"Il Bruco Arlecchina torna in Cina" di Silvia Rizzello, con illustrazioni di Sai Babu Volpe e traduzione in cinese di Ling Yang, è una favola in rima. Una filastrocca fatta di tanti volti, intrecci di vite, cammini, e menti operose". È un vero e proprio progetto didattico-solidale che incoraggia l'importanza dell'interculturalità nelle relazioni umane. L'opera racconta il viaggio del Bruco Arlecchina che, "dopo aver girato il mondo in un grande girotondo, aveva nostalgia del suo paese, quello con la lunga muraglia cinese, le case con i tetti all'insù e l'immenso cielo blu". L'autrice si è fatta solo scrivente riportando in rima pensieri, atmosfere e parole di una classe di 1° elementare durante un laboratorio di mediazione interculturale. Il progetto è stato realizzato con il sostegno della Fondazione CEI Migrantes. Età di lettura: da 6 anni.
Nella stesura di questo lavoro c’è un solo punto di partenza: lo sguardo, sempre diverso ma vivo, di tanti bambini, giovani e adulti eredi di una o più culture in movimento nel Belpaese. Un transito di culture, questo, che produce inizialmente un senso di “stranierità”, il primo step di un processo in cui l’entrare in contatto con una persona di cultura straniera, sconosciuta, diversa, obbliga al “confronto/scontro” tra menti diverse.
I disagi che ciò comporta coinvolgono tutti (autoctoni, vecchi e nuovi arrivati), senza alcuna distinzione di sorta (studenti, dirigente, insegnanti, personale ausiliario, amministrativo, esperti esterni, incluso lo stesso mediatore interculturale).
Quanto accade nella Scuola, dunque, non è altro che lo specchio fedele di ciò che avviene fuori, nella vita di tutti i giorni.
Le nostre radici culturali, che devono pur restare quale tratto distintivo dell’identità di ciascun individuo, dovrebbero essere considerate una delle tante sfumature di una tavolozza di colori da cui tutta la collettività possa attingere e trarne giovamento, con l’obiettivo di cogliere il meglio di ogni cultura per una società interconnessa in cui ognuno possa occupare un posto, rivestire una funzione, quella più consona alle proprie caratteristiche, attitudini ed esperienze, per la realizzazione del bene comune. Meglio, quindi, educare alle sfumature, alla pluralità, insegnare che nelle diversità c’è più gusto.
Il metodo proposto in queste pagine, adottato e sperimentato dall’autrice, è da intendersi come un preparare il terreno a diventare fertile in una realtà sempre più plurale, a misura di differenze e in un mondo così “networkizzato” come quello di oggi, dove i confini spazio-temporali stanno scomparendo.
Perché nella mediazione interculturale ciò che conta non è il risultato, come dall’alto di una cattedra ci hanno insegnato, ma quello che accade proprio dal basso, in maniera orizzontale; appunto, tra i banchi di scuola.