Marito felice, padre affettuoso, uomo di cultura, scrittore fecondo (celeberrimo il suo Utopia), brillante avvocato, chiamato alla più alta carica del Regno d'Inghilterra, Thomas More (1478-1535) è l'esempio di un cristiano che affronta come meglio può tutti i versanti della propria vita. Così ha affermato il 31 ottobre 2000 papa Giovanni Paolo II nel proporlo come riferimento universale di chi voglia servire con coscienza gli interessi pubblici: «Molte sono le ragioni a favore della proclamazione di san Tommaso Moro a patrono dei governanti e dei politici. Tra queste, il bisogno che il mondo politico e amministrativo avverte di modelli credibili, che mostrino la via della verità in un momento storico in cui si moltiplicano ardue sfide e gravi responsabilità». Nell'orto degli ulivi è l'ultima opera scritta dall'ex Cancelliere d'Inghilterra. La compose in carcere, nella Torre di Londra, mentre attendeva la decapitazione per non avere dato il suo assenso al divorzio del Re Enrico VIII e, di conseguenza, allo scisma della Chiesa d'Inghilterra dalla Chiesa cattolica. Questo capolavoro letterario e spirituale, scritto con spirito contemplativo, con acume e con la prosa magistrale di chi è stato anche un alfiere della cultura umanistica, guarda nell'intimo della coscienza per illuminarla nel momento in cui, con il tremore di chi mette in gioco la propria vita, ogni maschera cade e ci si confronta con il proprio Redentore.
Un aspetto della personalità di Thomas More che manifesta continuità e coerenza di pensiero è indubbiamente la sua attitudine all'allegria. Un lato della sua anima poliedrica tutt'altro che minore, probabilmente il più indicato e rappresentativo per descrivere l'unicità del suo essere, quello che consente di dipingere il ritratto della sua reale interiorità. La traduzione italiana delle facezie moreane si inserisce in questo contesto e dibattito culturale nella misura in cui il More che si dilettava per puro piacere a prendere in giro la moglie è lo stesso che sul patibolo impartisce al boia consigli su come tagliargli la testa. Quanti conoscono la vita dell'illustre umanista inglese non possono ignorare quel suo inimitabile spirito ludico che divertiva tutti e attraverso il quale egli governava la casa e la nazione. Non c'è biografo che non si sia soffermato con piacere a descrivere questo particolare atteggiamento del suo spirito riportando episodi burleschi e battute canzonatorie che lo vedevano in azione. Indubbiamente le facezie nascono dall'importanza che More dava all'allegria e al buonumore nella conduzione dei rapporti umani, nonché dalla scoperta della loro capacità intrinseca di mitigare attraverso un piacere, derivante dal gioco e dallo scherzo, la fatica dell'anima. Ai riformatori protestanti inglesi che lo accusarono di mancanza di serietà rispose nella sua Apology che «un uomo può alle volte, in mezzo al gioco, dire grandi verità; e per chi è laico, come me, è forse più conveniente esporre il proprio pensiero allegramente che non predicare con solenne serietà».
«Fu certamente una questione di principio, quella per cui morì: e tuttavia, ancor oggi, non sappiamo bene quale. Eppure un principio per cui si è disposti a dare la vita non pare che possa restare nel vago, e non lasciarsi dichiarare in tutte lettere: a qual pro sacrificarsi? Ma Moro enunciò quel principio solo da ultimo, al termine della prigionia; e, per di più, in una forma non chiara fino in fondo. Se si aggiunge che si tratta di una considerazione molto sottile, le cui implicazioni, forse, erano presagite più che consapute dallo stesso Moro, non meraviglia che i suoi amici non capissero perché volesse morire... La questione non era (non occorrerebbe ripeterlo, se l'equivoco non si fosse radicato a livello popolare) di esorcizzare il divorzio. Enrico VIII non pensò mai di divorziare. Anzi, la difficoltà nacque, semmai, precisamente dal fatto che, tra gli espedienti con cui sperare di cavarsi d'impiccio, non suppose mai che potesse esserci il divorzio» notava Vittorio Mathieu in un saggio dove, quasi quarant'anni fa, metteva a fuoco bene la questione fondamentale: rimanere fedeli a una verità che esiste e non è un prodotto della storia. «La storia - scrive Mathieu - sarà giudicata dalla verità e non ne sarà il giudice. Difendere questa posizione - e, per difenderla, anzitutto ritrovarla e ripensarla - è di gran lunga il compito più importante dell'uomo del nostro secolo. Se essa cadrà definitivamente, non ci sarà più l'uomo, perché non ci sarà più nessuno dei valori in funzionerei quali l'uomo si definisce. Se continuerà a mescolarsi, per mancanza di riflessione, con una posizione assolutamente incompatibile, l'uomo continuerà a esistere nella condizione di stallo, di disorientamento essenziale, di autolesionismo, di alienazione in cui si trova. Solo se sarà riaffermata l'indipendenza della verità da ogni volontà e da ogni potere, e il diritto della verità di giudicare ogni volontà e ogni potere, l'uomo tornerà ad avere un rapporto, anche se sempre problematico, col valore». Questa è la lezione insuperata e attualissima di Moro e del suo martirio, che emerge nelle lettere e negli epigrammi.
Il filosofo e viaggiatore si chiama Itlodeo, colui che racconta menzogne... L'isola esplorata Utopia, che può significare sia la contrazione di "Eutopia", luogo felice e ottimo, sia la storpiatura di "Outopia", luogo che non c'è... Il governatore dell'isola è Ademo, il senza popolo. La capitale Amauroto, la città invisibile. Il fiume che la percorre è l'Anidro, il privo d'acqua... È Utopia di Tommaso Moro, un "libello" aureo e ironico, dedicato alla ricerca di quale sia la forma migliore di governo. Un'opera che sta per compiere cinquecento anni (è stata pubblicata nel 1516), ma che non ha perso nulla della sua originaria freschezza, vitalità e forza visionaria. Un manifesto per tutti gli inguaribili sognatori della "città ideale", in cui siano bandite la sopraffazione, la diseguaglianza e l'intolleranza. Un luogo che non si trova sulle cartine geografiche, ma che esiste nella mente e nei cuori di chi si impegna a farla vivere.
Quanto sia stata profonda la devozione di san Tommaso Moro per l'eucaristia è ancora tutto da raccontare. Egli visse la realtà del sacramento adeguando la sua intera esistenza al mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù, fu il primo e più grande difensore in Europa della presenza reale di Cristo nel sacramento contro riformatori del calibro di Lutero, Tyndale, Frith, Barnes ed altri, le sue opere sono dense di richiami eucaristici. L'ultimo anno della sua vita in carcere scrisse un Trattato per ricevere degnamente il corpo del Signore. Ma non saremmo fedeli alla verità storica se ci limitassimo a registrare la presenza di questa devozione nella vita di Moro e quanto essa abbia contribuito al perfezionamento delle sue virtù, se non prendessimo in considerazione la sua esperienza spirituale come una testimonianza di laicità eucaristica. Lo scopo di questa pubblicazione è quello di indagare e portare sul banco degli studiosi tale significativo locus theologicus che ricaviamo dalla vita e dal pensiero di Tommaso Moro.
Tommaso Moro scrisse il Dialogo del conforto nelle tribolazioni negli ultimi mesi di prigionia, trascorsi nella Torre di Londra prima di venire giustiziato il 6 luglio 1535. Fin dalla sua apparizione quest'opera è stata considerata uno dei capolavori della meditazione spirituale ("un manuale dei martiri") nonché uno dei più alti esempi di dialogo letterario in lingua inglese, in cui la profondità dell'analisi dell'animo umano si accompagna sempre al tocco lieve dell'umorista. Sullo sfondo di una società attraversata da una profonda crisi spirituale e civile, il Dialogo affronta il grande tema della presenza del male e della sofferenza nel mondo e del modo in cui poter meglio affrontare questa sfida. In un'epoca in cui l'Europa si sentiva minacciata dal pericolo di invasioni esteme, Tommaso Moro invita a guardare anche e soprattutto ai rischi provenienti dall'interno: dalle degenerazioni dispotiche dei governanti nonché dalle debolezze dell'animo umano. In queste pagine la riflessione teologica si innesta su una finissima osservazione antropologica e psicologica, che analizza una ad una le prove a cui l'umanità è sottoposta: dubbio, paura, tribolazione, disperazione, suicidio, orgoglio, pusillanimità, eccesso di scrupolosità, odio, persecuzione, martirio.
Si tratta della meditazione sulla passione di Cristo che l’autore scrive mentre è in prigione alla Torre di Londra, in attesa della condanna a morte. È un testo libero da schemi, al di là del seguire la progressione della Passione, in cui vi sono meditazioni in cui Moro sembra parlare a se stesso e brani di tipo quasi omiletico , esposti da Moro stesso o che lui mette in bocca a Gesù.
I temi sono quindi diversi: dal dovere di ringraziare Dio dopo i pasti, alla preghiera, dalla paura di fronte al martirio al sonno dei pastori, all’interrogarsi sulle ragioni della tristezza di Cristo.
Strutturato in due parti (la seconda molto più breve) in cui ogni capitoletto è preceduto dal testo evangelico che viene commentato o meditato.
rivivendo con quella di Gesù la propria agonia, Moro si interroGa ripetutaMente sulla paura di fronte a quella Morte violenta, sulla sonnolenza che ci fa riluttanti a operare il bene, sulla necessita dell’orazione per rimanere svegli.
Punti forti
Una lunga riflessione che stimola il cristiano a un atteggiamento di vigilanza e fedeltà. Pathos, argomentazione, esortazione e ironia sono strumenti letterari efficacissimi in mano a Moro
Gioca su registri stilistici diversi: dallo stile meditativo alla lucidità argomentativa quando si tratta di questioni teologiche.
Nel testo risuona la verità e la testimonianza coerente dell’autore
Destinatari
Accessibile a tutti sempre.
Cultori di Letteratura rinascimentale
Autori
Tommaso Moro (1478-1535), grande letterato e politico del Rinascimento, amico di Erasmo da Rotterdam. È il momento dell’umanesimo religioso, che produce opere come l’Utopia, che ispira movimenti di riforma nella Chiesa. Domenico Pezzini, specialista di testi ascetici e mistici del medioevo e primo Rinascimento, ha curato per noi molti testi, da Aelredo di Rievaulx a Isacco della Stella e Pietro il Venerabile, oltre che alcuni testi di spiritualità.
Tommaso Moro è certamente noto al pubblico più come umanista e autore dell’Utopia (1516) che come poeta in lingua inglese. Eppure è questa la prima immagine che ci forniscono di lui i Works del 1557 e che le biografie cinquecentesche tramandano come legata agli ultimi momenti della vita del martire londinese.Troppo spesso considerata quasi solo una curiosità, la lirica moreana ci restituisce, invece, una sintetica e brillante immagine del Tommaso Moro uomo e del suo pensiero.
destinatari
Un libro dedicato a un ampio pubblico.
l’autore
Thomas More (tommaso Moro), umanista e uomo politico, nasce a Londra il 7 febbraio 1477 (o 1478). Cancelliere del re Enrico VIII, si rifiuta di sottoscrivere il preambolo dell’“Atto di successione” che pone il sovrano a capo della Chiesa d’Inghilterra sottratta all’autorità papale.Viene perciò condannato a morte il 1° luglio 1535 e decapitato il 6 luglio. Il 19 maggio 1935 Pio XI lo proclama santo. Di Thomas More le Edizioni San Paolo hanno pubblicato Tutti gli epigrammi (1994) e Gesù al Getsemani. DeTristitia Christi (2001). Carlo M. Bajetta è professore ordinario di Letteratura inglese e preside della Facoltà di Lingue e Comunicazione presso l’Università della Valle d’Aosta. Ha collaborato con la Bibliographical Society britannica, alla nuova edizione del Dictionary of National Biography (2004) e alla recente edizione delle lettere di C.S. Lewis (2000-2006). È coordinatore nazionale per la Annual Bibliography of English Language and Literature, membro della European Association for the Study of English e della Bibliographical Society of the University ofVirginia.È vicepresidente dell’As- sociazione Italiana di Anglistica. Per San Paolo ha curato l’edizione italiana delle Lettere ai Bambini di C.S. Lewis (2009).
Contiene la descrizione fantastica di un paese ideale, che ha fatto sognare per secoli intellettuali di ogni tendenza. Oggi, dopo l'esito disastroso dei totalitarismi europei, l'illusione di Thomas More suscita perplessità. Nella società da lui descritta tutti vestono casacche identiche, vivono in appartamenti rigorosamente uguali, mangiano in mense comuni, non praticano il sesso fuori del matrimonio né svaghi che non siano "utili o educativi". Un modello di felicità che, dopo aver ispirato generazioni di sognatori, appare rievocare tanti fantasmi.
E’ l’ultima opera scritta da Tommaso Moro, mentre si trovava in carcere, in attesa dell’esecuzione capitale, prima che gli venisse tolta la possibilità di scrivere e l’opera si conclude significativamente nel punto in cui i soldati mettono le mani addosso a Gesù.
Si tratta di una lunga riflessione che lo statista inglese scrive in uno stile che va dalla meditazione, all’esortazione, all’ironia, all’enfasi oratoria, alla lucidità argomentativa, se sono in gioco questioni teologiche. Profondità del contenuto ed eleganza della forma documentano la statura culturale e spirituale di un grande personaggio che ha segnato l’Inghilterra del 1500 e che tutt’ora di grande attualità. Volume curato da D. Pezzini.