Ciclicamente rispunta una teoria autoconsolatoria che sentenzia: il fascismo è finito in un preciso giorno di 79 anni fa. Per chi abbia familiarità con i tempi lunghi della storia, questa appare però, senza eccessivo sforzo mentale, come una sciocchezza. E basterebbe del resto la cronaca del settantennio che abbiamo alle spalle per convincersi della vacuità di una tale teoria. Lo riprova inoltre quotidianamente la cronaca, che certo non ci rallegra: tanto più che - come un secolo fa - non si tratta di una questione solo italiana. Del resto, tutte le principali forze politiche del Novecento, dai cattolici ai neoliberali, passando per i socialisti, vivono, uguali e diverse, e variamente denominate, nel nuovo secolo. La partita, a quanto pare, è ancora aperta.
In che misura i testi antichi greci e latini che noi leggiamo in copie confezionate almeno un millennio dopo che quelle opere erano state scritte, le rispecchiano fedelmente e quali modifiche hanno subìto? È una questione storica, che ne comporta una più operativa: quando si tenta l'edizione di una di quelle opere, quali procedure ci consentono di muoverci in direzione degli originali? È di questo che si occupa la filologia classica, una disciplina coltivata già nell'antichità, fin dal tempo della Grande Biblioteca di Alessandria nel III e II secolo a.C., e poi affinatasi principalmente come studio della tradizione. In questo volume Luciano Canfora si propone di familiarizzare i lettori con i concetti fondamentali di questa disciplina (variante, archetipo, stemma e soprattutto errore), grazie anche al ricorso ad esempi concreti. Se nei manoscritti a noi giunti non ci fossero errori, i filologi sarebbero disoccupati. Per fortuna ci sono, e perciò gli studiosi da secoli si affannano al fine di ricostruire gli «originali»: e prendono spunto proprio dalle difettose copie che abbiamo tra mano. Questo libro tenta di raccontare successi e sconfitte, delusioni e delizie, di tale incessante lavoro.
Da oltre trent'anni l'Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni 'irregolari' delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto Albertino: convocano 'qualcuno' che metta le cose a posto. Non possiamo non chiederci se, tra le cause immediate di questa deriva, non ci sia il disinvolto e reiterato ricorso alla cosiddetta 'unità nazionale' e al conseguente assembramento di formazioni politiche ritenute antitetiche ma destinate a perdere, nel corso di tali esperienze, larga parte dei loro connotati. È probabile che tutto questo si sia verificato sotto la pressione incalzante di costringenti strutture extranazionali in grado di imprimere una accelerazione. Ma il problema ineludibile che abbiamo di fronte è: a quale prezzo e con quale riassetto del nostro ruolo internazionale si sia prodotta una tale mutazione, e se essa sia irreversibile.
Un grandissimo poeta che passa come uno sconosciuto, meglio come un innominato, nella società letteraria del suo tempo, che è il tempo di Cesare e di Cicerone. Un autore che risulta aver frequentato i grandi letterati dell'età sua, e del quale invece manca ogni notizia, anche la più ovvia. Questo è il paradosso di Lucrezio. Ci sono molte strade per addentrarsi in questo enigma: dalla congettura biografica (come fecero gli antichi) al virtuosismo combinatorio (come usano i moderni). In questo libro se ne è seguita una diversa: guardare a fondo nell'opera di Cicerone, il quale, tra i contemporanei di Lucrezio, fu il più importante divulgatore di filosofia. È risultato così che il De rerum natura, il poema fisico lucreziano, è il libro con cui Cicerone si è venuto cimentando polemicamente per decenni. Quel poema è per lui l'antagonista necessario, la bussola negativa. Ma perché non lo chiama mai in causa? Qual è il freno che gli impedisce di dichiarare apertamente il suo bersaglio? Questo libro adombra una risposta, che è forse di immediata evidenza.
Quando crollò il cosiddetto 'socialismo reale', Gabriel García Márquez lanciò un allarme. Paventò lo sprigionarsi di un 'fondamentalismo democratico', fondato sul presupposto che ciò che non è come noi è 'il male'. Gli effetti di tale svolta, impressa al pianeta, sono sotto i nostri occhi. Ma il fenomeno viene da molto lontano: si tratta dell'esito deludente della grande speranza, durata secoli, di portare le società umane ad inverare la democrazia. Questo libro racconta questa storia.
La marcia del neofascismo italiano verso l'atlantismo più radicale incominciò subito dopo la stipula del patto politico-militare tra gli Stati Uniti e il governo franchista spagnolo. Questo confortevole contesto, collaudato da oltre settant'anni, spiega la naturalezza con cui gli eredi del Movimento sociale italiano (MSI), mutate le denominazioni, giunsero tempestivamente a far parte del governo italiano sin dai primi anni Novanta e, nei mesi scorsi, al vertice di esso. Con quanta dedizione ai fondamenti della Repubblica si può arguire dalla definizione datane da Giorgio Almirante nel gennaio 1988: «Repubblica bastarda». Le premesse remote di questo idillio vanno ricercate nel modo in cui, conclusasi la seconda guerra mondiale, prontamente decollò la guerra fredda. La cui conclusione - crollo del mondo 'socialista' e trionfo dell'alleanza atlantica - ha determinato un ampio schieramento di poteri e di opinioni pubbliche che riconnette la remota contrapposizione 'o Roma o Mosca' agli sviluppi tuttora in atto: all'insegna del «dunque avevamo ragione».
A cento anni dalla nascita del Pci, Canfora si interroga sulla metamorfosi progressiva di quel grande partito. Una metamorfosi che ha al centro il 'partito nuovo' di Togliatti. Quella fu, nel 1944, una seconda fondazione. Fu la non facile nascita di un altro e diverso partito: diverso rispetto alla formazione 'rivoluzionaria' sorta vent'anni prima. La nuova nascita era una necessità storica, nella situazione mondiale del tutto nuova determinata dalla sconfitta dei fascismi. Ma le potenzialità insite in tale nuovo inizio non furono sviluppate con la necessaria audacia da chi venne dopo: Berlinguer incluso. Riannodando i fili di questa storia, Canfora cerca le ragioni del mancato riconoscimento dell'approdo socialdemocratico che il mutato contesto storico determinava. Una timidezza che ha contribuito alla successiva debolezza progettuale e 'svogliatezza' pratica. E alla progressiva perdita di contatto con i gruppi sociali il cui consenso veniva dato ottimisticamente per scontato.
«La causa degli oppressi può difenderla soltanto uno che sia anche lui un oppresso». Pare che Lucio Sergio Catilina, di nascita nobile e dalla carriera torbida, temprato nella ferocia delle guerre civili, sia approdato a questa convinzione, proclamata in una riunione segreta di suoi seguaci, quando ormai si accingeva, nell'anno 63 a.C., all'ultima, celebre, perdente battaglia contro l'oligarchia. Infiltrati vi erano anche nella sua cerchia. Così, il servizio di spionaggio agli ordini del console a lui più avverso, Marco Tullio Cicerone, prontamente divulgò quel proclama, subito giudicato come una minaccia. Fu instaurato lo 'stato d'assedio' e in tale clima si svolsero le elezioni. E Catilina fu battuto nelle urne: intreccio perfetto di strategia della tensione e gestione dei pentiti. Cicerone era giunto al vertice del potere mettendosi agli ordini dell'oligarchia. Fu perciò, come spesso i transfughi, il più implacabile avversario della 'rivoluzione'. Al culmine dello scontro non esitò a varcare i confini della legalità, illudendosi, per un tempo non breve, di poter rimanere, grazie a tale 'benemerenza', al vertice della Repubblica. Non aveva capito di essere soltanto una pedina, non un capo: gli mancava un esercito. Era suonata l'ora dei capi carismatici e delle loro legioni.
Da oltre trent'anni l'Italia vede attuarsi periodicamente soluzioni 'irregolari' delle crisi politiche. Ciampi, Monti, Draghi. Da tempo i presidenti della Repubblica si regolano come se fosse in vigore da noi la Costituzione della Quinta Repubblica francese, o forse pensano che sia ritornato lo Statuto Albertino: convocano 'qualcuno' che metta le cose a posto. Non possiamo non chiederci se, tra le cause immediate di questa deriva, non ci sia il disinvolto e reiterato ricorso alla cosiddetta 'unità nazionale' e al conseguente assembramento di formazioni politiche ritenute antitetiche ma destinate a perdere, nel corso di tali esperienze, larga parte dei loro connotati. È probabile che tutto questo si sia verificato sotto la pressione incalzante di costringenti strutture extranazionali in grado di imprimere una accelerazione. Ma il problema ineludibile che abbiamo di fronte è: a quale prezzo e con quale riassetto del nostro ruolo internazionale si sia prodotta una tale mutazione, e se essa sia irreversibile.
Questo libro è stato scritto mentre imperversava la disumana 'chiusura dei porti' imposta dal governo italiano allora in carica a danno di profughi in fuga dall'inferno libico. Quella pagina vergognosa della nostra storia recente, che ha macchiato l'onore del nostro paese, è stata anche rivelatrice di un male antico e sempre latente: il lauto consenso che premia la demagogia xenofoba. Drammatica conferma, nell'ottantesimo anniversario delle leggi razziali italiane, della vitalità, anche da noi, di quello che Umberto Eco definì efficacemente il «fascismo eterno».
Questo libro racconta come finì, in antico, l'indipendenza dello Stato ebraico. Ciò avvenne, nel più generale contesto della conquista del Medio Oriente e in particolare dell'area siro-palestinese, ad opera delle legioni romane (63 a.C.). La figura dominante dell'aggressione e della spoliazione del 'tesoro di Stato' degli Ebrei fu Gneo Pompeo Magno, in quell'anno (l'anno terribile della congiura di Catilina) potente personaggio pubblico della repubblica imperiale romana. Una fonte ebraica coeva dei fatti, i cosiddetti Salmi di Salomone, fornisce un quadro veridico della vicenda. E svela il ruolo decisivo della voracità dell'aggressore. Voracità che si appagò finalmente, dopo oltre un secolo di violenze e apparente riconciliazione, nell'anno 70 d.C. Allora l'imperatore Tito, «delizia del genere umano» secondo la vulgata adulatrice, distrusse il Tempio di Gerusalemme e lasciò depredare il tesoro lì conservato, frutto del contributo corale di tutte le comunità ebraiche. Il movente economico e l'odio per un popolo atavicamente considerato con avversione furono, allora, alla base del primo genocidio degli Ebrei. È una storia che ci riguarda ancora. Il revisionismo storiografico riuscì a prevalere e la tradizione si prestò a fare da sponda alla menzogna di Stato, voluta dai vincitori e avallata dai loro clienti.
"Del buon uso del tradimento" è il titolo di un celebre libro di Pierre Vidal-Naquet sulla figura e sulla straripante opera del comandante militare, sacerdote, storico Giuseppe Flavio (nato nel 37 d.C. e vissuto fin sotto il regno di Traiano). Straripante e giunta a noi intatta. Come è avvenuta la straordinaria salvazione, caso unico in tutta la storiografia di lingua greca dei quattro secoli che intercorrono tra Polibio e Cassio Dione? Chi prese in carico l'opera e perché? Quale ruolo ebbe in questo prodigioso fenomeno storico-letterario il cosiddetto Testimonium sulla vita e morte di Gesú, inserito nelle Antichità giudaiche di Giuseppe? E cosa intendeva davvero essere quella sottile e tormentata testimonianza? L'interpolazione - se tale è - più controversa della storia dei testi greci racchiude la chiave che può avviare alla soluzione di queste domande. Con qualche sorpresa.