"Poniamoci una domanda: i grandi amori quanto durano? quando si stabilizzano nel tempo? quando l'altro non è più solo il termine del desiderio, ma è qualcosa che io prendo in custodia perché mi sta a cuore. Perché se Eros non diventa philia degenera in vizio. Affinché una relazione si stabilizzi, le anime stesse devono essere stabili, ci deve essere rispecchiamento e specularità tra di esse." (Salvatore Natoli).
"La formula 'fine del moderno' - entrata da tempo in uso e oggi forse anche uscitane - suggerisce l'idea, in qualunque modo la si voglia intendere, che del moderno qualcosa è tramontato. Che, poi, si sia definitivamente concluso si può anche discutere, ma non v'è dubbio che Nietzsche si colloca al centro di questo snodo e ne rappresenta il radicale crocevia. Motus in fine velocior, e di questo Nietzsche è conseguenza e insieme manifestazione: non per caso formula la sua filosofia come un annuncio. Per la stessa ragione, costituisce un punto di non ritorno, un inevitabile transito. Ciò dà conto della ragione per cui proprio con Nietzsche venga quasi spontaneo passare al 'dopo Nietzsche'. E lui che suggerisce d'oltrepassarlo. Questo libro non è perciò, né vuole esserlo, una ricostruzione storico-critica del pensiero di Nietzsche, ma piuttosto insiste e si muove lungo quella traiettoria di pensiero, quella curvatura che Nietzsche ha impresso alla filosofia come luogo proprio per sollevare questioni di verità."
La filosofia e in genere la cultura contemporanea hanno posto come uno tra gli oggetti privilegiati di analisi la questione del soggetto. Il soggetto ha dato luogo così a un decisivo dibattito, che si enuncia nella filosofia idealista, si mantiene in forme diverse nella sua crisi e oltre, sussiste oggi come problema aperto. L'intenzione di Salvatore Natoli, in questo libro, è quella di chiarire il significato e il valore della nozione di soggetto nei suoi tratti costitutivi e dominanti. E la conclusione cui si arriva è che il concetto di soggetto coincide con quello di fondamento: il soggetto fonda in quanto con esso si pone il principio dell'identità e della differenza. In questa ricerca si concentra sull'analisi di due "luoghi" della storiografia filosofica che si possono ritenere classici al fine d'enucleare l'idea di soggetto: Aristotele e Cartesio; tracciando, a partire da questi due modelli, in primo luogo un'"ideografia" del soggetto, seguendone in secondo luogo il movimento e delineando così una "dinastia". Con la riedizione di Soggetto e fondamento torna uno dei testi di filosofia più importanti degli ultimi trent'anni, uno studio da cui si sono sviluppate le riflessioni etiche delle opere successive di Natoli.
È possibile abitare il mondo senza fughe in un’improbabile trascendenza, e senza deliri d’onnipotenza? La fortezza, la temperanza, il coraggio, in breve tutte quelle che un tempo si chiamavano virtù, esistono ancora? Sembrano dimenticate. Ma in una società mobile, complessa, frammentata, in un mondo dove orientarsi non è facile, si sente il bisogno di darsi un’identità, d’instaurare rapporti giusti e fecondi con gli altri, si sente il bisogno di concedere e ricevere fiducia. Per questo le virtù riaffiorano e, anche quando il bisogno non è dichiarato, se ne sente tuttavia la mancanza.
Indice
I. Vita mortale, morte immortale - II. Cura di sé ed estetica dell’esistenza - III. La pratica delle virtù nel tempo presente - IV. Virtù personali, destini comuni - Note
Muovendo dalla distinzione aristotelica tra l'"agire" e il "fare" Salvatore Natoli compie un'indagine accurata e densa di suggestioni filosofiche e culturali sul "buon uso del mondo", riflettendo se e quanto siamo effettivamente padroni di noi stessi in quel che abitualmente facciamo. Sulla base di sollecitazioni nicciane ancora valide e illuminanti, Natoli suggerisce un'alternativa: emanciparsi dalla passività per diventare davvero liberi, praticare una "nuova" forma di ascesi, che non è rifiuto del piacere e meno che mai rinuncia alla godibilità delle cose e del mondo, ma è la giusta riserva di coscienza per distinguere ciò che davvero ci serve da ciò che ci "asserve". È una pausa nella frettolosità del fare, per divenire appieno padroni di noi e del nostro stesso agire. Una riflessione autorevole e appassionante sulle complesse leggi che governano la nostra vita quotidiana, nella convinzione di poter penetrare nelle sue pieghe e sciogliere, per quanto possibile, alcune sue ambiguità. Un libro che non da facili soluzioni ma che indica a ognuno di noi, con coraggio e lucidità, una strada da percorrere.
Due esperienze della relazione tra l’uomo e il divino. Questi sono Edipo e Giobbe, assunti qui come modelli dell’esistenza. Da un lato il mito greco, nel quale si racconta l’enigma del rapporto tra l’uomo e il suo destino. Il male è causato involontariamente, questa è la colpa di Edipo: è una contraddizione, che contrassegna per i Greci il finito. Dall’altro lato, la disputa tra il giusto, Giobbe, e il suo Dio: «Perché proprio a me, innocente, capitano queste disgrazie?». Una domanda che diventa tensione della fede e ne mostra la natura paradossale: Giobbe «ama Dio, senza nulla in cambio».
Una colpa involontaria, una sofferenza incolpevole: due modelli distanti non solo culturalmente, ma ancora prima logicamente. È la differenza tra tragedia e mistero, tra un mondo in cui il destino decide e una storia in cui un Dio salva. La cultura dell’Occidente può essere vista come un instabile convivere di questi due modelli di elaborazione del dolore. Sono orizzonti di senso che, nonostante il venire meno delle memorie di cui è intessuta una tradizione culturale, persistono anche nell’oggi quando l’uomo si trova di fronte alle situazioni limite.
Una riflessione sull'esperienza del dolore in cerca dei luoghi comuni e topoi della tradizione greca e ebraico-cristiana dell'Occidente. Una ricerca sulle tensioni presenti nell'universo del dolore e sulle aporie del futuro. Un'occasione terapeutica di individuazione della giusta distanza per tener testa al proprio patire individuale.
Come si è venuta costruendo una filosofia? Quali sono state le tappe della sua gestazione? Sono queste le domande che trovano risposta in questo libro-intervista di Salvatore Natoli. Dagli anni giovanili in Sicilia alla frequentazione dell'Università Cattolica, dallo studio dei classici ai primi lineamenti di un'ermeneutica genealogica, dall'elaborazione di una teoria del soggetto a un'immedesimazione sempre più intensa con il dolore e la felicità degli uomini, dalla ripresa del tema delle virtù allo sviluppo di un'etica del finito: nel percorso filosofico di Natoli l'ascolto e l'interpretazione del reale vanno di pari passo, in un incedere che elabora categorie, offre modelli e fornisce un orizzonte per orientarsi nell'enigmaticità del mondo.
"Il neopaganesimo può essere variamente definito e interpretato. In questo caso per neopaganesimo si deve, però, intendere quell'atteggiamento, o quel punto di vista, che coincide con l'etica del finito o che comunque l'assume come propria." Inizia così la riflessione di Salvatore Natoli che ruota attorno al tema del neopaganesimo e della sua etica, nell'accezione di visione del mondo e senso, ethos, ossia costume e abitudine, più che regola e dovere. Etica del finito significa dunque comprendersi a partire dalla propria finitudine. Il neopaganesimo è quindi costitutivamente non cristiano, anche se non necessariamente anticristiano; il cristianesimo postula infatti una finitudine, ma è quella propria della creatura di Dio, non quella naturale del mortale. Il paganesimo cui Natoli fa riferimento è quello della visione greca del mondo, per cui la misura della finitudine è invece solo la morte; quindi il finito finché esiste è degno di esistere e l'uomo deve valorizzarsi nel tempo, mantenersi fedele al presente, essere all'altezza della propria morte. Per vivere il finito senza pretendere l'infinito, il pagano deve sapere quel che può, in assenza di speranza di salvezza e nella consapevolezza della comune fragilità umana. I nuovi pagani, qui presentato in edizione ampliata e con un nuovo titolo, è stato pubblicato per la prima volta da il Saggiatore nel 1995.
Salvatore Natoli è da sempre attento agli interrogativi più urgenti del presente. La felicità, per dirla con le sue stesse parole, è un "tema d'esistenza, anzi, per usare una formula cara agli antichi, è il fine stesso della vita". "L'attimo fuggente e la stabilità del bene" è una riflessione sulla dinamica di fondo che caratterizza la felicità e i suoi molti modi di manifestarsi: la beatitudine, la serenità, la gioia. La felicità, dunque, non sta solo nell'attimo, nell'acme cui perveniamo, ma nell'appartenere a essa. La felicità è piacere d'esistere, fecondità. È espressione della vita che vuole se stessa e che trova compimento nella sua stessa realizzazione: nelle vite riuscite. Per questo la felicità, come dice Nietzsche, non risiede tanto nella sazietà, ma nella gloria della vittoria, per questo ha la forza di rinvenire perfino sopra e oltre il dolore. In questo senso essa è frutto di virtù. Non è perciò solo un mero transitare, un sentimento labile, ma è un bene stabile. Coincide, infatti, con la capacità di trasformare gli ostacoli in sfide, di generare a ogni momento il bene e di fruirne. La felicità è il sì incondizionato alla vita. Il volume contiene la "Lettera a Meneceo sulla felicità" di Epicuro.
Un esercizio della filosofia attraverso l'esposizione e la meditazione di alcune sue grandi parole. Il ripensarle oggi mostra come la loro vita e la loro fecondità sopravvivano all'esaurimento e alla dissoluzione dei sistemi. Nel riproporre alcune grandi parole della filosofia, il libro intende offrire materiali per pensare e soprattutto l'occasione per rielaborare la ricchezza semantica e simbolica della tradizione. Il testo costruito nella forma di un lessico filosofico - per coppie oppositive o complementari lavora sulle parole: è esercizio teorico e insieme recupero e meditazione di parole antiche di cui vale la pena accertare se è possibile usarle ancora, reimpiantandole nel presente e dando luogo a nuove germinazioni di pensiero.
Costante, nella tradizione filosofica, è stata l'argomentazione della teodicea: discolpare Dio dei mali del mondo, per giustificarne la bontà. Il Novecento - accanto a un ritorno di quell'argomento trasformato in domanda sull'assenza di Dio ad Auschwitz - sembra consegnare al pensiero un'altra sfida: demitizzare il concetto di male assoluto, per far fronte agli orrori che gli uomini procurano a se stessi e ai propri consimili. Quelle sofferenze causate dalle ideologie protese alla realizzazione nella storia di un valore assoluto. E la filosofia, distanziandosi criticamente dalle tentazioni idolatriche, è invitata a trasformarsi in "etica del finito", "cura di sé": un sapere dove gli uomini trovino, a partire dalle tradizioni anche religiose dalle quali provengono, le parole per gli enigmi del male - quelle parole che offrano loro disincanto, responsabilità e amore del prossimo. Amore che è insieme custodia e pietas degli altri e di sé.