il primo documento dai campi arrivato agli alleati. È abile, astuto e fortunato. Evade rocambolescamente nel 1943, poi si batte nell’insurrezione eroica e disperata di Varsavia del 1944, ma finisce nuovamente prigioniero dei tedeschi fino alla fine della guerra. Quando torna in Polonia, sa già che gli ideali per i quali ha speso i suoi anni e i suoi affetti non hanno trovato terreno fertile nella sua patria. È il tempo dell’Armata Rossa e dell’indottrinamento sovietico: tutto quello che Pilecki ha fatto non conta nulla per le autorità comuniste. È un uomo scomodo, un ‘traditore’, un ‘agente imperialista’, un ‘nemico del popolo’ da eliminare. Il suo destino è segnato: condannato tre volte a morte, viene giustiziato il 25 maggio 1948. Su di lui e su quello che ha fatto cala il silenzio. La damnatio memoriae è assoluta, vietato persino pronunciare il suo nome. Ancora oggi, a venti anni dalla caduta del Muro di Berlino, i familiari ignorano dove sia sepolto.
Indice
Introduzione - Ringraziamenti - I. Per la patria - II. Per la speranza - III. Per la libertà – Epilogo - Appendice - Bibliografia ragionata - Indice dei nomi
Il piccolo re, il grande dittatore, novanta ore di cinismo e di incapacità sufficienti per azzerare uno Stato. Marco Patricelli racconta l’incredibile e grottesca sequenza di eventi che dal 9 al 12 settembre 1943 sconvolse l’Italia e la consegnò a un destino di macerie.
«La colonna di sette automobili aveva già lasciato Roma illuminando le strade ancora buie e deserte con la luce azzurrognola dei fari schermati. Vittorio Emanuele, la regina Elena, il generale aiutante di campo del re e il tenente colonnello Buzzaccarini erano a bordo di una Fiat 2800 nera, guidata dall’autista che faceva incredibilmente sfoggio del guidone reale: noblesse oblige, ma a nessuno viene in mente che la nobiltà vorrebbe ben altro contegno che una fuga nell’oscurità.»
È così, alle prime luci del 9 settembre 1943, ad armistizio appena proclamato, che il re abbandona la Capitale per fuggire al sud, lontano dalla vendetta tedesca. In Italia intanto si spara e si muore. Tra quell’alba e il pomeriggio del 12 settembre il Paese si disgrega e precipita nel caos di un vuoto istituzionale senza precedenti. In meno di quattro giorni, e nel raggio di pochissimi chilometri, si compiono due fughe eccellenti: quella tragicomica del re dal porto di Ortona, in Abruzzo, e quella rocambolesco-spionistica di Benito Mussolini dalla prigione dove è stato rinchiuso, sul Gran Sasso. Questa è la storia di quelle fughe, delle loro conseguenze e della vigliaccheria di chi poteva e doveva agire diversamente.
Il 19 luglio 1943 Roma viene bombardata, risucchiata anch'essa come stazione altamente simbolica della via crucis della guerra. È la perdita dell'illusione e dell'innocenza. L'allarme era risuonato attorno alle 10 e le sirene si erano sovrapposte nella lacerante cacofonia dell'appello a cercare un rifugio. I romani si rintanano negli scantinati quando già l'eco sordo degli scoppi taglia l'aria, le strutture degli edifici non centrati dai proiettili sembrano scricchiolare per effetto dello spostamento d'aria, nel buio c'è chi prega per sperare, chi chiude gli occhi per non vedere, chi aspetta che la morte passi senza ghermire anche quel luogo, chi piange e chi soffoca ogni sentimento, ogni emozione. Quando il rumore delle ondate d'assalto si perde verso l'orizzonte, i quartieri bombardati sono avvolti da un fumo giallastro, il tanfo dell'esplosivo e delle case che bruciano rende l'aria secca, irrespirabile...