
«Due cose non si possono guardare in faccia: il sole e la morte» ha scritto La Rochefoucauld nelle sue Massime. La visione diretta della grande luce e del grande buio sono per noi intollerabili. Si può essere ciechi per troppa luce o per troppo buio. Per questo occorre abituarsi gradualmente all’una come all’altro. Ed è proprio così, per gradi, che queste Lezioni di tenebra ci portano al grande buio, al cuore nero della storia: Auschwitz.
In un racconto nutrito di biografia, che diventa anche biografia di una generazione, l’autrice esplora, pagina dopo pagina sempre più in profondità, il rapporto con sua madre, l’unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta alla Shoah, insieme al padre: ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi totalmente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua. Non soltanto una memoria sulla Shoah, ma un resoconto appassionato e allo stesso tempo lucido che punta a misurare l’intensità del contraccolpo nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell’impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel bisogno disperato di appartenere e nella condanna crudele di sentirsi estranei, comunque e dovunque.
È una mattina d’inverno del 1777 a Vienna quando Franz Anton Mesmer, il medico forse più noto della città, scende le scale che dagli alloggi notturni conducono alle stanze in cui esercita la professione. Fuori è buio pesto e fa freddo. Cinque minuti alla tastiera della glassarmonica, giusto qualche accenno di Mozart, Haydn o Gluck, sarebbero forse il modo migliore di cominciare la giornata. Ma Mesmer ha fretta di raggiungere il suo studio. Lo attende una visita importante, forse la più importante della sua carriera: deve esaminare la figlia cieca del funzionario imperialregio Paradis.
Della nuova paziente ha sentito dire tutto e il contrario di tutto. Che è brutta. Che è bella. Compresa nel suo dolore. Che si veste in modo poco adatto. Che suona il pianoforte meglio di quanto canti. Che ha una cataratta completa. Che finge soltanto di essere cieca. Solo su un punto sono tutti concordi: all’Imperatrice la ragazza sta enormemente a cuore dal giorno in cui, nella chiesa di corte degli Agostiniani Scalzi, ha cantato e suonato al suo cospetto commuovendola oltre ogni misura.
Per Mesmer, è chiaro, la giovane Paradis rappresenta un’occasione unica. Una volta accolta a corte, infatti, la sua figura di medico cesserebbe d’incanto di essere così controversa, e il suo metodo, la trasmissione del fluidum, la materia più fine che ha l’universo, attraverso l’uso di magneti e l’imposizione delle mani, sarebbe accettato da ministri e segretari, cameriere e valletti, padri e figli, e da tutte le fanciulle del Paese.
Il tempo di preparare lo studio, di sentire una carrozza arrivare e Mesmer si trova al cospetto del Segretario di corte e di Maria Theresia Paradis: una bambola pallida, imbellettata di cera, con una parrucca che sovrasta tutti, una drammatica cascata di pieghe nell’abito celestiale, gli occhi chiusi, la voce attutita come se fosse avvolta nella lana, il volto che assomiglia a un nido abbandonato da tempo.
Riuscirà Franz Anton Mesmer, medico tedesco in Vienna, genio per alcuni e ciarlatano per altri, a guarirla?
Romanzo intriso di magia letteraria e storia, La musica della notte indaga, con l’ammaliante melodia della sua prosa, la vicenda vera dell’incontro tra la più raffinata pianista della Vienna di fine Settecento e Franz Anton Mesmer, lo scopritore del magnetismo animale ammirato da Mozart, Kleist e Olov Enquist e considerato da molti il precursore della psicanalisi.
Pellegrinaggio in Inghilterra recita il sottotitolo. E di un viaggio solitario si tratta, d'estate e per lo più a piedi, nel Suffolk, dove Sebald visse sino all'ultimo: in uno spazio delimitato da mare, colline e qualche città costiera, attraverso grandi proprietà terriere in decadenza, ai margini dei campi di volo dai quali si alzavano i caccia britannici per bombardare la Germania. Viandante saturnino («Nato sotto il segno del freddo pianeta Saturno» dice di sé nel poemetto Secondo natura), Sebald ci racconta - lungo dieci stazioni di un itinerario che è anche una via di fuga - gli incontri con interlocutori bizzarri, amici, oggetti che evocano le fasi di quella « storia naturale della distruzione » che scandisce il cammino umano e il susseguirsi degli eventi naturali. E ci racconta storie di altri vagabondaggi ed emigrazioni, di cui la sua vicenda personale è estrema eco: quelli di Michael Hamburger, poeta e traduttore di Hölderlin, profugo anche lui dalla Germania; di Joseph Conrad, che nel Congo conosce la malinconia dell'emigrato e l'orrore per le tragedie del paese di tenebra; di Chateaubriand, esule in Inghilterra; di Edward Fitz-Gerald, eccentrico interprete della lirica persiana, che a bordo della sua piccola imbarcazione trascorre ore in coperta, con indosso marsina e cilindro e un lungo, svolazzante boa di piume bianche intorno al collo. Pellegrinaggio e insieme labirinto, nella miglior tradizione sebaldiana: ma anche qui, a guidare scrittore e lettore, e a impedirne la cieca erranza, vi è un filo.
È questo il secondo atto dell'impresa di ritraduzione della narrativa di Mann, avviata nel 2007 dal Meridiano "Romanzi" ("I Buddenbrook" e "Altezza reale"). Con il titolo "La montagna incantata", il capolavoro di Mann, uscito a Berlino nel 1924, venne tradotto in Italia nel 1932 e poi da Ervino Pocar nel 1965. Con questa pubblicazione, il romanzo di Mann - una vera e propria "opera-mondo" - ritorna in libreria in una nuova traduzione corredata da un vasto commento analitico, viatico per penetrarne la complessità anche filosofica. La traduzione di Renata Colorni - traghettatrice dell'opera di Freud presso il pubblico italiano a partire dagli anni Settanta, oltre che traduttrice di numerose e importanti opere della narrativa tedesca - grazie all'attenzione verso i suoi caratteri linguistici distintivi, restituisce al dettato manniano la sua caleidoscopica unicità. La curatela è del germanista Luca Crescenzi, che oltre al commento firma anche una introduzione che si affianca allo scritto dello studioso tedesco Michael Neumann.
Berlino, 1940. Jablonskistrasse numero 55: la postina Kluge consegna ai Quangel, modesta famiglia operaia, la lettera che comunica la fine del loro unico figlio, “morto da eroe per il suo Führer e per il suo popolo”, mentre la Francia capitola. Oltre al dolore indicibile, la notizia scatena nel cuore di Otto e Anna Quangel, mai iscritti al partito ma che con il nazismo convivono come tanti, un sussulto di ribellione e il desiderio di fare qualcosa. Nasce l’idea di un’azione di controinformazione: scriveranno cartoline postali con appelli contro il Führer e il partito, da lasciare dove capita, per diffondere almeno il germe del dubbio. In due anni scrivono quasi 300 cartoline, che finiscono però quasi tutte nelle mani della polizia. La gente è spaventata, ci vuol poco per essere arrestati dalla Gestapo e finire nei guai. Mentre i Quangel agiscono in solitudine, seguiamo le vicende degli altri abitanti del condominio: i Persicke, fedelissimi del partito nazionalsocialista, la vecchia ebrea Rosenthal, la spia Borkhausen, il giudice Fromm, l’ispettore Escherich che indaga sulle cartoline. È il nazismo, il protagonista del romanzo, non quello dei gerarchi e delle grandi decisioni, ma il sottile strisciante nazismo di tutti i giorni, nelle fabbriche e per le strade, nelle prigioni e nei manicomi. Ognuno può essere il nemico, il delatore. Un romanzo di straordinaria forza, una storia che tiene con il fiato sospeso anche se già sappiamo che finirà male per tutti. La vicenda trae origine da una storia vera. Alla fine della guerra nella Berlino liberata dai sovietici, viene affidato a Fallada - sopravvissuto al nazismo e alla guerra - un dossier della Gestapo su due sconosciuti, Otto ed Elise Hampel, giustiziati nel 1942 per avere diffuso materiale anti-nazista per trarne un racconto. Fallada lo scrive in 24 giorni. In appendice al volume viene riproposto il dossier della Gestapo e alcune cartoline postali dei coniugi Hampel.
Viktor Larenz è uno psichiatra di Berlino, brillante, ricco e reso per di più celebre dalle sue frequenti apparizioni televisive. La sua vita pero va improvvisamente in frantumi quando la figlia dodicenne Josy, affetta da una malattia sconosciuta, scompare senza lasciare traccia durante una visita nello studio del dottore che l'ha in cura. Viktor la cerca ovunque senza mai rassegnarsi, ma tutto ciò arriva a costargli la carriera e il suo stesso matrimonio. Quattro anni dopo, Viktor Larenz si è ritirato in un'isola lontano da tutto e da tutti, quando riceve la visita di Anna Spiegel, una scrittrice di libri per bambini che sostiene che i personaggi che crea possano diventare reali. Uno di essi, in particolare, somiglia in modo impressionante alla piccola Josy e forse porta con sé la risposta a ciò che è accaduto alla bimba di Viktor. Ma chi è davvero Anna Spiegel, e perché sua figlia Charlotte ha gli stessi sintomi di Josy e deve sfuggire a un'identica minaccia? “La terapia”, ideale primo capitolo di una trilogia proseguita con “Il Ladro di anime” e “Schegge”, è l'opera che ha rivelato il genio letterario di Fitzek e ha conquistato milioni di lettori in tutto il mondo.
Al ritorno dal lavoro Laurel trova la macchina di Warren, suo marito, già parcheggiata nel vialetto. È arrivato prima del solito, in casa la accoglie un silenzio pesante, minaccioso. Di Warren nessuna traccia. In cucina solo un odore di cibo bruciato. Poi il grande soggiorno illuminato si apre di fronte a lei e Warren è lì, seduto, pallido, sconvolto, gli occhi scavati dalla paura, con indosso gli stessi vestiti del giorno prima. In mano una pistola e sul tavolino accanto a lui una lettera. Laurel conosce bene quella lettera, gliel’ha scritta Danny, il suo amante, firmandola semplicemente “Io”.
E Laurel capisce. Quello che Warren stava cercando quella stessa mattina tra i libri del soggiorno non erano i documenti comprovanti la frode fiscale della clinica dove lavora, in cui è coinvolto, ma le prove del suo tradimento.
Ha così inizio il giorno più terribile del loro matrimonio.
Mentre fra le mura di casa un vortice di tensione travolge marito e moglie, fuori la polizia cerca di organizzare un’irruzione per arrestare Warren, che nel frattempo si è reso colpevole anche dell’omicidio di un poliziotto e che, ormai impazzito, ha deciso di non liberare la moglie finché non avrà scoperto l’identità del suo amante.
Ma quando finalmente la scopre, prima che l’assedio finisca, il dramma tra i coniugi è ormai precipitato in una spirale di follia, in cui a devastare Warren, più ancora della cieca gelosia, è la sofferenza per un segreto che non ha mai confidato e che lo porterà a fare i conti con il proprio destino.
Chi è Jack Mortimer e perché, appena è salito su un taxi alla Westbahnhof di Vienna, qualcuno gli ha sparato uccidendolo sul colpo? E perché mai doveva salire proprio sul taxi del giovane Ferdinand Sponer, che ha già parecchi problemi - soprattutto quello di essersi perdutamente innamorato di una fanciulla troppo bella, troppo ricca e troppo aristocratica per lui? Anche lei, il giorno prima, era salita sul suo taxi, ed era stata come un'apparizione: «grandi occhi grigi sotto l'orlo di una veletta», «le spalle cinte da una stola di volpe» - e per di più, come aveva facilmente scoperto l'abbagliato tassista dopo averla accompagnata a casa, contessa. Nel corso di una sola notte, l'ignaro Ferdinand Sponer si trova preso in una girandola di peripezie iperbolicamente tragicomiche, nel corso delle quali, per liberarsi dell'ingombrante cadavere, sarà costretto ad assumere lui stesso l'identità del morto e ad affrontare, nella suite di un albergo di lusso, la donna che è stata la sua amante e il di lei furibondo marito. Ma questo è solo un minuscolo segmento della incontenibile trama. Rare volte il romanzo novecentesco è stato animato da un tale strepitoso ritmo, che obbliga il lettore a seguire passo per passo - e quasi attimo per attimo - una vicenda che è tanto più ossessiva quanto più imprevedibile.
Hofmannsthal è il cardine di questa magistrale opera al tempo stesso critica e narrativa, dove Broch ci conduce lungo traiettorie concentriche nello spazio e nel tempo. Ne risulta il ritratto di un’epoca in cui si sviluppò tumultuosamente «il moderno», e che sembrò culminare nella Vienna dei primi due decenni del Novecento – epoca di immensa ricchezza e al tempo stesso minacciata da un irreprimibile vuoto e dalla corrosione di ogni valore. Broch la ritrae in ogni sua sfaccettatura in Inghilterra, Francia e Germania, prima di concentrare il suo sguardo sull’Austria absburgica, « il paese felice senza speranza», il luogo dove la crisi ha toccato l’acme e l’orpello abbellisce qualcosa di sempre più inconsistente. Soffermandosi su Hofmannsthal, nel cuore del libro, Broch ne ricostruisce la storia familiare, per poi raccontarne l’infanzia e adolescenza di ragazzo prodigio, l’isolamento fra i letterati viennesi, la disperazione di fronte alla crisi del linguaggio e la ricerca di nuove vie là dove «la parola non sa più dire la cosa». Una dialettica fra negazione del ruolo di scrittore e urgenza espressiva che appartiene allo stesso Broch, il quale, rispecchiandosi nell’ansia etica di Hofmannsthal, e narrandoci con tanta partecipe sapienza il suo tempo, ci regala anche una profonda e rivelatrice autoanalisi.
L’opera è composta da diciannove capitoli, diciannove quadri strettamente correlati. Tutto inizia con l’inquietante tensione de L’orazione funebre, che ci fa entrare nella vita di una bambina sveva che assiste al funerale del padre. Ne Il bagno svevo conosciamo tutta la famiglia: il bambino più piccolo, la madre, il padre, la nonna, il nonno, che approfittano dello stesso bagno caldo, dello stesso sapone, per lavarsi, uno dopo l’altro, per poi tutti insieme sedersi a vedere il film del sabato. Completa il quadro La mia famiglia, dove l’autrice approfondisce ognuno dei personaggi e traccia il loro albero genealogico. Queste tre prime scene sono il preambolo di Bassure, il capitolo più lungo, dominato dalla ricchezza lirica della prosa e l’iridescenza poetica dei pensieri. La natura si fa protagonista, con i fiori, le acacie, le mosche, i maiali, le rane, i gatti e un’infinità di elementi e personaggi che vanno a formare il quadro più colorito dell’opera, per manifestare la sofferenza, l’isolamento e l’abbandono in cui versano la sua famiglia e il villaggio svevo. Per essere ancora più chiara, la bambina racconta il lavoro del padre in Pere marce. La ritroviamo mentre balla in Tango soffocante e, convertita in adolescente, balla anche ne La finestra. Apparirà ne L’uomo con la scatola di fiammiferi. Racconta le vacanze dei genitori al mare, parla della sua solitudine, della successione dei dittatori, degli assassini della mafia, fino a descrivere in un Giorno feriale la sua vita in fabbrica.
Questo libro raccoglie l'opera narrativa di uno tra i maggiori scrittori del Novecento, colui che più di ogni altro ha dato voce alle inquietudini dell'uomo moderno. America (iniziato nel 1910 e pubblicato nel 1927), Il processo (scritto tra il 1914 e il 1915, pubblicato nel 1924), e Il castello (scritto nel 1922 e pubblicato nel 1926) sono ormai tra i più celebri romanzi della letteratura moderna, in cui ritorna, pur sotto differenti trame, il tema dell'angoscia per una persecuzione assurda e incomprensibile. Lo sguardo appassionato e acuto e l'intelligenza profonda del giovane Franz svelano e rendono altissima letteratura le contraddizioni, i drammi, la violenza e la stupidità nascosti sotto le apparenze del reale. Un posto di rilievo nell'opera di Kafka spetta anche ai racconti, molti dei quali, come La metamorfosi, Nella colonia penale, Il messaggio imperiale, sono veri capolavori. Completano il volume le raccolte di aforismi, pensieri, appunti, alcune pubblicate nella forma voluta dall'autore (come le Considerazioni), altre curate dopo la sua morte dall'amico Max Brod.
Il premio Nobel 2009 a Herta Müller ha riportato alla nostra attenzione questo romanzo per tanti aspetti autobiografico, scritto subito dopo il passaggio dell'autrice dalla Romania alla Germania ovest (1987) e pubblicato nel 1989 alla vigilia della caduta del Muro di Berlino. Si tratta di una delle prime e più forti testimonianze della difficoltà di vivere quel passaggio, che racconta l'esperienza di fuga da una dittatura e il travaglio di un esilio volontario, tanto cercato quanto doloroso e traumatico; della nostalgia e della perdita, della vita nomadica, di una coazione al movimento attraverso stazioni grandi e piccole, su treni, sale d'aspetto e altri non-luoghi. Con uno stile secco e tagliente, con un racconto senza ornato e senza tentazioni sentimentali, con una lingua alla quale resterà sostanzialmente fedele negli anni, Herta Müller fissa quasi ossessivamente gli oggetti e i gesti minimi di una vita tra confini e nonluoghi, racconta gli amori, le inibizioni e i ricordi di una giovane donna, il suo disagio di fronte a nuove relazioni umane. (Maria Fancelli)