La Chiesa di oggi sembra in cerca di un varco per il futuro. Mossa dal potente impulso riformatore di papa Francesco, diventa sempre più consapevole della necessità di un cambiamento al proprio interno per essere all'altezza di quanto richiestole dal vangelo di Gesù. Ma quali priorità deve assumere? Quali nodi deve sciogliere? Che forma dare all'istituzione ecclesiastica perché non finisca con l'oscurare il volto del Dio di Gesù, ma riprenda quell'arte di tenere accesa la luce della fiamma evangelica che sa attirare moltitudini? Sono le domande a cui la riflessione di Giuliano Zanchi offre una risposta lucida e persuasiva. Molto va ripensato delle figure che popolano la Chiesa: quella del laico, ancora in posizione subordinata rispetto al clero; quella della donna, marginale nei processi decisionali; quella del prete stesso, il cui profilo è diventato precario e incerto. Ma perché il vangelo possa parlare alla storia è necessaria anzitutto l'esistenza di una comunità. La testimonianza credente può darsi nel mondo solo grazie a una comunità di uomini e di donne che danno alla loro vita la forma del vangelo, solo attraverso il loro laborioso esercizio di quotidiana fraternità che si fa largo nei gesti di costruzione della città, della storia, della convivenza umana. Questa è la posta in gioco della presenza dei cristiani nel mondo. A questo essi servono.
Nelle omelie di Santa Marta, divenute ormai il luogo di un magistero umile e feriale, ma anche nell'Evangelii gaudium e nella Gaudete et exsultate, papa Francesco spesso ci mette in guardia dalla tentazione di essere oggi un po' "pelagiani" o meglio "neopelagiani". Cosa vuole dire il Papa con il richiamo a questa antica eresia? Pelagio, monaco cristiano vissuto tra il IV e il V secolo, riteneva l'uomo capace di meritare la salvezza con le sue sole forze, senza l'ausilio della grazia. Rapportata al vivere ecclesiale odierno, questa concezione dell'uomo e del suo rapporto con Dio potrebbe portare la Chiesa a confidare più nelle sue strutture che nel primato della grazia, a cui Francesco ha dato il nome di «misericordia». A questa riduzione del cristianesimo antica, ma sempre nuova, il Papa, come ben dimostra il presente volume, contrappone la centralità del compito «pastorale», con una Chiesa chiamata a favorire in tutti i modi possibili l'incontro fra Cristo e l'uomo e non semplicemente a «regolarlo» con delle norme.
Le avventure di un'immagine religiosa che sconfina nella pubblicità, nell'arte contemporanea, nel cinema e nei graffiti. Dopo accesi dibattiti, verso la fine del Settecento si afferma una particolare devozione al Sacro Cuore di Gesù. Accolta con vigilante perplessità dal rigore delle teologie e dai timori delle gerarchie, essa diviene in poco tempo l'emblema di un sentire cattolico alquanto ferito dall'avanzare della cultura illuministica e sempre più distante dall'intellettualismo teologico. La devozione si diffonde attraverso una fortunata pianificazione di immagini che diventano presto icone stesse di una religiosità affettiva e popolare. La rappresentazione del Sacro Cuore finisce così per identificare il cattolicesimo come tale, ma il tema che essa custodisce supera i confini religiosi entrando nell'immaginario di insospettabili perimetri espressivi, dalla comunicazione pubblicitaria all'arte contemporanea, dal cinema all'arte di strada. Ogni volta per difendere le ragioni del cuore in un mondo che senza cuore perde anche la ragione.
Che ci troviamo di fronte a una svolta epocale nella civiltà umana, tutti lo avvertiamo, più o meno lucidamente: come mai in passato, oggi l’individuo cerca di costruirsi da sé, insofferente a ogni limite, sia esso la tradizione o la natura. Una sorta di mutazione antropologica sta cambiando le strutture profonde dell’umano, esito sempre più appariscente della postmodernità. Giuliano Zanchi ne illumina il meccanismo coerente, implacabile e potente nei suoi diversi risvolti, da quello scientifico a quello economico, politico ed estetico. Di fronte a questo sogno estremo di emancipazione, la coscienza cristiana si sente profondamente turbata. Essa oscilla tra un rifiuto arroccato sulle vestigia di un passato glorioso e una resa spesso inconsapevole allo spirito del tempo. La grande bussola del Concilio Vaticano II, che negli anni Sessanta aveva restituito slancio e idealità a un cattolicesimo alle prese con le sfide moderne, sembra aver perso le sue capacità magnetiche. Eppure il credente sa di non poter restare umano separandosi dalla storia. Semplicemente perché il Dio di Gesù Cristo ad essa si è legato per sempre. I discepoli pertanto accompagneranno queste «prove tecniche di manutenzione umana» con una cordialità non acritica, mettendo in gioco la propria antica sapienza a proposito dell’umano: «La presenza cristiana», ci ricorda Zanchi, «è chiamata, proprio mentre la civiltà sembra impegnata in un lungo esodo verso mete ancora incerte, a riaffermare la sua irrinunciabile affezione per una forma comunitaria della vita evangelica impiantata nel cuore dell’esistenza comune, umilmente a fianco della costruzione umana collettiva, decisa a scegliere sempre per propria dimora il luogo dove gli umani hanno le loro case, la loro vita, le loro speranze».
Giuliano Zanchi, licenziato in Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, è Segretario generale della Fondazione «Adriano Bernareggi» di Bergamo. Si occupa di temi al confine fra l’estetica e la teologia. Ha pubblicato Lo spirito e le cose (Vita e Pensiero, 2003); La forma della chiesa (2005); Nella luce dell’essere: conversazioni sul caso Van Gogh (2005), Il destino della bellezza (2008), Salomone e le formiche. La legge di tutti i giorni (Vita e Pensiero, 2010), Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero, 2011).