La capacità tutta umana di raccontare è un'arma di emancipazione, ma anche di controllo. In questo lavoro di indagine letteraria e storica, Edward W. Said getta luce sulle complicità della cultura occidentale con il progetto egemonico di vecchi e nuovi imperi. Da Cuore di tenebra di Conrad a Mansfield Park di Jane Austen, dall'Aida di Verdi a Lo straniero di Camus, quest'opera spinge a rileggere con occhio critico i grandi capolavori della letteratura, svelandone il retroterra ideologico a lungo ignorato. Allo stesso tempo, nelle opere di autori come Frantz Fanon, Aimé Césaire, C.L.R. James e Salman Rushdie, l'autore indica la grande ricchezza della letteratura di resistenza che si oppose, e si oppone, al dominio imperiale. Emerge così la realtà di un'attualità postcoloniale caratterizzata da culture ibride e interdipendenti. Un'opera ancora urgente, in un presente in cui il retaggio del colonialismo si mescola a nuove forme di imperialismo e profonde divisioni.
È nel dissenso che l'avventura, l'interesse, la sfida della vita intellettuale vanno cercati. E se è vero che gli mancano regole stabilite alle quali ispirarsi per sapere cosa dire o fare, è altrettanto certo che l'intellettuale che non voglia tradire la sua missione non ha né cariche da difendere, né territori da consolidare o custodire: è un esiliato e un emarginato, un dilettante che possiede la capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse, sa conquistare l'attenzione del pubblico, è pronto alla battuta e al dibattito più dei suoi avversari. È soprattutto, autore/attore di un linguaggio che dice la verità al potere.
Muovendo dall'accezione più ampia del termine - orientalismo come insieme delle discipline accademiche che studiano usi, costumi, letteratura e storia dei popoli orientali - Said affronta l'idea della diversità ontologica tra Oriente e Occidente ispiratrice di tante pagine di autori diversi e lontani, da Eschilo a Victor Hugo, da Dante a Marx, chiudendo l'indagine sul complesso di istituzioni create dall'Occidente per esercitare il proprio dominio sul mondo Orientale.
Questi saggi coprono un arco di circa trent'anni, durante i quali Said è stato critico musicale di importanti riviste e quotidiani statunitensi. Ma l'idea di "critica" che sta dietro alla scrittura di Said è quella della "teoria critica" di uno dei suoi grandi ispiratori, Theodor W. Adorno. Fare critica musicale significa, per Said, compiere un esercizio poliedrico, che incontra la musica "ai limiti" della musica, situandola al crocevia di progetti filosofici e letterari, fenomeni sociali e drammi storici. Ai confini di una certa opera musicale, di un certo evento concertistico, di una certa poetica compositiva, Said fa riemergere un progetto estetico, e ai confini del progetto estetico una politica della musica, una politica dell'arte. Per chi si scrive musica? Per chi la si esegue? Che visione del mondo si nasconde dietro il contrappunto bachiano, la forma sonata beethoveniana, l'improvviso schubertiano? È lo stesso esibirsi in una sala da concerto ottocentesca o davanti al più moderno dei microfoni digitali? Interpretare significa installarsi fedelmente nel passato dell'opera, o installare l'opera nell'urgenza del nostro presente? Said rilegge attraverso il prisma di queste domande grandi opere musicali (Erwartung di Schoenberg, l'amatissimo Richard Strauss, la Tetralogia di Wagner), progetti e istituzioni che hanno fatto la storia della musica (il Festival di Bayreuth, il Metropolitan Opera di New York), figure di interpreti leggendari Arturo Toscanini, Glenn Gould). Prefazione di Daniel Barenboim.
Edward W. Said resta tra gli intellettuali più stimati del nostro tempo, per l'importanza dei suoi studi critici ma anche per la coraggiosa militanza in difesa dei diritti umani. Nasce a Gerusalemme nel 1935, erede di una ricca famiglia palestinese cristiana, e conduce i suoi primi studi nel prestigioso Victoria College del Cairo. Il futuro re di Giordania Hussein e Omar Sharif sono tra i suoi compagni. Ma il giovane Edward rifiuta il modello educativo dei cosiddetti Wog (Westernised Oriental Gentlemen) e incoraggiato dal padre, imprenditore ambizioso ed esigente, si trasferisce in un college del Massachusetts. Nel 1948, dichiarato lo stato di Israele, la sua famiglia è espropriata di tutti i beni. Edward decide di combattere per i diritti del popolo palestinese, per uno stato binazionale, laico e democratico. Diventa un rifugiato politico. Vita intensa la sua, brillante ma anche scomoda, segnata dalla sofferta condizione dell'esilio ma anche da una ricchissima esperienza, in bilico tra i luoghi più prestigiosi della cultura occidentale e un Medioriente agitato da ingiustizie e conflitti. Un'autobiografia che contiene l'avventura degli incontri e delle idee ma anche la drammaticità della lotta e dell'esclusione. Al suo apparire, quest'opera ha suscitato un feroce dibattito sui giornali americani, israeliani e inglesi, come a dimostrare che l'infaticabile impegno di Said continua ancora a generare fecondi insegnamenti e inquietudini. Un testamento spirituale.
"Mi concentrerò su alcuni grandi artisti e sul modo in cui, alla fine della vita, la loro opera e il loro pensiero abbiano acquisito un nuovo linguaggio che vorrei definire stile tardo." Edward Said descriveva così il progetto al quale aveva dedicato oltre vent'anni di studio, diversi cicli di conferenze e lezioni universitarie, e che lo impegnava ancora al momento della morte. Adorno, Beethoven, Richard Strauss, Benjamin Britten, Tornasi di Lampedusa, Luchino Visconti, Glenn Gould, Jean Genet, come pure Mozart, Euripide, Kavafis, Thomas Mann. Nelle loro ultime prove - a differenza di quanto accade, per esempio, con Rembrandt, Matisse, Sofocle, Shakespeare, Verdi - non si avverte una pacifica risoluzione delle contraddizioni, una serena compiutezza, bensì "intransigenza", "difficoltà", "disgregazione", a tratti una "feroce militanza contro il proprio tempo", un anacronismo perseguito con ostinazione. È proprio questa "tardività inconciliata" ad attrarre maggiormente l'interesse di Said, che la esplora in quanto cifra stilistica più che per le implicazioni biografiche e autobiografiche, alle quali pure non era e non poteva essere insensibile, non da ultimo per la consapevolezza della propria malattia e dunque della mancanza di tempo. Lo scandaglio critico insiste sul linguaggio con cui il tema viene declinato nelle opere originali e, in alcuni casi privilegiati, nelle riletture e riscritture successive, talvolta realizzate con mezzi differenti.
Dopo aver assistito al crollo delle torri gemelle nel 2001 e un anno prima della morte, Edward Said rivendica la possibilità di "criticare l'umanesimo in nome dell'umanesimo". In contrapposizione a un cosmopolitismo elitario e a una deriva nazionalistica chiusa su se stessa, Said rilancia un nuovo umanesimo che recupera la precisione filologica, l'interpretazione critica delle fonti, la sensibilità storica della tradizione umanistica europea, aprendosi al dialogo con culture distanti. Ripercorrere la storia della cultura con lo sguardo filologico significa per l'autore ricostruire gli intrecci e le condivisioni che caratterizzano i rapporti tra tradizioni diverse, sia pure nella conflittualità, come i rapporti tra mondo arabo, ebraico e cristiano. La filologia, come scienza critica della lettura, risulta quindi fondamentale per una conoscenza umanistica, in quanto antidoto contro lo stravolgimento dei testi sacri e profani quotidianamente operato dal linguaggio del potere e dei media. Inizialmente concepiti per il pubblico accademico, destinatario privilegiato di tutta la sua vita e principale referente del suo insegnamento umanistico, questi scritti presentano un viaggio affascinante fra i testi e le parole. Insieme ad alcune delle voci più autorevoli del dibattito critico-filologico del Novecento - Auerbach, Spitzer, Poirier - Said definisce i tratti di un nuovo umanesimo militante adeguato a una visione autenticamente universalistica.
Ultimo frutto di uno sforzo instancabile per far conoscere la questione palestinese nel mondo, questi saggi affrontano temi come la seconda intifada e il cosiddetto processo di pace (che Said definisce una sorta di "pace fast-food" sorretta da un "malevolo sentimentalismo"). L'autore condanna la guerra in Iraq e la "road map", progetto che non mira tanto alla pace quanto piuttosto alla pacificazione dei palestinesi. Spiega con chiarezza perché la reazione americana all'11 settembre ha ulteriormente destabilizzato il Medio Oriente, ma trova anche motivi di speranza: come la Palestinian National Initiative, organizzazione attivista di movimenti di base che condividono l'idea nascente di una democrazia, inaudita per le autorità palestinesi.
Il termine "orientalismo" indica i diversi modi in cui la cultura europea ha cercato di conoscere e appropriarsi dell'Oriente, ricavandone una nozione collettiva che ha permesso di identificare un "noi" europei in contrapposizione agli "altri" non europei. L'analisi di Said muove dall'accezione più classica - orientalismo come insieme delle discipline accademiche che studiano usi, costumi, letteratura e storia - per poi passare all'esame dell'orientalismo come concezione culturale fondata su una distinzione ontologica tra Oriente e Occidente, fonte di molte opere di scrittori e pensatori diversi e lontani, da Eschilo a Victor Hugo, da Dante a Marx.
Un lavoro di indagine letteraria e storica sulle complicità della cultura con il progetto egemonico di vecchi e nuovi imperi, da "Cuore di tenebra" di Conrad a "Mansfield Park" della Austen, dall'"Aida" di Verdi a "Lo straniero" di Camus. Un'opera che intende spingere a rileggere i grandi capolavori della letteratura occidentale. Analizzando le opere di autori come Frantz Fanon, Aimé Césaire, C.L.R. James e Salman Rushdie, l'autore indica la grande ricchezza della letteratura di resistenza che si oppose, e si oppone, al dominio imperiale. Emerge così la realtà di un mondo post-coloniale caratterizzato da culture ibride e interdipendenti.