Parigi, Quartiere Latino. Nei pressi dell'Odèon c'era un tempo Le Condé, un piccolo caffè dove ogni sera erano soliti ritrovarsi per caso, per noia o per abitudine, giovani studenti, aspiranti scrittori e misteriosi avventori accomunati dal sospetto di un passato indicibile o dallo stesso sghembo destino. Ogni giorno uno di loro annotava su un quaderno i nomi e i soprannomi di tutti quelli che passavano di li, scrivendo a fianco anche la data, l'ora e il tempo che ciascuno restava nel locale. Le Condé è una calamita che attrae tutti quelli che passano nelle sue vicinanze. Al centro di tutto c'è una ragazza misteriosa, chiamata Louki dagli altri avventori del locale. Louki è una di quelle donne che non appena entrano in una stanza e si siedono in un angolo catturano subito lo sguardo e l'attenzione di tutti. Per quattro volte si indaga la sua vita e quattro sono le voci che raccontano la sua storia. Alcuni degli uomini che parlano di lei semplicemente la cercano, altri la amano: per tutti la giovane incarna una stagione della vita e un desiderio irraggiungibile. Louki, come quelli che la affiancano nel suo vagabondare in una Parigi ipnotica ed enigmatica, è uno straordinario personaggio senza radici che vive momento per momento, inventandosi diverse identità, rinascendo continuamente e fuggendo (fino alle più estreme conseguenze) per inseguire un presente perpetuo o, meglio, un Eterno Ritorno.
Nella folla dell'ora di punta, in una stazione della metropolitana parigina, una giovane donna crede di riconoscere la madre, che non vede da quando era piccola. Inizia a seguirla, attratta irresistibilmente dal suo cappotto giallo. Si apre così una delle indagini più incerte e commoventi che sia mai stata narrata. È la storia di un abbandono, della ricerca malinconica di un "paese natale" a cui far ritorno, di una solitudine che nessuna amicizia riesce a spezzare. La bambina che aveva recitato al fianco della madre, la piccola attrice cui era stato dato il nome d'arte di Bijou, è diventata adulta, apparentemente libera di vivere la propria vita.
"Nord" è l'ultimo romanzo pubblicato in vita da Céline (nel 1960). È il secondo tassello della "trilogia" tedesca, che rievocava in maniera fantastica, orrifica e comica le peregrinazioni di Céline, della moglie Lili e del gatto Bebert per la Germania in rovina sotto i bombardamenti alleati tra il 1944 e il 1945. Dei tre libri "Nord" è quello che racconta gli episodi iniziali dell'odissea céliniana ed è quello in cui le avventure individuali dei protagonisti spiccano maggiormente nel caos collettivo che li circonda e li inghiotte. Spiccano anche le figure degli altri collaborazionisti francesi profughi in Germania: un'umanità infernale e grottesca attanagliata dalla fame, che si spia, che odia. Di fronte a loro i tedeschi, il loro disprezzo per questi alleati straccioni, il loro gusto di uccidere per un nonnulla. Il tutto in una prosa egocentrica e ossessiva, specchio mirabile del suo autore. Prefazione di Massimo Raffaeli.
Siamo a Lille (e dintorni), all'inizio degli anni Novanta. Pierrot, un giovane ambulante che vende ortaggi nei mercati della zona, riceve in affidamento Marcus, un bambino di circa sette anni. Marcus è il figlio di Hélène, una giovane e inquieta tossicodipendente che si è suicidata gettandosi da un ponte dopo aver lasciato una lettera a Pierrot. Dopo la morte dell'amica, è Fabienne, anche lei del gruppo, anche lei tossica, a portare Marcus da Pierrot prima di entrare in clinica per disintossicarsi. Marcus si trova così a vivere a casa di Pierrot, lo chiama padrino, e quasi subito nasce tra i due una vicinanza che diventa sempre più forte. A creare questo legame contribuisce l'intera comunità. Naturalmente il ragazzino deve affrontare anche le prime difficoltà: la scuola, le differenze sociali, le scazzottate con i compagni, i pantaloni strappati e il cuore ferito. Ma insieme sperimenta anche il calore delle cene in una famiglia rumorosa e allegra, i giochi con i bambini della comunità allargata e le festività trascorse in compagnia. Tutto sembra andare per il meglio, quando però, colpo di scena, la narrazione si sposta in un luogo chiuso, colmo di sofferenze e sopraffazioni. Pierrot è in carcere e un nuovo mistero aleggia sulla vita del quartiere, un mistero che la sua variopinta, infaticabile e coraggiosa comunità saprà, ancora una volta, affrontare.
Ha centosettant'anni, ma non perde un colpo. Pubblicato a puntate fra l'agosto 1844 e il gennaio 1846 sul "Journal des Débats", mentre Dumas lo stava ancora scrivendo (con l'aiuto di un ghost-writer, Auguste Maquet), senza sapere nemmeno lui come l'avrebbe concluso, e intanto metteva in cantiere altri due o tre romanzi, "Il conte di Montecristo" ha lasciato, e lascia tuttora, col fiato sospeso folle di lettori di ogni estrazione sociale e di ogni paese. Nessun romanzo, forse, ha avuto tante edizioni (settantasei solo in Italia, già dal 1846), tanti adattamenti cinematografici (il primo nel 1922) e televisivi; è diventato un musical, un fumetto con Paperino, è stato immortalato sulle figurine Liebig e condensato nelle strisce della Magnesia San Pellegrino; oggi ispira la serie americana Revenge. Tutti quindi possono dire di conoscerne almeno a grandi linee la trama e il protagonista, anche chi non lo ha mai letto. Ma non c'è trasposizione, necessariamente lacunosa, data la mole del romanzo, che valga il godimento di aprirlo e rimanere intrappolati senza scampo nel suo inesorabile ingranaggio narrativo, che funziona sempre anche se si sa già come andrà a finire la vicenda. I suoi stessi difetti, le ripetizioni, le digressioni, le zeppe, sono funzionali al piacere della lettura.
Dopo un week-end trascorso per dovere a casa dei genitori, Cecile sta rientrando a casa. È mattina prestissimo, e lei prova un senso di leggerezza. Ma quando il treno sta per partire qualcuno le si siede accanto. Qualcuno con un'aria familiare. È invecchiato, eppure non ci sono dubbi che sia Philippe, con cui Cecile aveva avuto una storia ai tempi dell'università... L'incontro casuale, sul treno per Parigi delle 6.41, tra un uomo e una donna che molti anni prima si sono amati e odiati. L'imbarazzo e gli sguardi distolti. Poi il silenzio freddo del viaggio. Ci sarà spazio, prima dell'arrivo, per un cenno di riconoscimento, di scuse o magari per un caffè?
Ajatashatru Lavash Patel, un indiano di professione fachiro che vive di espedienti e trucchi da quattro soldi, si sveglia un mattino e decide che è giunto il momento di comprare un nuovo letto di chiodi. Apre il giornale e trova una promozione davvero vantaggiosa: un letto di chiodi (ben 15000 per l'esattezza) in offerta a 99,99 euro. Un prezzo incredibilmente conveniente, specie se si ha l'intenzione di pagarlo con una banconota falsa. Il mobile è firmato Ikea e si trova soltanto nei punti vendita di Parigi. Ajatashatru si agghinda per l'occasione indossando uno sgargiante abito di seta lucida (con cravatta), mette il suo turbante migliore e parte con destinazione Parigi Charles de Gaulle. All'aeroporto sale su un taxi guidato dallo scaltro gitano Gustave che tenta di truffarlo, per restare però a sua volta truffato, e arriva all'Ikea. Incantato dalla sapienza espositiva del megastore svedese, e dalla magia infinita delle sue porte scorrevoli, Ajatashatru decide di prendersela comoda e trascorrere la notte a curiosare, ma l'arrivo di una squadra di commessi lo costringe a nascondersi dentro un armadio. Peccato che al mattino proprio quell'armadio debba essere imballato e spedito in Inghilterra. Per il candido fachiro è l'inizio di un'avventura fatta di incontri surreali - dalla bellissima attrice Sophie Marciò al saggio clandestino Wiraj -, inseguimenti, fughe e inimmaginabili peripezie che lo porteranno in giro per l'Europa e il Nord Africa.
Due testi e molti misteri. Il "Romanzo della Rosa" è costituito da due parti scritte da autori diversi a distanza di una quarantina di anni. Due parti molto diverse e la seconda sembra essere la palinodia della prima. I dubbi sull'identità degli autori, su eventuali interpolazioni di Jean de Meun nella prima parte, sul senso del poema come opera complessiva sono ripercorsi nell'introduzione di Mariantonia Liborio. Quello che sembra sicuro è che il "collage" dei due testi mostra come in quel mezzo secolo di iato fra la prima e la seconda metà del XIII secolo fossero profondamente cambiati i modelli culturali: dagli ideali e dalle forme letterarie cortesi del Roman di Guillaume de Lorris all'approccio filosofico-enciclopedico di Jean de Meun. E un passaggio che si verifica, in forme diverse, anche nella letteratura del sì fra i poeti siciliani e Dante. È dunque importante rileggere il "Romanzo della Rosa" nella sua diversificata completezza. Al di là dei problemi filologici e narratologici, il poema è davvero uno dei fondamenti della cultura europea: una rilettura dell'ars amandi ovidiana che diventa una fenomenologia della conquista amorosa e del desiderio; una perfetta compenetrazione di allegoria e narrazione che anticipa la Commedia dantesca.
"Esercizi di stile" è un esilarante testo di retorica applicata, un'architettura combinatoria, un avvincente gioco enigmistico. Tutto vero, però è anche un manifesto letterario (antisurrealista), è un tracciato di frammenti autobiografici, è la trascrizione di una serie di sogni realmente effettuati da Queneau. E perfino un testo politico, nonché un'autoparodia. Questo è quanto emerge dalle riflessioni che Stefano Bartezzaghi ha dedicato a questo libro-capolavoro. E la sua postfazione al volume diventa complementare alla classica introduzione di Umberto Eco, del quale si conserva anche la traduzione. In appendice, presentati per la prima volta in italiano, alcuni esercizi lasciati cadere nell'edizione definitiva, un indice preparatorio e l'introduzione, anch'essa inedita in Italia, scritta da Queneau per un'edizione del 1963.
Giudicando la propria vita di uomo e l'opera politica, Adriano non ignora che Roma finirà un giorno per tramontare; e tuttavia il suo senso dell'umano, eredità che gli proviene dai Greci, lo sprona a pensare e servire sino alla fine. "Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo" afferma, personaggio che porta su di sé i problemi degli uomini di ogni tempo, alla ricerca di un accordo tra la felicità e il metodo, fra l'intelligenza e la volontà. I "Taccuini di appunti" dell'autrice (annotazioni di studio, lampi di autobiografia, ricordi, vicissitudini della scrittura) perfezionano la conoscenza di un'opera che fu pensata, composta, smarrita, corretta per quasi un trentennio.
Durante un viaggio in Russia Carrère riprende contatto con le sue origini, con la lingua russa che ha accompagnato la sua infanzia e, soprattutto, inizia a indagare sul nonno materno, che dopo una vita difficile scomparve nell'autunno del 1944, probabilmente ucciso perché sospettato di collaborazionismo con i tedeschi. È il segreto di sua madre, il fantasma che tormenta la sua famiglia. Proprio per esorcizzarlo ha deciso di andare in una piccola cittadina della provincia russa, dove rimane per un lungo periodo, in attesa che accada qualcosa. E qualcosa accadde: un crimine atroce. La follia e l'orrore tornano a impossessarsi di lui e, allo stesso tempo, della sua vita amorosa. Scrive per Sophie una novella erotica ("Facciamo un gioco") che dovrebbe irrompere nella realtà di un amore improntato a fughe, tradimenti, riprese; ma la realtà manda a soqquadro i suoi piani, facendo a pezzi il suo amore.
Scritto tra la fine del 1829 e la prima metà del 1830, "Il rosso e il nero" è il secondo romanzo di Stendhal. L'autore ne corregge le bozze proprio durante le giornate della Rivoluzione di luglio, che liquida la Restaurazione e inaugura la monarchia borghese di Luigi Filippo. Di questo passaggio cruciale della storia francese Stendhal restituisce con crudele fedeltà non la cronaca (malgrado il sottotitolo del romanzo), ma lo spirito, muovendo dalla realtà della provincia per approdare a Parigi, dove da sempre si annodano e si sciolgono i destini politici della Francia. L'impietosa analisi storica non esaurisce tuttavia la complessità della vicenda e del suo protagonista. L'ostinata rivolta di Julien Sorel non è riducibile semplicemente all'acuto senso della propria inadeguatezza economica e sociale. La sua non è coscienza di classe, e "II rosso e il nero" non è il romanzo dell'ambizione e della scalata ai vertici della società: Stendhal non è Balzac. Julien Sorel affronta il mondo brandendo la propria inferiorità sociale come un'arma, ma il mondo creato dalla potenza del denaro lo disgusta, anche se tanto spesso deplora l'umile condizione in cui la sorte lo ha fatto nascere. Perciò rimpiange l'epoca napoleonica (di cui questo romanzo rafforza il mito, nato già all'indomani di Waterloo), convinto com'è che allora fosse possibile affermarsi soltanto grazie ai propri meriti. Edizione con nuova traduzione