«Un singolare disprezzo della parola, quasi un ribrezzo di fronte alla parola si è impossessato dell'umanità. La nobile fiducia che gli uomini possano l'un l'altro, attraverso la parola e la lingua, convincersi è andata radicalmente persa». Sono parole che Hermann Broch scriveva nel 1934 e sembrano sintetizzare il quadro politico internazionale ricostruito da Christian Salmon. Siamo passati in pochissimi anni dalle ideologie e dalle grandi narrazioni epocali al trionfo dello storytelling con Obama, Macron e Renzi: una vera e propria arte del racconto della realtà che fa perno sull'emozione. Poi, all'improvviso e fuori di ogni previsione, è esploso un fenomeno nuovo che trova in Trump la sua espressione più piena, ma ha analoghi in tutto il mondo, da Bolsonaro a Salvini, da Orban a Erdogan. È il passaggio dalla story allo scontro, dall'intreccio alla trasgressione, dalla suspense al panico. Finiti i racconti capaci di ordinare gli avvenimenti, senza più eroi che fanno la storia, né storie in senso proprio, eccoci catapultati in un tempo in cui la vita politica è ritmata dallo shock.
«Una storia di lealtà e tradimento. Di delitto e castigo. L’epopea di un terrorista che era anche un poeta. Tutto questo è Jakov Blumkin. L’eroe che, sopravvissuto alle situazioni più estreme, fu tradito dal suo amore per una rivoluzionaria intrepida come lui, in nome degli interessi superiori di una Rivoluzione, essa stessa tradita. Solo adesso ho capito che ero ossessionato da lui perché volevo raccontare un fallimento: quello di una generazione, la mia, che voleva cambiare il mondo. Volevo tornare al tempo in cui le masse irrompevano sul palcoscenico della Storia, ed era la Storia in persona che dettava le sue parole.»
Un passato bolscevico riemerge da un baule in una casa lungo la Marna. Un trasloco, una storia privata e una storia pubblica, due vite che si intrecciano, quella personale di Christian Salmon e quella di un personaggio leggendario della Rivoluzione d’Ottobre, Jakov Blumkin. Inizia così il viaggio di Salmon che insegue in tutta Europa la vita epica di Blumkin e al tempo stesso la sua stessa vita, il tempo in cui era stato anche lui un bolscevico. Un bolscevico per modo di dire, certo, ma pur sempre un bolscevico. Blumkin era un čekista e un poeta, un mistico e un assassino, fu amico dei più grandi poeti e dei boia della Lubjanka. Era l’uomo dai mille volti: ora il viso sfilato, ora appesantito; in alcune foto sembra avere vent’anni, in altre ne dimostra quaranta. Eppure era lo stesso uomo, Jakov Blumkin, alias ‘Il Lama’, alias ‘Sultano Zade’. O ‘Živoj’ che significa ‘il Vivo’, come lo aveva soprannominato Majakovskij una sera che lo aveva incontrato in uno dei caffè letterari alla moda che frequentava. Ma per altri era un personaggio di finzione inventato e lanciato nel mondo dai servizi segreti sovietici come copertura per ogni affare losco. La sua breve apparizione sulla terra resterà segnata da due colpi di pistola: quello che sparò all’ambasciatore tedesco il 6 luglio 1918 e quello che mise fine alla sua vita il 3 novembre 1929, quando non aveva ancora trent’anni. Fra queste due detonazioni, la vita di Blumkin si dispiega in un cielo di congetture, come un fenomeno luminoso che si consuma sotto i nostri occhi.
Lo storytelling, ovvero l'arte di raccontare storie che utilizza i principi della retorica e dell'oratoria, nasce in contemporanea alla comparsa dell'uomo sulla terra, ma oggi viene spesso associato all'esercizio del potere. Il moderno homo politicus, costretto dalla rete e dai mass media a una continua ed esasperante esposizione, deve conoscerne ogni segreto e padroneggiarne le tecniche per sperare di emergere nella lotta politica nel "teatro della sovranità perduta". "Yes we can", "Lo mejor està por venir", "Le changement c'est maintenant" non sono solo slogan, ma incipit di storie che hanno conquistato un elettorato vorace di spettacolo. Nella Politica nell'era dello storytelling, Christian Salmon, che ha aperto un acceso dibattito sull'argomento, svela con gli ingranaggi della grande macchina narrante domandandosi se in questo nuovo circo mediatico non saranno proprio i governanti a fare la fine delle vittime sull'altare sacrificale della comunicazione.
L’arte di raccontare storie è nata quasi in contemporanea con la comparsa dell’uomo sulla terra e ha costituito un importante strumento di condivisione dei valori sociali. Ma a partire dagli anni Novanta del Novecento, negli usa come in Europa, questa capacità narrativa è stata trasformata dai meccanismi dell’industria dei media e dal capitalismo globalizzato nel concetto di storytelling: una potentissima arma di persuasione nelle mani dei guru del marketing, del management, della comunicazione politica per plasmare le opinioni dei consumatori e dei cittadini. Dietro le più importanti campagne pubblicitarie – ancor più dietro quelle elettorali vincenti (da Bush a Sarkozy) – si celano proprio le sofisticate tecniche dello storytelling management o del digital storytelling. Questo è l’incredibile inganno ai danni dell’immaginario collettivo svelato da Christian Salmon nel libro, frutto di una lunga inchiesta dedicata alle numerose applicazioni del fenomeno: il marketing conta più sulla storia dei brand che sulla loro immagine, i manager si servono di aneddoti per motivare i propri dipendenti, i soldati in Iraq si allenano su videogiochi progettati da Hollywood, gli spin doctor descrivono la vita politica dei loro clienti come in un racconto. L’autore ci mostra gli ingranaggi della grande “macchina narrante” che ha rimpiazzato il ragionamento razionale, ben più pervasiva dell’iconografia orwelliana della società totalitaria. Ma questo nuovo ordine narrativo non è un semplice linguaggio mediatico: il soggetto che vuole influenzare è un individuo immerso in un universo fittizio che ne filtra le percezioni, ne stimola le sensazioni, ne inquadra i comportamenti e le idee.