La contestazione, fino al rifiuto, dell'autorità quale freno alla libera espressione del sé è una delle eredità del secondo Novecento, soprattutto delle lotte del '68, con la messa sotto accusa dei pilastri su cui l'autorità poggiava - la tradizione, il padre, l'insegnante, la Chiesa - in nome dell'affermazione dello spirito individualistico. Eppure, come l'araba fenice, l'autorità risorge in continuazione dalle sue ceneri, ricostituendosi in forme inedite, più fuggevoli e indeterminate, ma non per questo meno efficaci. Assistiamo al moltiplicarsi di spinte per un ritorno all'ordine di un padre autoritario, tirannico e fondamentalista, oppure, in modi più sottili ma insidiosi, al presentarsi di un dominio tecnocratico che di fatto punta al superamento della condizione umana come la conosciamo. A chi dunque dobbiamo guardare? Non si tratta di tornare indietro, come qualcuno immagina. Si tratta, piuttosto, di andare avanti, riflettendo in forme nuove su un termine che rimane essenziale e insieme difficile. Perché, scrivono Mauro Magatti e Monica Martinelli nel saggio "La porta dell'autorità", un mondo senza autorità non è possibile, se non a costo di perdere la libertà. Quella libertà in cui proprio il limite diventa risorsa per l'azione, dando una prospettiva al nostro punto di vista sul mondo. Occorre insomma ricostruire il legame tra le generazioni, riconoscendo all'autorità la capacità di essere lo snodo tra chi viene prima e chi viene dopo (e non solo in senso temporale). In tal modo l'autorità può essere vista come una porta che, mentre inquadra - definendo così una direzione -, al tempo stesso apre a un futuro che ancora non c'è ma che pure non procede dal nulla.
Wall Street, settembre 2008: il fallimento della banca d'affari Lehman Brothers segna l'inizio della grande crisi che in questi anni ha causato tanta sofferenza. Si è trattato di un vero e proprio infarto del cuore del sistema finanziario mondiale. La metafora è semplice e immediata. Nella riflessione del sociologo Mauro Magatti, attento da sempre ai rapporti tra mondo economico e società, la figura dell'infarto diventa strumento efficace per capire la crisi e immaginare una prospettiva per il suo superamento. Come l'infarto si cura in prima battuta con un farmaco salvavita per evitare la morte del paziente, così il collasso del sistema è stato evitato dall'immissione di liquidità da parte degli Stati: un intervento tampone, però, insufficiente a rimuovere le cause. Occorre invece, come nel caso del paziente infartuato, analizzare con lucidità le cattive pratiche comportamentali che hanno portato alla crisi, l'infernale congegno del capitalismo tecno-nichilista che riduce l'uomo a una sorta di 'macchina desiderante' mai appagata e mai felice, quel consumatore insaziabile che dovrebbe alimentare una crescita senza fine. Se si vuole evitare lo schianto finale del sistema anche sotto il peso di un'ingestibile infelicità collettiva, vanno individuati, oltre a logiche economiche diverse, nuovi stili di vita, nuovi paradigmi mentali che permettano di recuperare quella relazione tra economia e società, tra efficacia tecnica e sviluppo umano, sistematicamente negata...