Per molte persone i vizi capitali hanno oggi un fascino maggiore delle virtù e c'è chi ritiene che, appartenendo ormai al passato, debbano essere aggiornati o sostituiti da un nuovo elenco di «tabù contemporanei» in grado di cogliere l'essenza dell'etica moderna.
Va però riconosciuto che superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia sono comportamenti che negli ultimi decenni sono stati oggetto di una rinnovata attenzione in vari ambiti: non solo da parte della teologia morale e spirituale, della filosofia, della storia e della letteratura, ma anche delle arti figurative, del teatro, del cinema, della psicologia, della sociologia, dell'antropologia culturale. Accade abitualmente che i vizi capitali vengano intesi come una sorta di chiave di lettura o di lente di ingrandimento per focalizzare dinamiche e contraddizioni in ambito sociale, politico, economico o relazionale. Tuttavia, osserva l'autore, non sempre l'approccio al tema è epistemologicamente corretto e le «malattie dell'anima» rischiano di essere sottovalutate nella loro insidiosa capacità di ridurre l'uomo in schiavitù.
Sommario
Abbreviazioni e sigle. Introduzione. Fonti antiche e medievali. I. Vizi e peccati capitali. II. La superbia. III. L'avarizia. IV. La lussuria. V. L'invidia. VI. La gola. VII. L'ira. VIII. L'accidia. Conclusione.
Note sull'autore
Renzo Gerardi, presbitero del patriarcato di Venezia, ha compiuto gli studi filosofici e teologici alla Pontificia Università Lateranense, dove ha conseguito il dottorato in Teologia nel 1974. Dopo aver insegnato Teologia sacramentaria e Teologia spirituale, attualmente è docente ordinario di Teologia morale speciale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense. Per EDB ha pubblicato: Teologia ed etica della penitenza. Vita cristiana, vita riconciliata (1993, 32008); Alla sequela di Gesù. Etica delle beatitudini, doni dello Spirito, virtù (1999); Il sacramento del matrimonio, in Sacramentaria speciale. II. Penitenza, unzione degli infermi, ordine, matrimonio (2003, 22009); Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell'esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere (2003, 22012).
Secondo la Bibbia, l'omicidio commesso da Caino nasce da una collera repressa, sfociata in un gesto di violenza cieca. L'"ira funesta" accompagna l'esordio dell'Iliade e la guerra di Troia, il gesto tragico della Medea di Euripide e il furioso accanimento di Orlando quando scopre l'infedeltà di Angelica. Passione complessa e misteriosa che assale come un vento impetuoso, divampa come un fuoco divorante e si abbatte con la violenza di una tempesta, l'ira può essere causata dall'ingiustizia, dall'orgoglio, dal desiderio, dall'inganno, dall'umiliazione. Essa può raggiungere il confine della follia, ma è di solito una perturbazione dell'animo limitata nel tempo, che non si mantiene a lungo e pertanto si distingue dall'odio e dal risentimento. Poiché ha a che fare con le relazioni ed è rivelatrice della nostra vulnerabilità, l'ira consente di conoscere noi stessi e può anche essere un sentimento psicologicamente buono, in grado di fornire un'energia che la sola ragione non può suscitare. In passato, nella liturgia funebre, si cantava la sequenza del Dies irae, il giorno dell'ira di Dio, la "giusta ira" che non mira a distruggere, ma ad affermare e custodire l'irriducibile differenza tra il bene e il male.
Anche i più santi, come Davide, e i più sapienti, come Salomone, hanno ceduto alla suggestione della lussuria, la passione ardente, il fuoco divorante che getta nel disordine l'ambito della sessualità umana. Come la gola è legata all'istinto di vita, così la lussuria è collegata all'istinto di riproduzione, che permette la sopravvivenza e la continuazione del genere umano. La sessualità è però molto più complessa ed enigmatica poiché rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile c'è nella persona, coinvolgendo anche ciò che vi è di più vitale e caratteristico. Il vizio della lussuria scardina e deforma proprio la relazione tra sesso, eros e amore, designando un comportamento disordinato e sregolato, una distorsione e una deformazione del desiderio e del piacere. Le pulsioni erotiche esprimono una natura caotica che sommerge l'altro, il cui corpo viene usato strumentalmente, reso oggetto, frammentato. La lussuria rattrista più di quanto dia gioia, è un albero dai frutti amari che produce ripiegamento su di sé e disgusto. La sua distruttività, come già aveva osservato Tommaso d'Aquino, risiede in un esagerato amore di sé, nell'incapacità di amare e di ricevere amore.
A due mesi dagli eventi del maggio 1968, che avevano innescato, tra l'altro, la cosiddetta «rivoluzione sessuale», Paolo VI firma e promulga la sua settima e ultima lettera enciclica, conosciuta universalmente come "Humanae vitae". In quel testo papa Montini sintetizza la dottrina della Chiesa sulla genitorialità responsabile, sul valore della vita umana, sulla bontà dell'amore coniugale. La Lettera mette in guardia dai limiti della tecnica, che non può da sola risolvere i grandi problemi dell'uomo; ricorda la necessità della rinuncia nella vita morale e i pericoli dell'egoismo; smaschera il pericolo dell'aborto, cui porterebbe una mentalità anti-natalista a oltranza; fa intravvedere i grossi rischi indotti dal consumismo. Le tematiche poste dall'Humanae vitae vanno ben oltre le questioni della sessualità e del controllo della natalità. Nell'enciclica si affrontano due visioni del mondo, due concezioni della persona umana, del significato del corpo, della creazione, dell'autonomia della libertà umana. Sono due nozioni della coscienza e dell'autorità, e anche - per così dire - due visioni differenti di Dio. Nuova traduzione con testo latino a fronte.
L'oggetto della teologia morale è costituito da quelli che, in lingua latina, sono chiamati mores, i costumi o, meglio ancora, i comportamenti umani. In modo ancor più specifico, la teologia morale riflette sulla condotta cristiana a partire dalla rivelazione e dalla ragione. Nel disegno unitario della teologia sistematica, la morale non è primariamente una dottrina da studiare o un'etica da applicare, è ma lo studio del processo nel quale l'uomo, creato a immagine di Dio e redento dalla grazia, tende alla pienezza della sua realizzazione nel contesto dell'economia della salvezza storicamente attuata nella Chiesa. La teologia morale, così definita a partire dal tardo Medioevo, è dunque «teologia della vita cristiana», riferita all'esperienza, alla concretezza dell'agire o della prassi, ai mores, al bene da compiersi. Essa ha trovato una specificazione anche come «teologia spirituale» poiché una vera intelligenza della spiritualità cristiana ingloba in essa la vita morale evangelica, con tutte les ue concrete fondamentali esigenze.Il volume si colloca in una collana di testi rigorosi e agili a un tempo, rivolti soprattutto al pubblico di università, facoltà teologiche, istituti di scienze religiose e seminari.
Li si chiama avari, ma anche spilorci, taccagni, tirchi, gretti, perché attaccati al denaro e alla ricchezza. Sono ossessionati dall'accumulare, conservare e possedere denaro e cose solo per sé, ma poi si trattengono dall'usarli. Ponendo cuore e mente in cose materiali, smarriscono il fine della propria vita, rinunciano a libertà e dignità e vivono nella miseria per paura della miseria, cercando continuamente di rimuovere l'insicurezza di sé, il timore assillante per il futuro, l'incubo della morte. Compendio di tutti i peccati e antitesi del precetto evangelico di amare il prossimo, l'avarizia è vecchia quanto il mondo: dal mitologico Mida, condannato a mutare in oro tutto ciò che toccava, al feroce e ambiguo Arpagone di Molière, dal dickensiano Scrooge al fumettistico Zio Paperone, che nuota nel denaro e conta in continuazione i suoi dollari. Radicale antidoto all'avarizia è la conversione dei desideri, l'esercizio per ristabilire il primato dell'essere sull'avere, la lucida consapevolezza che la vita dell'uomo, come ricorda con intensa semplicità il Vangelo di Luca, non dipende da ciò che possiede.
La superbia appare come espressione di un vasto insieme di vizi: orgoglio, tracotanza, boria esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere, arbitrio. San Tommaso, sulla scia di sant'Agostino, la definisce "desiderio disordinato di eccellenza". Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di realizzare pienamente se stesso. Si tratta di uno stimolo, potente e positivo, a cercare di dare il meglio nelle diverse situazioni. La forza seducente e il fascino della superbia consistono proprio nell'esaltare il desiderio naturale di eccellere, incentrando in modo assoluto l'attenzione su se stessi e oltrepassando la propria misura. Esistono rimedi? Innanzitutto favorire una sana autostima, virtù laica che si contrappone alla superbia ed è una qualità indispensabile per vivere, e poi trovare il modo di entrare nella complessità propria e altrui, affinando la capacità di ascoltare e la curiosità di capire se stessi e gli altri. La virtù opposta alla superbia è l'umiltà, che non va confusa con la ritrosia, la timidezza, la mediocrità, la vigliaccheria. L'umiltà, infatti, non comanda di esagerare i difetti né di negare le proprie doti né di fuggire tutti gli onori, ma ne reprime ogni ricerca esagerata e non giustificata per beneficiare dell'eccellenza in modo equilibrato.
Vizio difficile da descrivere, l'accidia è soprattutto incuria e indifferenza, scoraggiamento e disgusto, "male di vivere" e principio di disperazione. Essa si manifesta attraverso il languore inattivo, l'assenza di concentrazione, la lentezza nell'operare il bene, la noia generalizzata, la paura del vivere e del morire. Non è semplice pigrizia, ma debolezza dell'anima e assenza di attrazioni, anche se può manifestarsi come "fuoco inquietante" e umore euforico. Sentimento per sua natura oscuro, complesso, confuso e sfuggente, l'accidia è dunque capace di molteplici espressioni, talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite dalla medesima radice: l'annebbiamento della gerarchia dei valori, che ricopre tutto di un manto grigio e omogeneo. Gli antichi la definivano "tentazione meridiana", poiché caratterizza soprattutto la metà della giornata, ma anche il mezzogiorno della vita, e in passato era considerata una malattia tipica della vita monastica. Oggi, al contrario, essa viene sempre più considerata come uno stato d'animo universale e moderno, innestato sulle ferite interiori, sull'indecisione e sulla mancanza di desiderio. Sull'incapacità di riaccendere uno sguardo svuotato e assente nella direzione della gioia e della letizia.
"Se l'invidia fosse una malattia, il mondo sarebbe un ospedale". La sapienza popolare, facendo ricorso a proverbi e adagi, ha ripetutamente descritto, beffeggiato e condannato una passione torva e rancorosa che genera soprattutto maldicenze, diffamazioni e calunnie. Figlia della superbia, l'invidia impedisce di essere contenti di ciò che si ha, si rallegra per il male altrui, si angustia e si rattrista per ciò che gli altri possiedono. È un vizio che non procura vantaggio o piacere a chi lo coltiva, ma genera un'acuta e costante sofferenza. Anche se c'è chi la considera il "carburante che fa girare il mondo", perché attiverebbe energie altrimenti sopite incoraggiando l'emulazione, l'invidia è un sentimento triste e infelice che macera e tormenta interiormente, isola dalla realtà e falsifica le relazioni. Vasta è la galleria dei "grandi invidiosi", a partire da Iago nell'Otello di Shakespeare e da Uriah Heep nel David Copperfleld di Dickens. Anche la Bibbia non ne è esente: Caino invidia Abele, Esaù invidia Giacobbe, Saul invidia Davide. E persino gli dèi, narrano Erodoto, Eschilo e Pindaro, talvolta soffrono d'invidia per certi mortali troppo felici.
Un uovo con le zampe, un pollo arrosto, un maiale raffigurato con il coltello che lo sta affettando sono le delizie che si muovono, indisturbate e animate, nel Paese di cuccagna di Bruegel il Vecchio, un paradiso di polenta e di crostate, abitato da personaggi grassi e sguaiati. Se nutrirsi è un atto essenziale per la sopravvivenza, il desiderio eccessivo, disordinato e scomposto genera un vizio, quello della gola, nei confronti del quale si è di solito indulgenti, anche se i padri della Chiesa lo considerano la porta di tutti i pensieri malvagi e di tutte le passioni. Tenuto oggi sotto controllo da medici e dietisti, il piacere del cibo è considerato dalla saggezza biblica un dono di Dio e un segno della sua benedizione, purché gli eccessi della tavola non facciano dimenticare il dovere della carità nei confronti del prossimo, come ricorda la parabola evangelica del ricco epulone e del povero Lazzaro. Atto personale, ma anche sociale e politico, il mangiare, legato com'è all'oralità e al desiderio, investe pienamente la sfera affettiva. A tavola non si condividono solo le pietanze, ma si scambiano parole e discorsi, si nutrono le relazioni e si possono curare le ferite dell'anima che spesso si annidano proprio nel difficile rapporto con il cibo.
Il volume indaga la dimensione della riconciliazione presentando il rito della penitenza, i suoi fondamenti biblici e la sua storia. Elabora inoltre una teologia del peccato, esamina l’evento sacramentale del perdono in relazione all’evento fondamentale della riconciliazione ed esplora le modalità con le quali la Chiesa determina l’essenza e gli elementi per una celebrazione valida e fruttuosa.
La riflessione prende in esame la figura del penitente, il ruolo del sacerdote penitenziere (compresi i doveri e i possibili abusi), e presenta la prassi della confessione partendo dai princìpi morali e pastorali che la informano e la regolano.
Sommario
Premessa. Siglario. Bibliografia generale. Introduzione generale. I. Liturgia, Bibbia, Storia.
1. La celebrazione della penitenza. 2. Fondamenti biblici del sacramento della penitenza. 3. La penitenza nella storia della Chiesa. II. Teologia, Morale, Diritto. 1. Il mistero dell’iniquità e del peccato. 2. L’evento sacramentale del perdono. 3. Il penitente. 4. Il sacerdote confessore. 5. La prassi della confessione. Conclusione: dalla liturgia della riconciliazione alla riconciliazione nella vita.
Note sull'autore
Renzo Gerardi, presbitero del patriarcato di Venezia, ha compiuto gli studi filosofici e teologici alla Pontificia Università Lateranense, dove ha conseguito il dottorato in Teologia nel 1974. Dopo aver insegnato Teologia sacramentaria e Teologia spirituale, attualmente è docente ordinario di Teologia morale speciale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, di cui è pro-rettore. Per EDB ha pubblicato: Teologia ed etica della penitenza. Vita cristiana, vita riconciliata (32008), Storia della morale. Interpretazioni teologiche dell’esperienza cristiana. Periodi e correnti, autori e opere (22012), Le malattie dell’anima. Trattato sui vizi capitali (22013) e sette piccoli volumi dedicati ai vizi capitali (2015).
In che modo, nel corso dei secoli, il cristianesimo è diventato norma di vita? Il volume è una ricerca di storia della teologia morale-spirituale: ripercorre due millenni di storia delle opere e dei teologi, ma anche dell'ambiente circostante. L'autore procede seguendo una scansione cronologica: ogni capitolo presenta la visione sintetica del periodo considerato e ne dà la chiave di lettura, illustra le correnti di pensiero che via via arricchiscono l'esperienza cristiana in quel momento, presenta il ritratto dei singoli autori e delle loro opere più significative.