Tra il 1817 e il 1837 il mondo fu flagellato da una pandemia di colera, malattia fino a quel momento sconosciuta, che la scienza medica si rivelò impreparata ad affrontare. Morbo implacabile, dal decorso velocissimo, la sua diffusione fu favorita dall'organizzazione della società dell'epoca, caratterizzata da infrastrutture arretrate (servizi igienici, fognature, acquedotti) e dallo sviluppo dei traffici a livello mondiale. Subito interpretato come una nuova peste, il colera riaccese quella psicosi fatta di disperata volontà di resistenza, rassegnazione, rabbia e angoscia di fronte all'inesorabile aggressività della morte, che si era radicata nell'inconscio collettivo durante le pestilenze dei secoli precedenti, e che nell'Ottocento sembrava del tutto rimossa. Il libro ricostruisce gli eventi dell'epidemia che colpì violentemente Roma nel 1837, facendo ricorso ad autentici documenti del tempo: lettere, memorie, atti ufficiali delle istituzioni, cronache, articoli e testi letterari.
Una Roma "stalla e chiavica der monno" ma anche capitale della cristianità e dell'arte. La miseria della plebe, l'ignavia dell'aristocrazia, la corruzione e il cinismo del potere: è questa la Roma dei Papi tra Sette e Ottocento, tra Rivoluzione Francese e Unità d'Italia, rappresentata da Giuseppe Gioachino Belli nel suo grandioso monumento poetico in 32.000 versi in romanesco. Su questo affascinante sfondo storico, l'autore ricostruisce la biografia del letterato e del suddito, mettendone in risalto la caratteristica duplicità di atteggiamenti: l'avventura più radicale nel chiuso del suo studio e il purismo del poeta ufficiale; uno sfondo malinconico, apatico, e una perenne curiosità intellettuale; una eccezionale forza comica che si accompagna alla riflessione continua sul tema della morte. In una nuova edizione aggiornata, il saggio sulla vita, l'opera, e la sofferta psicologia del più grande poeta dialettale italiano.
Il romanesco ha conosciuto nei secoli profonde trasformazioni, in cui una costante sembra però evidente: il suffisso "-esco" lo connota come lingua delle classi sociali più basse. È stato a lungo la parlata dei servi, dei bulli, degli sbruffoni. Solo alla fine del Settecento, il dialetto diventa argomento di confronto, di polemica storico-letteraria, espressione di intellettuali colti e consapevoli. In questo panorama composito irrompe l'opera monumentale di Giuseppe Gioacchino Belli che dà voce alla plebe romana e nobilita il romanesco come lingua d'arte. Il volume è un'antologia della produzione dialettale fino alla fine dell'Ottocento, arricchita da ampie introduzioni e con brani riccamente commentati.