Negli ultimi anni, oltre 500.000 soci delle banche popolari italiane hanno dimezzato il valore delle loro azioni in Borsa, e in Veneto hanno perso tutto. Inoltre 373.000 hanno oggi in mano titoli non quotati invendibili, che domani, forse, liquideranno a una frazione del prezzo d'acquisto. Qualche obbligazionista ha perfino dovuto ripianare le perdite degli istituti, senza contare il danno collaterale di decine di miliardi di depositi sottratti al territorio e al credito. Così, dopo oltre un secolo di glorioso sostegno alle economie dei campanili, quelle locali sono diventate «banche impopolari». Non solo per la crisi finanziaria e la recessione. Anche per le condotte di tanti banchieri, favorite da uno stile di governo obsoleto che, facendo valere in assemblea il principio «una testa, un voto», ha tenuto lontani i grandi investitori e generato potentati creditizi quanto mai opachi. Da qui sono partiti discutibili assalti al cielo per costruire colossi nazionali a suon di acquisizioni, prestiti facili e bilanci condiscendenti. E proprio la degenerazione del modello popolare ha contribuito a rendere l'azione di controllo di Banca d'Italia e Consob poco efficace. Le crisi bancarie di Arezzo, Montebelluna, Vicenza - dove lo Stato è dovuto intervenire per evitare il crac - e i casi di Bari, Bergamo, Marostica, Milano, Verona hanno condotto al crepuscolo il modello cooperativo. Nel 2015 il governo Renzi ha avuto buon gioco a imporre una riforma che si attendeva da decenni, spingendo le dieci maggiori popolari a trasformarsi in Spa, per favorirne l'accesso al mercato dei capitali e aumentare le aggregazioni in un sistema frammentato. Ma la riforma ha i tratti di un'incompiuta: criticata dal Consiglio di Stato, osteggiata o realizzata solo in parte dagli interessati, «impopolare» per i clienti-soci perché, nel peggiorato contesto finanziario globale, rischia di aggravare le malattie che intendeva curare. Nel loro viaggio dentro la crisi del sistema creditizio locale, Andrea Greco e Franco Vanni descrivono l'evoluzione, i retroscena, colpi di teatro e le ambizioni frustrate dei protagonisti del «romanzo bancario popolare» italiano, e raccontano come un perverso intreccio di potere e denaro, risparmio e speculazione, abbia finito per trasformare le popolari da volano di territori e borghesie operose in infernali macchine mangiasoldi.
Quando nel 1947, dopo due secoli di dominio britannico, l'India divenne indipendente, adottò subito un regime di democrazia parlamentare, che garantiva il pluralismo politico, la libertà di parola e di stampa, e la tutela dei diritti di ogni cittadino. Scomparse le terribili carestie dell'era coloniale, alla stagnazione economica subentrò un'impetuosa fase di crescita, accelerata negli ultimi decenni a ritmi tali da fare dell'India una delle prime potenze commerciali del mondo. Eppure, questi successi non hanno determinato una reale inclusione sociale delle fasce più svantaggiate della popolazione e non hanno migliorato le condizioni della stragrande maggioranza delle persone. Jean Drèze e Amartya Sen individuano la causa dei principali problemi dell'India nella mancanza di attenzione ai bisogni essenziali della gente, specialmente dei poveri e delle donne. Per affrontare queste enormi questioni, dicono i due autori, non serve che l'India abbandoni il suo impegno democratico, ma è necessario riconoscere l'importanza della relazione a doppio senso che esiste tra crescita e promozione delle potenzialità umane, tra sviluppo e progresso sociale, e sconfiggere l'illusione che il paese possa diventare una superpotenza economica con la scandalosa percentuale di bambini malnutriti che ancora la abitano e senza la piena assunzione di responsabilità del settore pubblico nel suo insieme.
Un mistero - o un paradosso - avvolge l'India contemporanea: il paese vanta un indiscusso primato per l'eccellente preparazione dei suoi tecnici e professionisti, i suoi «primi della classe» altamente competitivi sul mercato del lavoro occidentale, eppure il suo sistema scolastico esclude o trascura la gran parte di coloro che dovrebbe educare e che, non a caso, appartengono alle categorie sociali più svantaggiate, i poveri e le donne. Perché l'iniquità e la disuguaglianza non riguardano solo la scuola, ma tanti, troppi ambiti della vita sociale indiana, dall'assistenza sanitaria alla previdenza sociale, fino alle svariate e clamorose forme di discriminazione castale, tuttora ampiamente vigenti. Nei brevi saggi raccolti in queste pagine, Amartya Sen fissa alcune priorità nella serie di problemi che ostacolano il pieno sviluppo economico e democratico del suo paese e delinea condizioni e modi per farvi fronte: le questioni della giustizia sociale, della povertà, delle disuguaglianze, della parità tra i sessi, dell'istruzione, dei diritti d'espressione e del ruolo dei media sono, fra le tante, al centro della sua riflessione appassionata e partecipe, illuminata da una vasta competenza e sempre ispirata a principi di equilibrio e di apertura antidogmatica alla molteplicità delle prospettive. Ma non è solo all'India - ai preziosi contributi che la sua civiltà millenaria ha dato all'umanità nel passato e al suo presente difficile ma anche ricco di iniziative e di grandi potenzialità - che Sen dedica le sue attenzioni, poiché anche il mondo globale contemporaneo è afflitto, e su scala molto più larga, dalle medesime piaghe: ingiustizia, fame, dispotismo, guerra, esclusione, sfruttamento. Nell'invocare la piena realizzazione dei diritti di tutti nella prima e più grande democrazia dell'Asia, Sen ci mostra che «ciò che dovrebbe toglierci il sonno» non riguarda solo l'India, ma anche tutte le altre zone del pianeta, dove applicare un'idea concreta di giustizia, ovvero centrata sulla realizzazione più che sui princìpi o sulle istituzioni ideali, equivarrà sempre a promuovere la vita umana e a migliorare il mondo in cui viviamo. Una lezione che ci viene da uno dei maestri del pensiero contemporaneo e che è doveroso ascoltare.
Più di 23 miliardi di euro. È questa la cifra che lo Stato italiano ha perso in soli quattro anni, dal 2011 al 2015, sui contratti derivati sottoscritti dal Tesoro con grandi banche d'affari internazionali. Un fiume di denaro destinato purtroppo a ingrossarsi, visto che da qui al 2021 sono più che probabili ulteriori perdite per altri 24 miliardi di euro. Ma cosa sono i «derivati», di cui spesso si sente parlare e di cui altrettanto spesso si ignora l'esatto significato? Qual è la differenza fra uno swap e una swaption, fra un Cross currency swap e un Interest rate swap? Luca Piana scava nel mondo sommerso della finanza e ne rivela metodi e strumenti, tra cui appunto i derivati... Ricostruisce quando il governo centrale - ma anche Regioni, Province e perfino microscopici Comuni - hanno cominciato a usarli e per quali motivi. E spiega perché, a un certo punto, hanno avuto effetti così devastanti sulle casse pubbliche, oltre che su quelle delle amministrazioni locali. In particolare vengono ricostruiti i dettagli dei derivati sottoscritti dallo Stato italiano con una banca d'investimento americana, che hanno costretto il Tesoro a sborsare ben 3,1 miliardi di euro, versati per giunta proprio nel momento in cui l'allora premier Mario Monti stava fronteggiando il rischio di non poter più pagare le pensioni e gli stipendi dei dipendenti pubblici. Senza dimenticare che al Parlamento e all'opinione pubblica è sempre stata ed è tuttora negata la possibilità di prendere visione di questi contratti, rendendo di fatto impossibile una valutazione piena e trasparente della gravità della situazione. E, soprattutto, impedendo agli esperti di analizzare le ragioni che hanno spinto i dirigenti dello Stato italiano a imbarcarsi in operazioni dal profilo di rischio elevato, in alcuni casi addirittura speculativo. Ma se molti aspetti di questa complessa vicenda restano ancora oscuri, una cosa è chiara fin d'ora: nei conti pubblici del nostro Paese si è aperta un'immensa voragine, e la colpa è da addebitare - almeno in parte - ai derivati e, quindi, ai governi della Seconda Repubblica che li hanno sottoscritti.
Il mondo sembra impazzito. Stagnazione economica. Guerre civili e conflitti religiosi. Terrorismo. E, insieme, la spettacolare impotenza dell'Occidente a governare questi shock, o anche soltanto a proteggersi. Senza una guida, abbandonate dai loro leader sempre più miopi e irrilevanti, le opinioni pubbliche occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme. Alla paura si risponde con la fuga all'indietro, verso l'isolamento da tutto il male che viene da «là fuori» e il recupero di aleatorie identità nazionali. Globalizzazione e immigrazione sono i due fenomeni sotto accusa. Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, quando il pensiero politically correct ha recitato la sua devozione a tutto ciò che è sovranazionale, a tutto ciò che unisce al di là dei confini, dal libero scambio alla finanza globale. Il triste bilancio è quello di aver reso i figli più poveri dei genitori. Il tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l'enorme minaccia che stava maturando dentro il mondo islamico, l'ostilità ai nostri sistemi di valori. Quando abbiamo reso omaggio, sempre e ovunque, alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine, in sé, è vuoto: non indica il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una comunità capace di assorbire flussi d'immigrazione crescenti. E il tradimento è continuato praticando l'autocolpevolizzazione permanente, un riflesso pavloviano ereditato dall'epoca in cui «noi» eravamo l'ombelico del mondo: come se ancora oggi ogni male del nostro tempo fosse riconducibile all'Occidente, e quindi rimediabile facendo ammenda dei nostri errori.
Mundus furiosus: così si chiamava l'Europa nel Cinquecento, dopo la scoperta delle Americhe e l'avvento rivoluzionario degli sterminati "spazi atlantici". Di nuovo furiosus è il mondo di oggi: dalla crisi della finanza alle migrazioni di massa, dalle macchine digitali che distruggono il ceto medio rubandogli il lavoro alle nuove guerre "coloniali ", dalla rete che, nonostante le apparenze, erode le basi della democrazia e della gerarchia trasformandole in anarchia ai nuovi emergenti tribuni politici. Scritto da chi conosce bene gli interna corporis della finanza e della politica internazionale, questo libro spiega dall'interno anche le cause profonde della crisi dell'Europa, dominata dalla tirannia della stupidità. E la cui classe dirigente fa ciò che non dovrebbe fare, ad esempio il bail-in, e non fa invece ciò che dovrebbe e potrebbe fare, contro la crisi e le migrazioni. In queste pagine, Giulio Tremonti modula la sua riflessione "non ortodossa" sugli scenari presenti e futuri al ritmo alternato della "paura" e della "speranza", tra il mundus furiosus che da fuori e da dentro si sta sviluppando in Europa, e di qui in Italia, e il forse ancora possibile prevalere dell'ordine sul disordine e della ragione sulla follia.
Fin dai tempi di Adam Smith, il pensiero economico ha tessuto le lodi del libero mercato che, quasi fosse governato da una mano invisibile, riuscirebbe a conciliare la ricerca dell'interesse personale con il benessere dell'intera società, trasformando il vantaggio individuale in bene comune.
A questa concezione idilliaca lanciano una sfida radicale due premi Nobel dell'economia, George Akerlof e Robert Shiller, sostenendo che i mercati ci procurano tanti danni quanti benefici, e lungi dall'essere fondamentalmente benigni sono intrinsecamente disseminati di trappole e di esche cui finiamo per abboccare. Perché ogni volta che c'è un profitto da ricavare, i venditori non esiteranno a sfruttare le nostre debolezze psicologiche, la nostra superficialità e la nostra ignoranza per manipolarci e piazzarci la loro merce al prezzo più alto.
È più che legittimo, quindi, applicare all'intero ambito dell'economia quella nozione di «phishing» nata fin dagli albori di Internet per definire il raggiro online, la «pesca degli ingenui» cui carpire informazioni, dati e, in definitiva, denaro. Ma mentre quella compiuta in Rete è un'azione illegale, un reato perseguito per legge, in economia è da sempre una pratica comune e indiscussa: raggirare ed essere raggirati è parte integrante dei rapporti fra gli attori del mercato.
Per dimostrare la loro tesi, Akerlof e Shiller riportano una gran quantità di aneddoti ed episodi che rivelano come il phishing riguardi chiunque e ogni aspetto della nostra vita: spendiamo tutto il nostro denaro e poi ci preoccupiamo di come arrivare a fine mese; siamo, spesso senza saperlo, succubi della pubblicità; paghiamo troppo l'auto, la casa e le carte di credito; compriamo farmaci che si rivelano inefficaci, se non addirittura dannosi.
Nell'esplorare a fondo il ruolo della manipolazione e del raggiro nell'economia odierna e nel raccontare le storie delle persone che hanno cercato di opporsi al loro dilagare, i due autori forniscono un contributo importante alla spiegazione del paradosso per cui in un'epoca come la nostra, in cui la produzione di ricchezza ha raggiunto livelli senza precedenti, tanti continuano a condurre una vita di miseria e di silenziosa disperazione.
George A. Akerlof, economista e professore all'Università di Georgetown, ha vinto il premio Nobel per l'economia nel 2001.
Il 2015 verrà ricordato per uno shock a cui gli italiani non erano abituati né preparati. Sono fallite delle banche. Piccole, ma non trascurabili. La protezione del risparmio è stata messa in dubbio. Un brivido di paura si è diffuso perfino tra i clienti di altre banche più grosse e più solide, perché nel frattempo entravano in vigore nuove regole, imposte dall'Europa, che comportano maggiori rischi per i risparmiatori. Sono così venute alla luce storie tragiche: cittadini ingannati, titoli insicuri venduti agli sportelli bancari, obbligazioni travolte nei crac. In parallelo, brividi di paura sulla tenuta delle banche si sono manifestati anche in altre parti del mondo: in Cina e persino nell'insospettabile Germania. E a preoccuparci non ci sono solo le banche private, quelle dove abbiamo i conti correnti e i libretti di risparmio. Anche quelle che stanno molto al di sopra, le istituzioni che dovrebbero governare la moneta e l'economia, non offrono certezze. In America, nell'Eurozona o in Giappone, la debolezza dell'economia ha rivelato errori e limiti delle banche centrali. In un'epoca come questa, in cui i redditi da lavoro diventano incerti o precari, il risparmio è ancora più importante che in passato. Ma possiamo fidarci di chi ce lo gestisce?
"Giù le mani dall'articolo 18!" si gridava, nelle piazze e non solo. Poi, quando si è capito che quella norma poteva essere davvero mandata in soffitta, la tensione è arrivata al calor bianco. Eppure tutti sanno che il sistema di protezione di cui l'articolo 18 è la chiave di volta, quello che oggi chiamiamo job property, è nato mezzo secolo fa, nel lontano 1970: da allora tutto, o quasi, è cambiato. Cinquant'anni fa non c'erano ancora i computer, non esisteva Internet, ma neppure fax e fotocopiatrici. Esisteva, invece, il "posto fisso": si entrava in azienda a 16 anni per rimanerci fino alla pensione, fabbricando sempre gli stessi oggetti, con gli stessi strumenti. In una società dove erano ancora gli aiuti di Stato ad assicurare la continuità delle grandi strutture produttive, non era neppure pensabile che aziende come Olivetti, Fiat o Alitalia potessero ricorrere a un licenziamento collettivo o tanto meno chiudere. Mentre era pensabile che il "risarcimento" per la perdita del posto in aziende come quelle consistesse in anni e anni di Cassa integrazione, fino a un prepensionamento a 57 o 58 anni. Ma nel frattempo l'articolo 18 generava un regime di apartheid tra i garantiti e i precari, cui la grande crisi ha aggiunto gli esclusi. In questo libro scritto con il rigore dello studioso ma con la penna agile del giornalista, Pietro Ichino, giuslavorista e senatore della Repubblica, racconta perché e come nel nostro ordinamento è stato introdotto l'articolo 18...
"Il mio modello di business? I Beatles." Così parlò Steve Jobs, il fondatore di Apple, uno che di business qualcosa capiva. A intrigarlo era soprattutto la formula del collettivo: vedeva i Beatles come un prodigioso moltiplicatore dei talenti individuali. L'indimenticabile quartetto della cultura pop, infatti, fu anche una start-up di successo. Proiettò quattro ragazzi cresciuti nella Liverpool del primo dopoguerra, in una miseria da Terzo mondo, verso la stratosfera della ricchezza. Personalmente, nei testi delle loro canzoni, composte in un periodo di radicali cambiamenti come gli anni Sessanta, ritrovo la mia adolescenza e un'epoca che fu l'ultima Età dell'Oro per l'Occidente: alta crescita, pieno impiego, benessere diffuso, aspettative crescenti per i giovani. Ma anche i germi di quel che accadde in seguito. "Taxman" prefigura le rivolte fiscali. "Get Back" nasce come una satira dei primi movimenti xenofobi e anti-immigrati. "When I'm Sixty-Four" anticipa la crisi del Welfare State da shock demografico. "Eleanor Rigby" e "Lady Madonna" evocano la nuova povertà che oggi è in mezzo a noi. "Across the Universe", con il suo richiamo al viaggio in India dei Fab Four, ricorda l'irruzione dell'Oriente nel nostro mondo. E "Yesterday", con il tema della nostalgia, ci costringe ad affrontare domande cruciali: davvero si stava meglio "ieri"? Prima dell'euro, prima della globalizzazione, prima di Internet? L'obiettivo di questo libro è ricostruire una speranza.
Lettere riservate a capi di governo, telefonate segrete alle più alte cariche di Stati sovrani, pressioni esercitate in mille modi da poteri forti che si muovono al di fuori e al di sopra delle elementari regole democratiche. La storia del ruolo svolto in questo inizio secolo dalla Germania in Europa, e in particolare nell'Unione europea, è ancora tutta da raccontare, soprattutto in relazione alle vicende politiche dell'Italia, il paese che per decenni è stato suo partner amichevole ma anche temibile concorrente economico sui mercati mondiali. Di questa storia, Vittorio Feltri e Gennaro Sangiuliano tracciano qui il quadro generale e non esitano a parlare di "Quarto Reich", una formula che, lungi dall'essere una banalizzazione giornalistica, è la sintesi estrema, e forse inquietante, della situazione venutasi a creare nell'area euro. In un decennio, infatti, grazie alla moneta unica e alla gabbia istituzionale dell'Unione, la Germania è riuscita a costruire sul Vecchio Continente una condizione di predominio economico e di egemonia politica. L'impossibilità di dissentire sulle leggi del rigore dettate dagli euroburocrati e ispirate da Berlino ha privato gli altri paesi membri di ogni reale sovranità economica e ha concentrato tutto il potere decisionale nelle mani delle élite e delle strutture comunitarie. Ma se per i cittadini tedeschi l'"era del Quarto Reich" significa benessere, lavoro e crescita, per le altre nazioni, soprattutto del Sud Europa, vuol dire povertà, disoccupazione e recessione.
In "La società a costo marginale zero", Jeremy Rifkin sostiene che si sta affermando sulla scena mondiale un nuovo sistema economico. L'emergere dell'Internet delle cose sta dando vita al "Commons collaborativo", il primo nuovo paradigma economico a prendere piede dall'avvento del capitalismo e del socialismo nel XIX secolo. Il Commons collaborativo sta trasformando il nostro modo di organizzare la vita economica, schiudendo la possibilità a una drastica riduzione delle disparità di reddito, democratizzando l'economia globale e dando vita a una società ecologicamente più sostenibile. Motore di questa rivoluzione del nostro modo di produrre e consumare è l'"Internet delle cose", un'infrastruttura intelligente formata dal virtuoso intreccio di Internet delle comunicazioni, Internet dell'energia e Internet della logistica, che avrà l'effetto di spingere la produttività fino al punto in cui il costo marginale di numerosi beni e servizi sarà quasi azzerato, rendendo gli uni e gli altri praticamente gratuiti, abbondanti e non più soggetti alle forze del mercato. Il diffondersi del costo marginale zero sta generando un'economia ibrida, in parte orientata al mercato capitalistico e in parte al Commons collaborativo, con ricadute sociali notevolissime. Rifkin racconta come i prosumers, consumatori diventati produttori in proprio, generano e condividono su scala laterale e paritaria informazioni, intrattenimento, energia verde e prodotti realizzati con la stampa 3D a costi marginali...