Tenuto nel 1932 e dedicato all'interpretazione di Anassimandro e Parmenide - insieme a Eraclito i «pensatori iniziali» della filosofia occidentale -, questo corso universitario rappresenta una vera e propria cesura nel percorso di Heidegger dopo Essere e tempo, e si inserisce nella celebre «svolta» inaugurata dal saggio del 1930 sull'Essenza della verità. Compito della filosofia è ormai per Heidegger, impegnato nella ricerca di tale essenza, quello di rievocare la forza delle parole più elementari del pensiero delle origini - phy?sis, alétheia, noûs, lógos - mediante una comprensione prefilosofica, cioè preplatonica e prearistotelica, del fenomeno della verità. Si tratta cioè di compiere quel passo indietro che permette di ripensare in modo ancora più iniziale l'inizio del pensiero occidentale, prima della soglia che dà accesso alla storia della metafisica: non già per operare una ricostruzione filologica e storiografica, ma nella prospettiva che tale «inizio più iniziale» possa essere «ripetuto» e, soprattutto, trasformato in un nuovo inizio, promosso da un'umanità futura in modo ancora più originario. Sicché, conclude Heidegger, «l'inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, bensì sta davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza».
«Come Nietzsche aveva riconosciuto in Wagner il suo unico antagonista esistente e con ciò gli aveva tributato il più grande onore, così Heidegger ha dedicato a Nietzsche il suo scritto più articolato che tratti di un pensatore moderno, anche se in questo caso cronicamente inattuale, dandogli il supremo onore di definirlo “l'ultimo metafisico dell'Occidente”. E come Nietzsche si distacca in tutto dagli oppositori di Wagner, così Heidegger non ha molto a che fare con tutte le generazioni di critici e biasimatori di Nietzsche – è molto di più, è l'unico che risponda a Nietzsche».
L'interesse di Heidegger per Aristotele, testimoniato da questo corso universitario che il filosofo tenne nel 1924, si colloca nel periodo cruciale dell'elaborazione dell'analitica ontologico-esistenziale di Essere e tempo. In particolare, nell'analisi della Retorica aristotelica compaiono già, in nuce, alcuni 'concetti fondamentali della filosofia heideggeriana' - come "Dasein" (esserci) , "In-der-Welt-sein" (essere nel mondo) e "Befindlichkeit" (il sentirsi situato, la situatività, e anche la situazione emotiva) - destinati a lasciare un segno indelebile nella filosofia del Novecento. Ma, soprattutto, Heidegger si impegna qui - come raramente in seguito - in una brillante fenomenologia dei "pàthe", delle «passioni», e del ruolo determinante che esse svolgono nella vita e nell'esistenza dell'uomo. La messa in questione del tradizionale privilegio accordato agli atti intellettivi superiori che questo implica suggerisce l'idea che siano costitutivi dell'uomo, allo stesso titolo della ragione, anche gli elementi 'inferiori', quali la sensibilità, le affezioni e le passioni.
«Quando il pensiero, chiamato da una questione, la segue, durante il cammino può accadergli di mutare. Per questo è consigliabile, qui di seguito, prestare attenzione alla via, e meno al contenuto». Con queste parole si apre il primo dei testi raccolti in Identità e differenza, preziose testimonianze di due conferenze tenute nel 1957, in cui Heidegger dà alla propria speculazione una forma meno didattica che nei corsi universitari, ma anche meno esoterica che nei trattati. Nel celebre Il principio di identità viene indicata l'opportunità di «staccarsi dall'atteggiamento del pensiero rappresentativo», compiendo un «salto» al di fuori del principio di identità e della metafisica che su di esso si fonda per lanciarsi nell'abisso dell'Evento, in cui uomo ed essere coappartengono. In La struttura onto-teo-logica della metafisica, attraverso un serrato colloquio con Hegel, ed esperendo «nella loro autentica importanza termini ormai usurati come “ontologia”, “teologia”, “onto-teologia”», Heidegger esorta a fare il «passo indietro» che ci trasferisca «dalla metafisica all'essenza della metafisica». Un passo indietro che preparerebbe quel contromovimento di pensiero in grado di sottrarre l'uomo al nichilismo della tecnica: «Ciò che è stato detto lo si è detto in un seminario. Come indica la parola, un seminario è un luogo e un'occasione per spargere qua e là un seme, un granello di pensiero meditativo che prima o poi, una volta o l'altra, a modo suo, potrà schiudersi e dare frutti».
Quest'opera dall'aura esoterica - stesa tra il 1936 e il 1938 sull'orlo di una drammatica crisi filosofica e personale, ma pubblicata solo nel 1989 - è il tentativo più organico e coerente compiuto da Heidegger per riorganizzare il suo pensiero dopo la cosiddetta "svolta". Prende dunque forma un universo speculativo nuovo e sorprendente rispetto a quello di "Essere e tempo": entrano in scena l'interpretazione della metafisica come oblio dell'Essere, la diagnosi storico-epocale del nichilismo e della tecnica, il confronto con Nietzsche e con Hölderlin, la dottrina dell'"ultimo Dio" e di un "altro inizio" della storia. In realtà già alla fine del capolavoro del 1927 si profilava l'esigenza di rovesciare la teoria quasi trascendentale dell'Esserci per considerare non solo il suo puro autoprogettarsi, ma anche l'immemoriale e insondabile provenienza della sua finitudine dalla storia dell'Essere. Con il pensiero della "svolta", cui quest'opera dà corpo, Heidegger teorizza la coappartenenza di Essere ed Esserci in quell'"evento-appropriazione", "l'Ereignis", con cui l'Essere si affida all'Esserci in un'alternanza di donazioni e sottrazioni, concessioni e rifiuti, manifestazioni e occultamenti, che ritmano le "epoche" della storia.
Senza rinunciare al proprio punto di vista squisitamente filosofico, e professandosi "in linea di principio ateo", Heidegger interpreta l'esperienza religiosa come matrice esemplare per capire la dinamica originaria della vita umana nella sua "fatticità", quindi nella sua "gettatezza", finitudine e storicità. In particolare egli si accosta ai documenti del primo cristianesimo, e soprattutto alle lettere dell'apostolo Paolo e alle "Confessioni" di Agostino, per assimilarne con avidità le intuizioni filosofiche e delineare sulla loro scorta i tratti genuini della vita umana nella sua fatale tendenza alla perdizione e allo scacco, ma anche nella sua ricerca di un'ardua eppur raggiungibile riuscita.
Che cosa sta all'origine della parola "nichilismo", che l'"intelligencija" russa fece dilagare nell'Europa ottocentesca? Nietzsche la definiva un "ospite inquietante", che inficia ogni atto. E al tempo stesso osava affermare di essere "il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé, fuori di sé". Chi ha saputo raccogliere la sfida di Nietzsche è stato innanzittutto Heidegger. A partire dagli anni Trenta, nel lungo periodo in cui elaborò il suo imponente "Nietzsche", Heidegger individuò nel nichilismo il tratto peculiare dell'Occidente, quello che domina la sua storia non già dai sussulti rivoluzionari dell'Ottocento, ma fin dalle origini greche.
Prosegue con questo volume l'edizione adelphiana delle opere di Martin Heidegger (1889-1976). Il libro, con il Poscritto e l'Introduzione, sono qui presentati in edizione riveduta e arricchita di un'Appendice e di un esaustivo Glossario.
Questa grandiosa opera non è né una monografia su Nietzsche, né una semplice interpretazione del suo pensiero e nemmeno la ricostruzione di un capitolo di storia della filosofia. Si tratta di un vasto e serrato confronto che Heidegger ingaggia con Nietzsche, interrogandone i testi al fine di scoprire il filo conduttore che lega in una trama unitaria le sue dottrine fondamentali. Lungo un itinerario che va da Nietzsche a Platone, e da Platone a noi, Heidegger giunge a mostrare che tali dottrine non sono lo stravagante parto della mente ormai malata del pensatore, ma costituiscono l'ineludibile compimento della metafisica occidentale. Al tempo stesso il pensiero di Nietzsche attua un rovesciamento della metafisica e apre interrogativi su una crisi ancora attuale.