La panchina è un luogo di sosta, un’utopia realizzata. È l’ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio. È il margine sopraelevato della realtà, il posto ideale per osservare quello che accade, la gente che si muove, che vive, l’autobus che passa, i piccioni, le nuvole sopra la testa.
Per molti, che a stare seduti su una panchina provano imbarazzo, è l’immagine della provvisorietà, della precarietà, forse del declino. Stare in panchina, nel lessico attuale, è il contrario dello scendere in campo. Eppure una buona panchina fa sentire al riparo chi vi siede e fa apparire il suo ozio come un’attività di qualità superiore, da intenditore – un po’ come quando al ristorante uno ordina un piatto molto semplice e il cuoco gli fa capire di considerarlo un buongustaio. Una panchina perfetta è come una piega del mondo, una zona franca, liberata o salvata, dove il semplice sedersi è già in sé una meditazione. Non è necessario che sia sullo Stelvio o sulla Promenade des Anglais o davanti allo skyline di Manhattan: è la panchina che definisce il centro dell’universo.
Le ragioni che hanno portato al fallimento del modello neoliberista. Il sentiero che la società civile e una nuova classe politica progressista dovranno intraprendere per ripensare il mondo secondo altri principi.
È il momento di ripensare il nostro mondo secondo un’altra logica. Anzi di realizzare quel mondo diverso che non abbia il Pil come misura del benessere del cittadino, che non rimetta nelle mani dei tecnocrati decisioni tutt’altro che tecniche, che smetta di considerare l’ambiente una quinta teatrale, che impedisca il formarsi di disuguaglianze insostenibili, che garantisca al massimo numero di persone le medesime opportunità. È quel mondo in cui si torna ad ascoltare la voce dei cittadini e dei lavoratori affinché scelgano e non subiscano il futuro.