Sono qui pubblicati appunti di diario e alcuni scritti riguardanti i rapporti tra l'autore e mons. Albino Luciani, patriarca di Venezia, poi cardinale, e infine papa Giovanni Paolo I. L'arco di tempo va dalla morte del predecessore di Luciani a Venezia, il card. patriarca Giovanni Urbani, fino al giorno nel quale è stato designato il patriarca successore di Luciani a Venezia, mons. Marco Cè, nel dicembre 1978.
A due mesi dagli eventi del maggio 1968, che avevano innescato, tra l'altro, la cosiddetta «rivoluzione sessuale», Paolo VI firma e promulga la sua settima e ultima lettera enciclica, conosciuta universalmente come "Humanae vitae". In quel testo papa Montini sintetizza la dottrina della Chiesa sulla genitorialità responsabile, sul valore della vita umana, sulla bontà dell'amore coniugale. La Lettera mette in guardia dai limiti della tecnica, che non può da sola risolvere i grandi problemi dell'uomo; ricorda la necessità della rinuncia nella vita morale e i pericoli dell'egoismo; smaschera il pericolo dell'aborto, cui porterebbe una mentalità anti-natalista a oltranza; fa intravvedere i grossi rischi indotti dal consumismo. Le tematiche poste dall'Humanae vitae vanno ben oltre le questioni della sessualità e del controllo della natalità. Nell'enciclica si affrontano due visioni del mondo, due concezioni della persona umana, del significato del corpo, della creazione, dell'autonomia della libertà umana. Sono due nozioni della coscienza e dell'autorità, e anche - per così dire - due visioni differenti di Dio. Nuova traduzione con testo latino a fronte.
In questo volume è riportata, tradotta, introdotta e commentata la riflessione sui "peccati di lingua", scritta in latino da Guilielmus Peraldus, frate dell'ordine dei Predicatori, vissuto nel XIII secolo in Gallia. Nell'introduzione viene presentata dal curatore la questione sui "peccati di lingua", nell'attualità e con alcuni importanti riferimenti storici; vengono poi proposti i tratti essenziali della vita e delle opere di fra Guglielmo Peraldo. Quindi il testo del trattato de peccato linguae (ultimo capitolo della Summa vitiorum, pubblicata nel 1236) è riprodotto nell'originale in lingua latina e in traduzione italiana. La prima parte del trattato offre i motivi per dover custodire la lingua. Nella seconda lunga parte vengono passati in rassegna ventiquattro peccati di lingua: per ogni peccato sono presentati i motivi per cui esso va detestato, evitato, represso; sta qui la struttura portante dell'opera. Infine, nella breve terza parte, si presentano alcuni rimedi contro i peccati di lingua.
L'oggetto della teologia morale è costituito da quelli che, in lingua latina, sono chiamati mores, i costumi o, meglio ancora, i comportamenti umani. In modo ancor più specifico, la teologia morale riflette sulla condotta cristiana a partire dalla rivelazione e dalla ragione. Nel disegno unitario della teologia sistematica, la morale non è primariamente una dottrina da studiare o un'etica da applicare, è ma lo studio del processo nel quale l'uomo, creato a immagine di Dio e redento dalla grazia, tende alla pienezza della sua realizzazione nel contesto dell'economia della salvezza storicamente attuata nella Chiesa. La teologia morale, così definita a partire dal tardo Medioevo, è dunque «teologia della vita cristiana», riferita all'esperienza, alla concretezza dell'agire o della prassi, ai mores, al bene da compiersi. Essa ha trovato una specificazione anche come «teologia spirituale» poiché una vera intelligenza della spiritualità cristiana ingloba in essa la vita morale evangelica, con tutte les ue concrete fondamentali esigenze.Il volume si colloca in una collana di testi rigorosi e agili a un tempo, rivolti soprattutto al pubblico di università, facoltà teologiche, istituti di scienze religiose e seminari.
Le riflessioni, qui contenute, propongono un'originale "teologia della vita cristiana" come un'esistenza da vivere totalmente nell'ordine dell'amore. L'esistenza cristiana scorre tra grazia ed esigenza. Poiché all'origine, e come forza che comprende in sé tutta la realtà, sta l'amore libero e gratuito di Dio, la morale cristiana è definita da Colui che amiamo perché Egli ci ama, si è fatto prossimo a noi, ci abita. Accogliere e vivere nella fede il dono del suo amore è la sorgente profonda della gioia di chi è alla sequela di Gesù. Le sette parti del volume evidenziano il percorso della riflessione: amo perché amato; corro per la via dell'amore; amo Dio l'unico Signore; amo e rispetto la creazione; mi prendo cura della persona; amo nella verità; per una vita buona in un mondo più bello.
Secondo la Bibbia, l'omicidio commesso da Caino nasce da una collera repressa, sfociata in un gesto di violenza cieca. L'"ira funesta" accompagna l'esordio dell'Iliade e la guerra di Troia, il gesto tragico della Medea di Euripide e il furioso accanimento di Orlando quando scopre l'infedeltà di Angelica. Passione complessa e misteriosa che assale come un vento impetuoso, divampa come un fuoco divorante e si abbatte con la violenza di una tempesta, l'ira può essere causata dall'ingiustizia, dall'orgoglio, dal desiderio, dall'inganno, dall'umiliazione. Essa può raggiungere il confine della follia, ma è di solito una perturbazione dell'animo limitata nel tempo, che non si mantiene a lungo e pertanto si distingue dall'odio e dal risentimento. Poiché ha a che fare con le relazioni ed è rivelatrice della nostra vulnerabilità, l'ira consente di conoscere noi stessi e può anche essere un sentimento psicologicamente buono, in grado di fornire un'energia che la sola ragione non può suscitare. In passato, nella liturgia funebre, si cantava la sequenza del Dies irae, il giorno dell'ira di Dio, la "giusta ira" che non mira a distruggere, ma ad affermare e custodire l'irriducibile differenza tra il bene e il male.
Anche i più santi, come Davide, e i più sapienti, come Salomone, hanno ceduto alla suggestione della lussuria, la passione ardente, il fuoco divorante che getta nel disordine l'ambito della sessualità umana. Come la gola è legata all'istinto di vita, così la lussuria è collegata all'istinto di riproduzione, che permette la sopravvivenza e la continuazione del genere umano. La sessualità è però molto più complessa ed enigmatica poiché rinvia a quanto di più profondo, misterioso e vulnerabile c'è nella persona, coinvolgendo anche ciò che vi è di più vitale e caratteristico. Il vizio della lussuria scardina e deforma proprio la relazione tra sesso, eros e amore, designando un comportamento disordinato e sregolato, una distorsione e una deformazione del desiderio e del piacere. Le pulsioni erotiche esprimono una natura caotica che sommerge l'altro, il cui corpo viene usato strumentalmente, reso oggetto, frammentato. La lussuria rattrista più di quanto dia gioia, è un albero dai frutti amari che produce ripiegamento su di sé e disgusto. La sua distruttività, come già aveva osservato Tommaso d'Aquino, risiede in un esagerato amore di sé, nell'incapacità di amare e di ricevere amore.
Li si chiama avari, ma anche spilorci, taccagni, tirchi, gretti, perché attaccati al denaro e alla ricchezza. Sono ossessionati dall'accumulare, conservare e possedere denaro e cose solo per sé, ma poi si trattengono dall'usarli. Ponendo cuore e mente in cose materiali, smarriscono il fine della propria vita, rinunciano a libertà e dignità e vivono nella miseria per paura della miseria, cercando continuamente di rimuovere l'insicurezza di sé, il timore assillante per il futuro, l'incubo della morte. Compendio di tutti i peccati e antitesi del precetto evangelico di amare il prossimo, l'avarizia è vecchia quanto il mondo: dal mitologico Mida, condannato a mutare in oro tutto ciò che toccava, al feroce e ambiguo Arpagone di Molière, dal dickensiano Scrooge al fumettistico Zio Paperone, che nuota nel denaro e conta in continuazione i suoi dollari. Radicale antidoto all'avarizia è la conversione dei desideri, l'esercizio per ristabilire il primato dell'essere sull'avere, la lucida consapevolezza che la vita dell'uomo, come ricorda con intensa semplicità il Vangelo di Luca, non dipende da ciò che possiede.
La superbia appare come espressione di un vasto insieme di vizi: orgoglio, tracotanza, boria esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere, arbitrio. San Tommaso, sulla scia di sant'Agostino, la definisce "desiderio disordinato di eccellenza". Esiste, infatti, in ciascuno di noi il legittimo desiderio di realizzare pienamente se stesso. Si tratta di uno stimolo, potente e positivo, a cercare di dare il meglio nelle diverse situazioni. La forza seducente e il fascino della superbia consistono proprio nell'esaltare il desiderio naturale di eccellere, incentrando in modo assoluto l'attenzione su se stessi e oltrepassando la propria misura. Esistono rimedi? Innanzitutto favorire una sana autostima, virtù laica che si contrappone alla superbia ed è una qualità indispensabile per vivere, e poi trovare il modo di entrare nella complessità propria e altrui, affinando la capacità di ascoltare e la curiosità di capire se stessi e gli altri. La virtù opposta alla superbia è l'umiltà, che non va confusa con la ritrosia, la timidezza, la mediocrità, la vigliaccheria. L'umiltà, infatti, non comanda di esagerare i difetti né di negare le proprie doti né di fuggire tutti gli onori, ma ne reprime ogni ricerca esagerata e non giustificata per beneficiare dell'eccellenza in modo equilibrato.
Vizio difficile da descrivere, l'accidia è soprattutto incuria e indifferenza, scoraggiamento e disgusto, "male di vivere" e principio di disperazione. Essa si manifesta attraverso il languore inattivo, l'assenza di concentrazione, la lentezza nell'operare il bene, la noia generalizzata, la paura del vivere e del morire. Non è semplice pigrizia, ma debolezza dell'anima e assenza di attrazioni, anche se può manifestarsi come "fuoco inquietante" e umore euforico. Sentimento per sua natura oscuro, complesso, confuso e sfuggente, l'accidia è dunque capace di molteplici espressioni, talvolta opposte nella loro apparenza, ma unite dalla medesima radice: l'annebbiamento della gerarchia dei valori, che ricopre tutto di un manto grigio e omogeneo. Gli antichi la definivano "tentazione meridiana", poiché caratterizza soprattutto la metà della giornata, ma anche il mezzogiorno della vita, e in passato era considerata una malattia tipica della vita monastica. Oggi, al contrario, essa viene sempre più considerata come uno stato d'animo universale e moderno, innestato sulle ferite interiori, sull'indecisione e sulla mancanza di desiderio. Sull'incapacità di riaccendere uno sguardo svuotato e assente nella direzione della gioia e della letizia.