L’interculturalità è una via da percorrere obbligatoriamente nella formazione delle vocazioni oggi. L’attuale internazionalizzazione e presenza multiculturale nelle comunità di consacrati, richiede dei codici della convivenza per una vera testimonianza di fraternità e di scambio tra le differenze culturali. Il colore della pelle e la diversità culturale continuano a costituire una difficoltà nei rapporti di comunità. L’ideale di comunione voluto da Gesù e dal concilio Vaticano II, si deve rivelare nella fraternità vissuta dai membri più eminenti della Chiesa. Pure il mondo globalizzato sfida l’armonia comunitaria con i suoi nuovi mezzi e tecnologie di comunicazione. Perciò, alle sfide esaminate nei due primi capitoli, la riflessione risponde negli altri due capitoli indicando la prospettiva di formare un’identità vocazionale e plurale forte, e di programmare processi di assimilazione della spiritualità di comunione. A questo fine sono chiamati in campo preziosi suggerimenti del magistero e coraggiose indicazioni della pedagogia interculturale.
Il tema che ha informato i contributi - Gesù è/e l'altro. Evangelizzare le periferie - è intimamente legato all'indole e agli obiettivi non solo del decreto Ad gentes, ma anche della stessa Università Urbaniana e trova sintonia nel Magistero di papa Francesco, specificamente col suo particolare e costante richiamo all'annuncio evangelico diretto alle "periferie", siano esse rappresentate da situazioni esistenziali, spirituali e materiali, geograficamente vicine o lontane rispetto all'unico centro che è, e deve essere, il vangelo di Gesù Cristo. si evince perciò che proprio nella Persona divino-umana di Gesù di Nazaret non vi è soluzione di continuità nella conoscenza di Dio e della persona umana, bensì vi si trovano i fondamenti per comprendere o ricomprendere la via all'altro (Dio ed essere umano), il metodo per l'incontro con quel "tu/tu" che svela l'io a se stesso, permettendogli di costruire la socialità tessuta della dignità umana e dei più autentici valori che caratterizzano le culture e le tradizioni umane dei popoli.
«Aveva fabbricato tutte le finestre, le lanterne, le vetrate, i candelabri e le croci di tutte le chiese». Per questo, scrisse Tiziano Terzani, il missionario fratel Felice Tantardini era «conosciuto da tutti», in Birmania, come «fabbro di Dio». Quanto al nome Felice, egli stesso lo aveva assunto a ideale della sua vita: «Sforzarmi di essere felice, sempre e a ogni costo, intento a far felici anche gli altri». Pronto a spostarsi, a piedi, da una missione all'altra perché tutti lo volevano, in missione è rimasto settant'anni. Le sue memorie autobiografiche lo mostrano instancabile, tenace, fedele nel quotidiano, al servizio di chi aveva bisogno. Un santo, secondo la fama che tuttora lo accompagna e che spinge tanti a implorarne l'intercessione. Sempre armato di un «sorriso sereno», come di chi - disse il confratello padre Clemente Vismara, oggi beato - «è amico di Dio, amico degli uomini e nemico di nessuno».
Alleanza, alterità, anno santo, bolle di estensione centro, centro-periferia, compimento della scrittura complessità, convivialità, coscienza, dilemma, disuguaglianza estraneità, evocare, geopolitica, giubileo, giustizia, ideologia impurità-santità, invocare, ispirazione, misericordia, "misericordiare" papi, pedagogia, pellegrinaggio, periferia, periferie, poveri pratica, propaganda fide, provocare, reciprocità, respiro riconciliazione, sé, sistema policentrico, spirito, struttura urbanizzazione, vision, visione del trafitto, vita divina.
Un medico, un missionario, un uomo coraggioso e mite, sostenuto da una fede incrollabile. Padre Giuseppe Ambrosoli aveva deciso da ragazzo che avrebbe vissuto da comboniano al servizio dei poveri e che per questo avrebbe lasciato il suo paese, Ronago (CO), gli affetti e l'azienda familiare. Destinazione: Uganda. Partito nel 1956 con la nave Africa, dopo un avventuroso percorso su una jeep in mezzo alla savana, trovò a Kalongo, ai piedi di quella che è chiamata la Montagna del Vento, un dispensario per la maternità, una piccola capanna con il tetto di paglia. Nel giro di pochi anni, grazie alla sua caparbietà, alla grande capacità di medico e sacerdote, allo spirito manageriale ereditato dalla famiglia, quel piccolo centro divenne un grande ospedale. Ma la guerra civile irrompe nella vita dell'ospedale, stravolgendola. L'ordine di evacuazione è perentorio e padre Giuseppe, costretto in sole 24 ore ad organizzare la carovana di pazienti, medici e infermieri, lascia Kalongo senza tornarvi mai più. Lui, medico al servizio dei più poveri, muore a Lira, isolata dalla guerra, senza la possibilità di essere curato. Tutto finito? No. L'ospedale di Kalongo, protetto dai suoi abitanti, dopo tre anni rinasce e prosegue la sua opera di cura dei più vulnerabili. Quella storia di dedizione al prossimo e caparbietà umana continua ancora oggi con la Fondazione voluta dalla famiglia Ambrosoli e dai missionari comboniani, che hanno raccolto l'eredità di padre Giuseppe per dare sostegno e continuità ad un miracolo d'amore. Como, Milano, Kalongo. Migliaia di chilometri di distanza, rumori e odori diversi, ricchezza e povertà. Ma padre Giuseppe e la sua opera hanno ridotto le distanze, unito l'Ospedale e la Fondazione, i medici ugandesi e i volontari italiani, il bisogno di ricevere e la voglia di dare. Premessa di Mario Calabresi. Prefazione del card. Gianfranco Ravasi.
Il termine 'inculturazione' è un neologismo coniato e adoperato innanzitutto negli studi antropologici. È stato recepito nel linguaggio del magistero ecclesiastico e nella teologia, acquisendo progressivamente nuove accezioni in conformità con i cambiamenti occorsi nella stagione postconciliare. I contributi raccolti in questo volume mettono in luce innanzitutto la complessità teorica e pratica insita nel termine 'inculturazione', il cui significato non può prescindere dal suo passaggio dall'antropologia alla teologia/missiologia, dalle diverse accezioni del sostantivo 'cultura' e, infine, dalle molte e talvolta divergenti forme del rapporto fra cristianesimo e cultura/e. Da questo approccio interdisciplinare emergono interrogativi adeguati a orientare un approfondimento chiarificante dell'intrinseco rapporto tra la fede e le culture nel quadro della missione evangelizzatrice della chiesa.
Il martire della porta accanto. Lo si può definire così Daniele Badiali, missionario in Perù con l'Operazione Mato Grosso, una realtà giovanile dedita alla solidarietà con i poveri. Una figura splendida e drammatica, Daniele. Da giovane suonava le canzoni di Guccini e Bennato, da prete usava l'amata chitarra per animare le messe sulle Ande, dove arriva nel 1991. Nel 1997 viene assassinato in Perù, quando si offre volontario al posto di un'amica durante un rapimento. Daniele - di cui è in corso la causa di beatificazione - è un uomo moderno, la cui vicenda ha entusiasmato molte persone per la sua dedizione totale agli ultimi, non per pietismo bensì secondo una solidarietà autentica: «Vivere in mezzo ai poveri vuol dire scoprire che il vero povero sono io, che io ho bisogno di essere aiutato, salvato più di loro». Mentre annunciava il Vangelo, padre Badiali cercava in maniera incessante Dio. Un amore appassionato per Dio e i poveri: Gerolamo Fazzini, che ha incontrato amici e parenti di Daniele in Perù e in Italia, ricostruisce su questi due binari l'avventura di padre Badiali. Un credente autentico, dalla fede inquieta e mai appagata.
Il libro estrapola, dalla lunghissima relazione di Matteo Ripa (mille pagine) infarcita di particolari tecnici, quelle che sono descrizioni impagabili delle persone e dei luoghi incontrati durante il suo viaggio verso la Cina, e soprattutto dei tredici anni che trascorse alla corte dell'imperatore Kangxi. Sono descrizioni che portano molta attenzione al lato umano, tolgono l'imperatore Kangxi, uno dei più famosi della storia della Gina, dal trono e lo avvicinano come essere umano alla vita.
"Dio vive nelle città, e la Chiesa vive nelle città. Non è solo la città moderna ad essere una sfida, ma lo sono state, lo sono e lo saranno ogni città, ogni cultura, ogni mentalità e o gin cuore umano.
Occorre raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell'anima della città".
«Il sogno missionario di arrivare a tutti» non è realizzabile se la comunione nella Chiesa non si configura come «comunione missionaria». Basterebbero queste parole di papa Francesco (cfr. Evangelii gaudium, n. 31), in chiara sintonia con i suoi predecessori, per dare ragione della ricerca elaborata da p. Domenico Arena: ripensare alla luce del concetto di comunione missionaria l’insieme della teologia della missione. Gli studi di missiologia dell’autore e la sua conoscenza approfondita del magistero conciliare e postconciliare si incontrano in questo volume con la missione vissuta sul campo in Africa, in dialogo con le Chiese e le tradizioni religiose locali e nel contesto della globalizzazione.
In tal modo questo saggio va al di là dalla dimensione puramente accademica, arrivando a concludere che la comunione missionaria «non è che il contesto in mezzo al quale si mostra la presenza di Gesù». Ogni volta che «con il nostro amore reciproco mettiamo le basi per vivere in comunione, Gesù è in mezzo a noi».
Quando si dice “missione” si intende una realtà complessa e mutevole. Dalla Rivoluzione francese alla Seconda Guerra Mondiale, le forme più correnti di “missione” si fondavano su un modello di “conquista” e di “propaganda” della fede. All’inizio del Novecento si fa largo, con Charles de Foucauld, una nuova rappresentazione della “missione”: “presenza” e “testimonianza” di vita tra i musulmani, movimento in cui entrare piuttosto che attività da fare, secondo il paradigma dell’incarnazione di Dio. Nella seconda metà del Novecento, la fine del colonialismo imprime una drammatica accelerazione al processo di trasformazione della “missione”. Il Concilio Vaticano II registra al suo interno due missiologie: una più tradizionale – “le missioni” al plurale – come attività ad extra; l’altra teologica – “la missione” al singolare – come dimensione costitutiva della Chiesa. Papa Francesco riporta la missione nel cuore della Chiesa, come pilastro fondamentale della sua conversione pastorale: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa».