Due linee melodiche, quasi due colori. L'una si muove incerta, si effonde, trascolora; a un tratto sembra ricoprire l'intera gamma dell'iride, salvo poi stemperarsi adombrandone nuovamente lo spettro, vivificato ormai nella speranza o forse nel ricordo. Rappresenta la volontà umana all'ondivaga e incessante ricerca di se stessa nell'altro. La seconda procede invece su tre sole note, sicura: è l'ignoto, compagno fedele e discreto, l'assolutamente presente, l'inguaribilmente ineffabile. Nient'altro chiede la musica di Arvo Pärt per porsi un compito smisurato. Tra grido e preghiera, esercizio e intuizione, profondità e rigore compositivo, inquietudine e desiderio di redenzione - da ultimo, tra sussulti della carne e pulsioni dello spirito -, la musica di Arvo Pärt mira all'obiettivo metafisico primo: svelare l'impronta indelebile dell'Uno nel cuore stesso della molteplicità; suonare la danza dell'universo, che è lì, celata tra i suoi scampoli, e chiede solo di essere ricomposta, quantomeno ascoltata. Nella conversazione con Enzo Restagno, Arvo Pärt rievoca le tappe di un cammino tortuoso e affascinante, dedito alla più rabdomantica delle arti, quella di estrarre note dal silenzio; gli incontri decisivi, i motivi celati dietro Tabula rasa, Fratres, Magnificat, il rapporto difficile con l'establishment sovietico, e quello non meno problematico con una critica colta alla sprovvista da uno stile tanto lontano dal paesaggio musicale coevo. Pärt vi approda dopo aver attraversato le esperienze musicali del Novecento, alla fine di un lungo silenzio suscitato dalla sconvolgente scoperta - artistica ed esistenziale - del repertorio gregoriano, in cui avverte un mistero dimenticato e, insieme, una nuova via che deve essere solcata perché esso torni alla luce. Nasce così lo stile "tintinnabuli", di cui "Allo specchio" - completato da testimonianze, brevi interviste e saggi di più ampio respiro - ripercorre la genesi, indagandone le peculiarità espressive, tra aneddoti personali ed esplorazioni armoniche. Una musica incantatoria, lontana da sterili virtuosismi, che alla proliferazione abnorme di stimoli propria del contemporaneo risponde porgendo il dono essenziale dell'«attesa», dimensione tradita e offesa nei nostri commerci quotidiani; la sola in grado di riaprire il tempo a nuovi orizzonti di senso.
Nella loro vita non breve Schönberg e Stravinsky si incontrarono una sola volta, nel 1912, alla Krolloper di Berlino: fu uno scambio cordiale e pieno di stima, perché da una parte c'era "Petruska" e dall'altra il "Pierrot lunaire", che qualche giorno dopo Igor avrebbe ascoltato alla Choralion Saal. Passarono gli anni e i due divennero, sia pure con caratteristiche diverse, celebrità, ma non si incontrarono mai più. Si sfiorarono spesso, si intravidero da lontano, ma i contatti si ridussero a qualche dichiarazione un po' maliziosa, amplificata dai giornali e trasformata in opposizione radicale da seguaci ed esegeti. Oggi la storia di questi due geniali musicisti, che in fondo si sono sempre apprezzati, merita di essere raccontata in maniera più oggettiva. Le loro vicende si svolsero prima a Vienna, San Pietroburgo, Berlino, Parigi, poi a New York, Los Angeles, nel mondo intero. Su questi scenari antichi e moderni risuonano, come voci di un coro, le testimonianze di Richard Strauss, Busoni, Hofmannsthal, Kandinskij, Zweig, Rilke, Werfel, Thomas Mann, Rimskij-Korsakov, Diaghilev, Debussy, Picasso, Gide, Valéry, Auden... Musica, pittura, architettura, poesia e meditazioni religiose si propagano fra queste pagine come echi profondi degli scenari dell'esilio, dell'impatto con nuove realtà sociali, delle persecuzioni razziali, della guerra.