I quattro amori che l'autore distingue nell'animo umano sono l'affetto, l'amicizia, l'eros, la carità. Ognuno di essi, preso singolarmente, è stato trattato piuttosto spesso: da san Bernardo a san Paolo, da Ovidio a Stendhal. Più difficile, invece, è trovare chi li abbia considerati insieme. Lewis l'ha fatto. Egli vede ciascuno dei "quattro amori" emergere nell'altro, ci mostra come uno possa anche trasformarsi nell'altro, ma non perde mai di vista la reale e necessaria differenziazione tra loro. L'autore delle "Cronache di Narnia" sa essere lucido e vigoroso nell'incidere queste fondamentali linee dell'animo umano e il risultato è un ritratto parlante dell'unico e profondo desiderio di felicità, in cui ciascuno sarà indotto a ritrovare familiari somiglianze.
Nel 1986, Wole Soyinka nel discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura prende le mosse da un'esperienza teatrale londinese per sviluppare un complesso e potente j'accuse contro il razzismo. Due anni dopo, in uno scritto sul teatro nelle culture tradizionali africane, egli afferma come tale arte sia divenuta una pratica di liberazione, un «modello di sopravvivenza» dell'uomo oppresso. Sospinto dall'urgenza dell'oggi, Soyinka prende nuovamente la parola per esortare ognuno di noi a difendere quel bene immateriale ma concreto che chiamiamo «libertà». "Smurare la libertà" è il compito più esaltante che l'umanità possa assumersi, e necessita sempre di una critica dell'intera storia dello sviluppo umano.
L'autore de "Le cronache di Narrnia" ci racconta un'altra storia fantastica, un viaggio allegorico il cui protagonista passa attraverso le varie esperienze della vita alla ricerca di qualcosa che appaghi un suo misterioso e incessante desiderio, che si rivela però insaziabile qualunque cosa gli venga concessa come soddisfazione. Il giovane protagonista trova qualche risposta ai suoi interrogativi nel lungo pellegrinaggio che deve intraprendere, la cui meta prende forma non alla fine del viaggio ma sulla via del ritorno. Draghi, giganti e nani, ombre e creature enigmatiche abitano questa favola moderna che ha il mordente di un'avventura e il respiro filosofico di una parabola sui grandi temi dell'esistenza umana.
"A viso scoperto" è una reinterpretazione del mito di Amore e Psiche. Se la fonte della storia è dichiaratamente l'allegoria antica, il racconto risulta molto differente. Ci troviamo in un clima lontano dalle grandi civiltà classiche, in un luogo rintracciabile forse in Turchia, forse vicino al Mar Rosso, in un'epoca situabile tra la morte di Socrate e la nascita di Cristo. Un monarca brutale e incompetente regna su un rozzo palazzo e ha tre figlie: Orual, la donna guerriero dall'orribile viso, Redival e Psiche. È un mondo in attesa, in transizione, dove un vecchio ordine spirituale sta morendo e uno nuovo sta per prendere il suo posto. È il mondo in cui si apre un intricata vicenda: avvenimenti politici e militari, una carestia, un sacrificio, amori, invidie, pentimenti. Abbondano sogni e visioni, vengono aperti trabocchetti, che trasportano verso archetipi situati nel profondo. In questo libro, che Lewis stesso considera la sua migliore opera narrativa, egli ha creato dei personaggi multidimensionali, misti di bene e di male in proporzioni sempre diverse, come dei reali esseri umani.
"È una notte piuttosto fredda per un miracolo". Chi pronuncia questa frase è il protagonista Malachia Murdoch, un vecchio benedettino scozzese che si è appena lanciato in una sfida temeraria contro un ministro della Chiesa riformata. Bruce Marshall è abile nel far emergere le pesanti contraddizioni di una società che si allontana, quasi senza rendersene conto, dai fondamenti di una mentalità cristiana, ma non risparmia neppure i lati angusti e cedevoli del mondo cattolico, in particolare del clero. Le sue narrazioni sono sempre giocate sul filo di un lungimirante equilibrio e di un divertito realismo, che risultano tanto più accattivanti quanto più le situazioni si fanno paradossali. È il caso del protagonista di questo romanzo. Trascinato in una discussione con il più "moderno" e avveduto reverendo Hamilton, Malachia abbandona la sua indole mite e, lanciata la sfida, avvenimenti e reazioni si susseguiranno con tagliente umorismo fino alla sera fatidica del miracolo annunciato, in cui l'eccezionale entrerà nella quotidianità di un'esistenza cristiana.
"Le lettere di Berlicche" hanno reso il nome di Lewis noto a milioni di lettori in tutto il mondo. Per un'ispirazione improvvisa, all'uscita di una chiesa, una domenica mattina d'estate, si configurò nella mente dell'autore qualcosa che, per dirla con le sue stesse parole, "potrebbe essere sia utile sia divertente... e consisterebbe in una serie di lettere che un vecchio diavolo in pensione invia ad un giovane diavolo che ha appena cominciato a lavorare sul suo primo 'paziente'. L'idea sarebbe quella di mostrare tutta la psicologia della tentazione dall'altro punto di vista". Il testo venne scritto velocemente, comparve a puntate su un periodico nel 1941 e l'anno seguente in forma di libro. Da quella lontana primavera le riedizioni non si contarono e Lewis stesso non riusciva a spiegarsi un tale favore del pubblico, se non per il fatto che le tentazioni descritte avevano un riscontro nella sua personale esperienza. In questo volume, le "Lettere" sono unite a ciò che Lewis ha voluto considerare una sorta di seguito: "Il brindisi di Berlicche".
Quando nel 1942 raggiunge il fronte di guerra, Solzenicyn ha la mente e il cuore pieni di progetti eroici e rivoluzionari, ma non immagina il vertiginoso itinerario che lo aspetta: ufficiale comandante di un'unità, condannato per attività antisovietica a 8 anni di lager e al "confino a vita", ammalatosi di cancro e infine riabilitato nel 1957. A parte la malattia, era stata questa la sorte anche di milioni di altri sovietici. Questo l'antefatto, senza il quale non si capisce l'improvvisa, clamorosa irruzione nella letteratura mondiale, con "Una giornata di Ivan Denisovic" e poi, via via, "Arcipelago Gulag" e i grandi romanzi, di un narratore di tale portata. Ma neanche si spiegherebbe la sua vigorosa ed efficace attività sociale e pubblicistica, espressa in saggi e interventi. Jaca Book ne ha seguito gli sviluppi fin dall'inizio, nel 1967, diffondendo nel mondo i documenti della battaglia per la libertà della letteratura. Presentando ora questi testi, per la prima volta tradotti dalle versioni definitive, della sua più fervida stagione pubblica, quella del "ritorno del respiro e della coscienza", Jaca Book integra l'ideale ritratto di un gigante della storia culturale e sociale del suo Paese. Un cahier di fotografie dall'Archivio della famiglia ne restituisce anche visivamente la straordinaria vicenda.
Negli anni tra il 1993 e il 1998, dopo i romanzi e i cicli narrativi che l'hanno reso famoso nel mondo, Solzenicyn torna ad affrontare la misura breve del racconto con esiti di indiscutibile intensità ed efficacia. Nel solco delle narrazioni sull'Uomo nuovo (Jaca Book 2013), i tre racconti e il romanzo breve contenuti in questo volume, ancora inediti in Italia, affrontano la guerra, non solo quella dei campi di battaglia del secondo conflitto mondiale ma anche quella per preservare la "casa dell'uomo", messa in pericolo da speculatori vecchi e nuovi. E, nella società postsovietica, la guerra del profitto, dello strapotere finanziario e lobbistico che sequestra e impoverisce una nazione già allo stremo.
Una lingua elegante, uno humor russo, la coscienza critica di una società sottoposta alla menzogna. I Pensieri improvvisi di Sinjavskij, a cavallo tra saggistica e opera letteraria, facili di lettura, ma di lenta assimilazione, sono pensieri dal profondo. Sono i grandi temi della vita e della morte, pensieri senza fine, profezia di future meditazioni.
Dopo l'esordio nel 1962 con "Una giornata di Ivan Denisovic" e altri racconti che l'avrebbero reso famoso nel mondo, il premio Nobel Aleksandr Solzenicyn si dedica a romanzi e cicli narrativi sempre più imponenti. Negli anni Novanta, tornato in Russia dopo la permanenza americana, Solzenicyn si dedica con estrema efficacia alla forma breve dei racconti. I protagonisti dei tre racconti sull'Uomo nuovo, inediti in italiano, ci riportano agli anni Venti del Novecento. Sono personaggi sul cui entusiasmo e dedizione dovrebbero edificarsi il Mondo nuovo e l'Uomo nuovo preconizzati dalla Dottrina e dalla Propaganda sovietica. Il primo racconto narra la vicenda del professore severo e dell'allievo negato per gli studi ma che ha fatto strada nel nuovo assetto politico-poliziesco. L'allievo che riuscirà a indurre il docente a venire meno al suo dovere educativo, fino a farsi delatore di colleghi e amici. Il secondo racconto riguarda due giovani donne e narra, per l'una come sia distruttiva la cieca violenza a cui si adatta per poter sopravvivere e ottenere vantaggi materiali; per l'altra, descrive l'eroismo e l'abnegazione di un'insegnante di lettere che cerca di trasmettere ai propri allievi contenuti morali ed eterni, nonostante i programmi scolastici sovietici: lei continuerà su questa strada pur sapendo di essere votata alla sconfitta. Il terzo racconto, infine, dipinge uno sconfitto senza speranza. È il ragazzo contadino, figlio di kulaki deportati...
Ngugi Wa Thiong'o, fra i più grandi scrittori africani viventi, dispiega in queste pagine il racconto della sua infanzia e prima adolescenza con disarmante semplicità e freschezza. Scrittore capace di esplosiva denuncia politica (Petali di sangue, Jaca Book, 1979) e di complesse tessiture polifoniche del mondo keniano post-indipendenza ("Un chicco di grano", Jaca Book, 1978, 1997), raccoglie qui le sue energie di narratore distillandole in un linguaggio immediato, che si fonde con il racconto di se stesso ragazzino, ma che progressivamente sempre più va amplificandosi nei grandi eventi storici in cui il protagonista si trova immerso. Prendendo le mosse dai più lontani ricordi del suo gruppo familiare, tutta l'esistenza raccolta nelle cinque capanne del padre e delle sue quattro mogli, la storia personale del bambino finisce per incontrarsi e scontrarsi con quella di un Kenya scosso dai fermenti indipendentisti e dalla dura repressione del governo britannico. Il fascino della parola pervade tutto il libro, presagio del destino del protagonista: dai racconti collettivi del paese, in cui la consistenza storica del fatto si perde nella pluralità delle voci che lo compongono, alle storie raccontate in famiglia "con il riflesso delle fiamme che danzava sui volti", dall'incontro con la parola scritta, grazie a un'inseparabile Vangelo prima e alla biblioteca di un insegnante poi, alla fallace linearità della propaganda coloniale che occupa ogni spazio pubblico...
Nel romanzo della sua gioventù, carico di atmosfere universitarie sullo sfondo di una Bucarest segnata dal ritmo delle stagioni, Mircea Eliade si racconta come un ragazzo guidato da un profondo e intransigente furore di conoscenza, spietato osservatore della comunità studentesca in cui è immerso e con cui pure interagisce attivamente. Non sappiamo quanto di questo carattere esasperato corrisponda alla personalità storica del giovane studioso, o ne sia la parossistica rappresentazione; Eliade scrive un romanzo, creazione letteraria volta vampirescamente a succhiare il sangue del reale. Ed egli è già scrittore a tutto tondo in queste pagine, che seguono la saga scolastica narrata ne "Il romanzo dell'adolescente miope" (Jaca Book, 1992), dotato di una qualità affabulatoria che doveva essergli propria anche nella comunicazione orale e già capace di mettere in scena gli sconfinati campi del sapere che andava sondando, trasformandoli in materia narrativa. Ciò sarebbe avvenuto in maniera insospettabile nella sua successiva produzione letteraria, segnata dal fantastico e dal misterioso senza che il registro realistico fosse mai del tutto abbandonato. Scritto da un Eliade ancora giovane nella sua Bucarest sul finire degli anni Venti, questo romanzo restituisce alla perfezione la tensione estrema che precede lo slancio verso la vita, l'irrequietudine di scelte ancora da fare, l'attesa prima del viaggio con cui infatti si chiude il libro.