Seneca torna a parlare dell'uomo e di due sue attitudini opposte: la saggezza e l'ira. Ira che non è irascibilità, così come non è decisione e slancio, ma un sentimento irrazionale, spesso anticamera della crudeltà. Esiste un antidoto, si chiede Seneca? Sì, la ragione, coerente quanto l'ira è incostante; e la pacatezza, la capacità di mettere del tempo tra noi e ciò che ci destabilizza per abituarci a una visione limpida, sgombra da sentimenti inquinanti. Seneca ci invita a rimanere umani, a essere superiori alle malevolenze e alle ingiurie. Perché non ne vale la pena: il tempo di un battito d'ali e voliamo via.
La prima parte risulta la più interessante: vivere secondo natura, godere della libertà interiore, esercitare la razionalità, avere come guida la virtù, ricercare il sommo bene sono argomenti sui quali anche il più spensierato degli uomini di tanto in tanto riflette. La seconda parte del dialogo invece risulta più sottile che convincente; l'intento è fin troppo scopertamente autodifensivo: è vero che la saggezza si può praticare sia nelle difficoltà sia negli agi, ma è molto meglio essere ricchi che mendicanti, godere di buona salute che essere cagionevoli, abitare in una casa confortevole che sotto un ponte e potremmo continuare. Infine nella polemica contro l'Epicureismo, che diventa l'alibi filosofico di ogni sfrenatezza e contro le dottrine che tentano di insinuare nello Stoicismo motivi edonistici travestiti da amici della virtù, troviamo un serio ammonimento: non cediamo ai facili accomodamenti fra le grandi scuole di pensiero - una specie di trasformismo etico - ma ancor più dobbiamo saper dire "no" ai piccoli e grandi compromessi che avvengono nel chiuso della nostra coscienza.
Come raggiungere la felicità, come mantenere il proprio equilibrio, come affrontare l'azione della vita di tutti i giorni, in armonia con i propri desideri. Sfidando i secoli, i consigli del grande filosofo a un giovane poeta, risultano preziosi suggerimenti per gli uomini di tutti i tempi.
L'irrequietudine dell'animo: come riconoscerla, diagnosticarla, curarla. Solo dopo queste fasi si potrà arrivare alla tranquillità dell'animo. Ma attenzione: tranquillitas non è possesso definitivo, dal quale nulla e nessuno possa allontanarci, ma equilibrio continuamente raggiunto, perduto, recuperato, nella consapevolezza che l'animo umano vacilla facilmente di fronte alle molte, troppe insidie che sono in noi e fuori di noi. Tranquillitas quindi non sarà assenza di movimento, ma incessante attività dello spirito, in continua dialettica con se stesso.
Le "Epistulae morales ad Lucilium" rappresentano l'espressione più matura della riflessione filosofica di Seneca. Si tratta di una raccolta di 124 lettere indirizzate all'amico e discepolo Lucilio, composte durante gli anni di ritiro dalla vita pubblica tra il 62 e il 65 d.C. Con una scrittura raffinata e uno stile decisamente nuovo rispetto a quello più ampolloso di Cicerone, le Lettere rappresentano uno straordinario documento del sentimento drammatico dell'esistenza. Partendo da problematiche di vita quotidiane, egli affronta argomenti di diversa natura, mettendo in luce le incertezze e le contraddizioni che lacerano ogni uomo e indicando, lettera dopo lettera, il cammino verso la libertà interiore e la virtù.
Quanto tempo perdiamo in occasioni inutili, dietro futili impegni senza costrutto? Eppure pesa su di noi l’idea che il tempo corra sempre veloce, che ci sfugga, che scivoli via troppo in fretta e che la vita, in una parola, sia troppo breve. Ma la vita non è breve: è lunga abbastanza (satis longa), è persino abbondante (large data), a patto che si sappia spenderla bene. Siamo noi che la abbreviamo, impiegando in attività pubbliche e private il tempo che dovremmo dedicare a noi stessi. Nel De brevitate vitae Seneca capovolge così l’approccio, mostrando che non è il tempo a nostra disposizione il problema ma il valore che noi decidiamo di accordargli. Vivere a lungo significa vivere bene il proprio tempo, e qualsiasi vita è sufficiente per realizzare anche le imprese più grandi. Basta volerlo.
In diverse occasioni, soprattutto nelle Lettere morali a Lucilio, Seneca fornisce dettagli sulla sua vita privata e sulle sue abitudini alimentari. Se i suoi contemporanei prediligono tavole imbandite con ostriche di lago e carne di cinghiale, lingue di fenicottero e vini addolciti dal miele, il filosofo opta per la frugalità di brodini e polenta, pane d'orzo e acqua semplice. Seneca ritiene, infatti, che il cibo rappresenti un'occasione per esercitare la virtù, per separare ciò che è essenziale da ciò che non lo è, un esercizio che presenta diversi punti di contatto con i precetti sui cibi della tradizione ascetica e monastica cristiana.