"Migrazioni", epos possente dove si mescolano i destini di alcuni singoli e quelli di un intero popolo - i serbi che nel Settecento abitano la terra della Vojvodina, al confine tra l'Impero austroungarico e quello ottomano -, è dominato da un senso di smarrimento e di sradicamento, dalla nostalgia di ogni patria perduta e dal sogno di ogni terra promessa, nonché dalla percezione di un fluire perenne, cieco e rabbioso, di correnti sotterranee che bagnano le radici della Storia.
Ha scritto Gianfranco Contini, uno dei massimi critici del Novecento: "Almeno l'"Adalgisa", le "Novelle" o "Accoppiamenti giudiziosi" e il "Pasticciaio" appartengono al canone delle letture indispensabili per un italiano aggiornato all'arte del suo tempo". Che "Accoppiamenti giudiziosi" figuri in questo canone, a scapito persine della "Cognizione del dolore", non stupisce: i diciannove, temerari 'racconti' radunati da Gadda nel 1963 attraversano l'intera sua attività di narratore, e ne offrono la più autentica essenza. Tanto più che Gadda non ha esitato a includervi frammenti di romanzi, quasi a segnalare che questo libro è anche una insostituibile autoantologia. Dove spiccano i frutti urticanti dei suoi furori contro la "città della saggezza moraleggiante ... e stentatamente grammaticante " - fiammate di odio che gli facevano dire: "Vorrei essere il Robespierre della borghesia milanese: ma non ne vale la pena". La satira, di irresistibile comicità, divampa come un rogo, riducendo in cenere moralismo benpensante, logica di casta, incrollabili certezze e virtù, e mettendo in fuga dame imperiose e impettite contro i "calamitosi tempi", professori stolidi e reboanti, apoplettici commendatori "mecenatoidi" serissimi e operosi professionisti che nella famiglia e nel lavoro trovano le "soddisfazioni" più alte, industriali ossessionati dalla salvaguardia della loro "propria privata privatissima personale proprietà".
In questa ultima raccolta di Auden, scritta nel 1972 e uscita postuma due anni più tardi, il poeta creatore della poesia degli anni Trenta, passato per la Germania agli albori del nazismo, la Spagna della guerra civile e la Cina in fermento, quasi fuggito oltreoceano alla vigilia della seconda guerra mondiale, diventato cittadino americano e convertitosi al cristianesimo, pendolare poi per tante stagioni fra Ischia e gli Stati Uniti, residente a lungo in Austria -, torna a quella Oxford da dove era partito. E qui il vecchio Narciso, "finalmente libero dalla brama di altri corpi", con le sue carni ormai "quasi femminili", ringrazia anzitutto la Nebbia - "Sorella immacolata" dello Smog (conosciuto fin troppo bene a New York), "acerrima nemica della fretta" -, che dal suo cottage del Christ Church College ha avuto modo di riscoprire, apprezzandone di nuovo l'ovattata bellezza; scrive albate e notturni per gli amici, un discorso agli animali e un'ode al diencefalo, usa con disinvoltura sovrana metri, rime, misure, strofe e schemi d'ogni forma e sorta, parole desuete e tecnicismi, toni, registri e accenti i più disparati. Poi torna a ringraziare i poeti suoi maestri nell'arco di una vita: Hardy, Frost, Yeats, Graves, Brecht, per terminare con Grazio e Goethe.
A una cena ufficiale, circostanza che generalmente non si presta a un disinvolto scambio di idee, la regina d'Inghilterra chiede al presidente francese se ha mai letto Jean Genet. Ora, se il personaggio pubblico noto per avere emesso, nella sua carriera, il minor numero di parole arrischia una domanda del genere, qualcosa deve essere successo. Qualcosa in effetti è successo, qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili: per un puro accidente, la sovrana ha scoperto la lettura di quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno e cerca di trasmettere il virus a chiunque incontri sul suo cammino. Con quali effetti sul suo entourage, sui suoi sudditi, sui servizi di security e soprattutto sui suoi lettori lo scoprirà solo chi arriverà all'ultima pagina, anzi all'ultima riga.
Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi "War in Abyssinia". Buon titolo: asciutto, fattuale, esotico. Dell'Abissinia nel 1935 nessuno sapeva nulla, anche se il paese era l'unico stato africano cooptato nella Lega delle Nazioni e il suo giovane despota era un pupillo dei media - Uomo dell'Anno per "Time". Ma adesso di quell'immensa piantagione di caffè stava per impadronirsi l'ultima arrivata nel circolo delle potenze coloniali: sì, la Grande Proletaria di Mussolini si preparava a invadere, e per ciò stesso a scatenare, nei timori di molte cancellerie, un conflitto globale. Ottima ragione per spedire sul posto un esercito di inviati - pericoloso quanto e più di quelli in armi, però, specie se forzato all'inazione. I centocinquanta embedded al seguito dell'esercito italiano erano infatti costretti a passare le veline dello Stato Maggiore, o riferire voci incontrollabili (i duemila morti nel bombardamento d'Adua, che a villaggio raggiunto si sarebbero rivelati sei). Quanto a quelli aggregati agli etiopi, se ne occupava un irreprensibile addetto stampa indigeno, che fin dal primo giorno aveva promesso notizie di due soli tipi: false, o tendenziose. Dopo qualche settimana gli inviati erano accampati in pianta stabile ai tavolini da bridge. Tutti, tranne il corrispondente dello "Evening Standard", Evelyn Waugh. Povero Waugh, mette a segno addirittura uno scoop, e ne è talmente geloso da scrivere il pezzo in latino, certo che i colleghi non lo mastichino. Così in effetti è...
"È curioso, ma il problema e la nozione dell'Autorità sono stati molto poco studiati" afferma Kojève in apertura di questo libro - scritto nel 1942, ma pubblicato postumo soltanto nel 2004 -, e aggiunge: "raramente l'essenza di questo fenomeno ha attirato l'attenzione. Eppure, in tutta evidenza, è impossibile trattare del potere politico e della struttura stessa dello Stato senza sapere che cosa è l'Autorità in quanto tale. Uno studio della nozione di Autorità, sebbene provvisorio, è quindi indispensabile". E mentre "La nozione di Autorità" giaceva nel chiuso di un archivio, solo in parte la riflessione filosofica è riuscita a colmare la lacuna additata da Kojève. Lo riconosceva esplicitamente Hannah Arendt, che dopo aver constatato "un crollo più o meno generale, più o meno drammatico, di tutte le autorità tradizionali" concludeva: "non siamo più in grado di sapere che cosa è effettivamente l'autorità", precisando che "la risposta a tale questione non si può assolutamente trovare in una definizione della natura e dell'essenza dell'autorità in generale". In realtà la risposta che la Arendt attendeva era già in queste pagine, dove Kojève, muovendo da un'analisi fenomenologica, riconosce quattro tipi "semplici, puri o elementari" di Autorità, che si rispecchiano in quattro filosofie: l'autorità del Padre (la scolastica), del Signore (Hegel), del Capo (Aristotele) e del Giudice (Platone).
In una piovosissima notte di marzo, all'angolo tra rue Popincourt e rue du Chemin-Vert, viene ucciso un giovane di ventun anni. A Maigret, che si trova da quelle parti per caso, tocca l'ingrato compito di avvertire i genitori. Ed è così che, grondante e stropicciato, mette piede in quello che più tardi, parlando con la moglie, definirà "uno degli appartamenti più lussuosi che abbia mai visto": alle pareti ci sono quadri di Picasso, di Renoir, di Marie Laurencin, e l'arredamento, tutto nei toni dell'azzurro chiaro e del rosa, è di una raffinatezza squisita. Ma perché Antoine, un ragazzo "fin troppo tranquillo e riservato", come dice suo padre (proprietario di un famoso marchio di prodotti di bellezza), è stato massacrato con sette coltellate? E se fosse causa della sua stravagante passione - quella di andarsene in giro per le strade e i caffè di Parigi armato di un registratore a "rubare le voci"? In effetti, senza volerlo, il ragazzo aveva scoperto un traffico di opere d'arte trafugate, e i sospetti cadono dunque sui componenti della banda. Eppure Maigret non è affatto convinto che sia quella la pista da seguire; e come al solito ha ragione lui. Giacché, dopo l'arresto dei ladri, un importante quotidiano nazionale comincia a ricevere lettere da un anonimo che dichiara di essere lui l'assassino. E a Maigret arriva una telefonata che non lo stupisce poi tanto... Il drammatico faccia a faccia che chiuderà il caso non avrà luogo per una volta, nell'ufficio del commissario, bensì nel salotto.
Hemingway era "un pezzo di cielo, e una fitta di sole" scriveva Anna Maria Ortese nel luglio del 1961 commentando, commossa, l'improvvisa scomparsa di colui che le sembrava appartenere ad anni "non ancora macchiati da carneficine o tumefatti in ghiacci spaventosi" e a una generazione di padri-leoni dalla "santità animale", estranei a una intelligenza "che oggi ha scarnificato l'uomo": con le sue opere, infatti, Hemingway proclamava l'esistenza del Tutto di cui l'uomo è parte, e attraverso i suoi occhi ragionava tranquilla e maestosa la Natura. Non v'è dubbio: chi cercasse in questi scritti che coprono oltre cinquantanni di attività giornalistica (dal 1939 al 1994) accorte recensioni, sagaci squarci di storia letteraria, dotte e politiche riflessioni sul romanzo sarebbe del tutto fuori strada. Il metodo di lettura di una uncommon reader come la Ortese ha a che vedere anzitutto con quella "doppia vista" di cui andava dolorosamente fiera e che, quando discorre di Leopardi o di Anna Frank, di Cechov o della Morante, di Saffo o di Thomas Mann, le consente di mettere subito a fuoco, con temeraria sicurezza, la loro profonda necessità in rapporto al compito della vera letteratura: che dev'essere, sempre, "un'autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo". Compito radicale, nobile, impervio - incidere sull'ordine delle cose -, al quale corrisponde un linguaggio lontano anni luce dalla critica letteraria.
Due storie narrate a capitoli alterni e che mai s'intersecano: quella dei due amanti che fuggono dalla società per chiudersi nel loro rapporto esclusivo e che nel tentativo d'interrompere una gravidanza finiscono con l'autodistruggersi; e quella del detenuto che durante la grande inondazione del Mississippi viene mandato in cerca di una partoriente aggrappata a un albero semisommerso, la trova, fa nascere il bambino, porta entrambi in salvo e poi, invece di darsi alla fuga, rientra nella monastica società del penitenziario. Estraneo a qualsiasi genere conosciuto, Le "Palme selvagge" non ha mai cessato di suscitare interrogativi. Si tratta di due racconti autonomi, intercalati per una qualche audace trovata? Di due racconti sotterraneamente legati? O di un romanzo, ancorché anomalo? Interrogativi ai quali ha fornito una risposta definitiva Kundera: "La "Sonata" opera 111 [di Beethoven] mi fa pensare a "Palme selvagge" di Faulkner, in cui si alternano un racconto d' amore e la storia di un evaso, due soggetti che non hanno nulla in comune, non un personaggio, e neanche una qualunque percettibile affinità di motivi o di temi: una composizione che non può servire da modello a nessun altro romanziere, che può esistere una volta e basta, che è arbitraria, non raccomandabile, ingiustificabile - ed è ingiustificabile perché dietro di essa si avverte un "es muß sein" che rende superflua ogni giustificazione".
Storia di una passione che si tinge di follia, "L'Incantatore" può essere considerato, come Nabokov stesso ha scritto, la "prima pulsazione" di "Lolita". Qui lo sfondo su cui si muovono i tre personaggi - un quarantenne vizioso, un'innocente ragazzina di dodici anni e la sua patetica madre malata - è la Francia di fine anni Trenta, da Parigi alla Costa Azzurra, meta finale dell'affannoso viaggio del protagonista con la sua piccola vittima. Protagonista che appare, attraverso il prisma dell'ironia nabokoviana, sotto luci contrastanti: da un lato essere perverso che osa l'impossibile per soddisfare gli istinti, dall'altro uomo che nei rari momenti di lucidità vuole fuggire da se stesso e, disgustato, cerca di riscattarsi. Nabokov alterna alla piana narrazione dei fatti metafore abbaglianti, incursioni in un mondo di fantasie fiabesche, implacabili analisi interiori, distorsioni visive e percettive che trasmettono al lettore i turbamenti e le oscillazioni psichiche del suo antieroe. Ma a scandire il ritmo del romanzo sono soprattutto l'incalzare della suspense e il gioco degli imprevisti disseminati dal destino sul percorso tortuoso del protagonista, intento a ordire la sua trama mentre corre verso la rovina.
Attratto per un'intera vita dal teatro, come dimostrano i suoi "Ritratti di scrittori", Walser nutrì una passione altrettanto incoercibile per le arti figurative, anche in virtù dell'influsso esercitato dal fratello Karl, artista di rara finezza. Ma i quadri davanti ai quali si sofferma in queste pagine sono spesso un pretesto: per parlare di sé e dei ricordi di gioventù, per costruire catene di associazioni - ispirate, magari, da una mostra di antichi maestri fiamminghi. Certi dipinti (la Venere di Tiziano, l'Icaro di Brueghel il Vecchio, Il figliol prodigo di Rembrandt) gli suggeriscono un dialogo scenico o un sonetto, un autoritratto, un nudo, un soggetto sacro suscitano improvvise illuminazioni che si condensano in poche righe fulminanti. Può anche capitare che un Fragonard riveli d'improvviso inaspettati legami con le "Confessioni" di Rousseau, o che le figure di un quadro prendano la parola e raccontino storie irresistibili. Ironia, poesia, grazia visionaria ci introducono in mondi paralleli, dischiusi all'occhio del poeta (e al nostro) da un semplice colore o da un dettaglio all'apparenza secondario. Con le sue ecfrasi divaganti, tra un affondo estetico e un impeto affabulatorio, un'apostrofe all'Olympia di Manet e un'interrogazione (mai retorica) sull'uomo e il suo destino, Walser sa tuttavia offrirci anche profonde riflessioni sull'essenza dell'arte, nel costante invito a guardare oltre l'immagine: giacché "orbi in certa misura lo siamo tutti, tutti, benché dotati di occhi".
Chi opera in campo biomedico conosce bene la sigla HeLa, che denota una linea cellulare di vitale importanza nelle ricerche sul cancro e su molte altre malattie: cellule speciali, tanto resistenti da essere praticamente immortali, vendute e comprate da decenni nei laboratori di tutto il mondo. Ma quelle quattro lettere racchiudono anche una storia perturbante, emblematica - e soprattutto una persona in carne e ossa. Henrietta Lacks lavorava nei campi di tabacco della Virginia, così come i suoi antenati schiavi. Quando muore per un tumore, nel 1951, i medici, senza preoccuparsi di chiedere alcun consenso, prelevano un campione dei suoi tessuti e si accorgono ben presto di un fenomeno sbalorditivo: le cellule tumorali continuano a crescere fuori dal corpo, in laboratorio. Da qui alla commercializzazione il passo è breve, ma passeranno vent'anni prima che i familiari scoprano una verità non meno incredibile che traumatizzante: Henrietta è 'immortale', e dalle sue cellule si è sviluppata un'industria miliardaria. Rebecca Skloot ha deciso di raccontare questa storia, e superando diffidenze e ostilità è riuscita a entrare in contatto con i Lacks guadagnandosi l'amicizia della figlia di Henrietta, Deborah. È nato così un libro che ci conduce da un reparto riservato ai neri del Johns Hopkins Hospital agli abbacinanti laboratori dove i congelatori custodiscono le cellule HeLa, dalle baracche di Clover, villaggio popolato di schiavi e guaritori, alla Baltimora di oggi.