Il tema è universale. Forse non c’è tema più universale di questo: che cosa significa per noi umani nascere.
«Il primo e forse il più radicale fallimento della nostra cultura è il fatto di prendere avvio dall'essere umano in quanto tale. Ora, questo nostro essere non corrisponde a un essere vivente, ma a un'idea o a un'entità costruita»
Non ci sviluppiamo dalle radici come una pianta, e non siamo neppure autosufficienti come Dio. Così, siamo gli unici viventi che mancano di un’origine, e ne vanno sempre alla ricerca. Privi di un «essere» originariamente identificabile, dobbiamo assumerci la responsabilità della nostra esistenza e del nostro destino. Come? «In primo luogo, coltivando il nostro respiro, una risorsa che troppo passivamente abbiamo attribuito a un Dio estraneo alla nostra esistenza terrena, sebbene il respiro sia ciò che ci permette non solo di vivere autonomamente, ma anche di trascendere la mera sopravvivenza, di superare il livello della mera vitalità, così da essere in grado di portare a compimento un’esistenza umana. Incaricarci di incarnare la nostra appartenenza sessuata è il secondo elemento che ci rende capaci di adempiere la nostra esistenza naturale, pur trascendendola». La sessuazione compensa l’assenza di radici attraverso la spinta all’unione tra due esseri: «Dove prima non c’era nulla tra loro, se non l’aria, a partire dalla loro attrazione e dalla loro capacità di assumere il negativo della loro differenza nasce il germe di un nuovo essere umano e di un mondo in cui possiamo davvero dimorare». La potenza di pensiero di Luce Irigaray si muove con «con passi di colomba» – direbbe Nietzsche – e vince ogni scetticismo circa l’arditezza di un compito di trasformazione che riparta dall’istanza incondizionata della vita in sé, e non dagli «assoluti sovrasensibili che troppo spesso sono il risultato della nostra incapacità di vivere».
La storia ha un andamento tortuoso, a volte incomprensibile. Eppure alcuni intravedono in quel groviglio di eventi una sensatezza, addirittura un vettore unificante. Ritengono che nella storia agisca una razionalità potente e che il pensiero sia chiamato a comprenderla attraverso una tessitura concettuale priva di smagliature. Della storia sarebbe dunque possibile una scienza. Tra coloro che lo sostengono c'è chi individua nello svolgersi degli eventi un principio immanente, e chi invece lo riferisce alla trascendenza di Dio. Prospettiva filosofica la prima, teologica la seconda. Spesso però sono meno distanti di quanto ci si immagini, anzi attingono l'una all'altra. Lo dimostra il filosofo e teologo Gianluigi Pasquale, in un saggio stringente che si apre con un quesito radicale: esiste nella storia la ragione che io mi possa salvare? La sua argomentazione fa perno sull'accostamento di due figure centrali, Hegel, il teorico dell'assoluto inteso come processo dialettico e storico, e un suo grande lettore di oggi, il teologo protestante Wolfhart Pannenberg. Sia per la dialettica hegeliana sia per il pensiero cristologico di Pannenberg la storia non si dispiega dal passato verso il futuro, piuttosto dal futuro corre incontro al passato, così che la verità nella storia è ricostruibile solo retrospettivamente, nella totalità dell'accadere. Ed è proprio il primato del futuro, secondo Pasquale, a costituire il fondamento su cui poggiano insieme la logica interna alla storia è la speranza di salvezza.