Accompagnare una persona al limite estremo della vita, essere testimone partecipe ed empatico del momento del trapasso è un'esperienza fondamentale, che cambia radicalmente la visione dell'esistenza e, quindi, il modo di vivere di chi non ha paura di connettersi con gli altri e con il loro dolore. Frank Ostaseski rivolge al lettore «cinque inviti»: non aspettare; accogli tutto, non respingere nulla; porta nell'esperienza tutto te stesso; impara a riposare nel pieno dell'attività; coltiva la mente. È un percorso di consapevolezza originato, oltre che da numerose vicissitudini personali, talvolta drammatiche, dai racconti di tanti pazienti terminali che, dialogando con lui – maestro di cure compassionevoli –, si sono confrontati da vicino con la morte e con il senso stesso della vita.
Ci sono pochi posti nel mondo dove il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo è tanto ampio quanto nel caso degli Stati Uniti. L'influenza statunitense nei nostri consumi è così longeva che pensiamo di conoscere bene l'America quando in realtà, nella gran parte dei casi, la nostra idea è un impasto di luoghi comuni e poche informazioni concrete. Convinti che gli statunitensi siano tutti armati fino ai denti, non sappiamo, per esempio, che la metà delle armi in circolazione in America è posseduta dal 3 per cento della popolazione. Coltiviamo il luogo comune per cui gli Stati Uniti usino la mano pesante contro l'evasione fiscale e i reati dei cosiddetti colletti bianchi, ma in carcere ci vanno ancora soprattutto ragazzi neri. Ragioniamo e discettiamo sulla cultura americana e sulla sua idea di Stato e libertà, paragonando il tutto a quello che succede qui da noi, senza sapere o tener conto che gli Stati Uniti sono un Paese molto poco popolato: ci sono più persone nella sola New York di quante ce ne siano in 40 dei 50 Stati. Siamo abituati a leggere l'intera politica estera statunitense innanzitutto sulla base del petrolio, e della necessità di trovarlo, ma oggi gli Stati Uniti sono pressoché indipendenti dal punto di vista energetico. L'elenco potrebbe continuare. Allo stesso modo, abbiamo accolto il risultato elettorale più clamoroso in quasi tre secoli di storia statunitense, la vittoria del repubblicano Donald Trump alle presidenziali del 2016, a pochi anni di distanza dell'elezione di Barack Obama, primo presidente nero, come la logica e prevedibi
Beethoven è stato una figura smisurata, supremo genio musicale e cumulo di contraddizioni, di comportamenti eccessivi, descritto dalla critica come l'emblema stesso dell'artista romantico o come un illuminista. Ma Beethoven è stato soprattutto un tedesco: e in questa biografia Buscaroli ne sovverte l'immagine abituale alla luce delle fonti e dei documenti. Ne esce un ritratto completamente nuovo che racconta la famiglia, il rapporto con i musicisti del suo tempo, il carattere, le malattie, gli amori, il sentimento e gli scopi dell'arte. La biografia diventa così chiave di revisione di un'immagine stereotipata, illuminista per non dire giacobina, dell'artista, dell'uomo e di tutta l'età seguita alla "révolution".
L'amore si impara come qualunque altra cosa nella vita. Non è definibile a parole, è piuttosto un modo di vivere, di essere e di sentirsi vivi. Se si assimila questo concetto nella forma più piena, spiega l'autore, si può alla fine ottenere dalla vita il premio più ambito: quello di essere completamente se stessi. L'arte di amare spiegata in tutti i suoi aspetti fisici e psichici.
Quando Pietro Bartolo, medico di Lampedusa, vide Anila per la prima volta rimase di sasso. Quella bambina non avrà avuto più di dieci anni. Che cosa ci faceva una creatura così piccola, da sola, in una nave piena di naufraghi disperati? Di solito, ragionò, i bambini di quell'età arrivano qui in Italia accompagnati dai genitori, o da un amico di famiglia o da qualche altro adulto conosciuto lungo il viaggio. Allo stupore di quel primo istante seguì una certezza: l'arrivo a Lampedusa per Anila non era la fine di un lungo viaggio ma solo una tappa intermedia, un nuovo punto di partenza verso il suo vero obiettivo, trovare la mamma «da qualche parte in Europa» e salvarla. Da tutto. Dalla prostituzione, dal vudù africano che la teneva in scacco, dalla non meno malefica burocrazia occidentale, ma soprattutto dai suoi stessi sensi di colpa. Pietro Bartolo accetta di accompagnare Anila lungo questo suo nuovo percorso. E, attraverso i suoi occhi neri e profondissimi, si proietta dentro l'interminabile incubo dei tanti migranti bambini che negli anni sono arrivati - da soli - sulle coste italiane: la miseria di Agades, la traversata del deserto, gli orrori delle carceri libiche, il terrore del naufragio nelle acque gelide di un Mediterraneo invernale e ostile. A metà strada esatta tra un romanzo di formazione e un documentario, queste pagine ci permettono di toccare con mano, di scoprire in prima persona che cosa c'è davvero dall'altra parte dell'«allarme immigrazione», quello che troviamo rilanciato negli slogan più beceri di questo medioevo permanente in cui la politica ci ha catapultati. Un libro per capire l'importanza di essere testimoni. Perché, alla fine, l'unico pericolo che corre davvero la nostra civiltà davanti al tumultuoso flusso migratorio di quest'epoca è quello dell'incomprensione e della stupidità.
«Oggi dovremmo capire come servirci dell'ironia per difenderci dai pericolosi dogmatismi dell'epoca nostra. In particolare, dal dogmatismo dell'"immediato" che è appunto quello dei nostri politici, i quali, magari, non concepiscono che ci sia qualcosa come l'ironia». Giulio Giorello, filosofo della scienza e matematico, si confronta con il tema dell'ironia, che definisce «un'arma di costruzione di massa»: di massa nel senso che può essere utilizzata da chiunque. L'ironia si dimostra capace non solo di smantellare intere fortezze, infiltrandosi con le sue domande impertinenti, ma di costruire lei stessa nuovi castelli, a patto che si sia consapevoli che questi sono dei veri e propri castelli in aria, così come sono di sabbia le fortezze che man mano gli esseri umani costruiscono nel tempo. Ottimi esempi di ironia si trovano in quella combinazione di serietà e umorismo che ci è stata regalata dai fumetti, da Topolino, ai Peanuts a Tex. Ma anche in tante opere letterarie: dalla critica di Jonathan Swift alle pretese dei dotti di formare una corporazione di privilegiati nei "Viaggi di Gulliver" alla suprema ironia di Robert Musil, che nell'"Uomo senza qualità" descrive il protagonista come colui che aspira a quella stessa condizione ideale che il suo critico era così pronto ad attribuirgli, o ancora l'irriverente ironia di James Joyce, che prende di mira persino il buon Dio, che «ha scritto il folio di questo mondo, e l'ha scritto sbagliato». Anche la scienza nei momenti creativi, quando cioè distrugge un paradigma costituito e comincia a costruire un'alternativa, usa l'ironia. Non solo, è capace di servirsene come strumento di alta retorica e di sottile comunicazione della novità. Non era ironico, forse, Giordano Bruno quando nella "Cena de le Ceneri" difendeva un universo «senza margine» contro il mondo chiuso di Aristotele? Ecco allora disvelata tutta la potenza dell'ironia, che «nel solco di quell'Illuminismo che ha rappresentato un modello coraggioso di ricerca e di rispetto della verità, segnatamente della verità scientifica», si dimostra un'arma civile per combattere schemi, categorie e istituzioni rigide, grazie alle sue doti a un tempo distruttive e creative.
Il cibo, i modi di cucinarlo e consumarlo possono narrare un paese meglio di tante cronache storiche. E proprio oggi che in Italia la cucina è la regina della programmazione televisiva, è importante ritrovarne la memoria. Perché la (buona) tavola è un fatto sociale e culturale, è appartenenza e ricordo, la rappresentazione più intima della nostra identità, tanto che non è azzardato affermare che molti mutamenti del nostro paese possono essere letti attraverso il cibo e la sua preparazione. "Fornelli d'Italia" è un viaggio nel tempo e nei tempi della nostra terra, alla scoperta di come e quanto sia cambiata l'Italia da quel fatidico 1861 in cui siamo diventati nazione. Un viaggio raccontato da un punto di vista originalissimo, quello delle molte straordinarie cuoche che si sono avvicendate nelle cucine delle nostre case. Infatti, mentre la gastronomia, colta e raffinata, è da sempre descritta da quegli stessi uomini che la interpretano (i grandi chef che oggi spopolano come vere star), il quotidiano "far da mangiare", costruito silenziosamente e meticolosamente dalle donne, non ha mai avuto celebri cantori. Con occhi femminili, quelli delle padrone dei fornelli, Stefania Aphel Barzini riscrive la storia d'Italia attraverso il cibo. Una storia che, come in un gioco di scatole cinesi, ne racchiude molte altre, ricche di personaggi sorprendenti, di aneddoti, di ricette narrate anche grazie all'aiuto della pubblicità, dei film, dei giornali e delle riviste dell'epoca.
In questo libro, Bruno Vespa racconta come e perché tre anni di guerra civile (1919-1922) consegnarono il potere all'uomo che l'avrebbe tenuto per un ventennio e perché la «democrazia autoritaria» del primo biennio (1923-1924) si trasformò in dittatura dopo il delitto Matteotti. Gli slogan e gli errori di un secolo fa sono stati spesso richiamati nell'attuale polemica politica, italiana e internazionale. Vespa ne disegna il panorama completo, mettendo al centro della scena Matteo Salvini che, con la clamorosa vittoria della Lega alle elezioni europee del 2019, ha ribaltato gli equilibri politici, aprendo una crisi al buio che, invece di portare di nuovo alle urne, ha fatto nascere nella storia italiana un governo di segno opposto al precedente, ma presieduto dallo stesso premier, Giuseppe Conte. L'autore, che ha incontrato tutti i protagonisti della scena politica, racconta tattiche, strategie e retroscena di una battaglia senza esclusione di colpi: dalla nascita del partito di Matteo Renzi ai patemi del Pd di Zingaretti dopo la scissione, dalla ritrovata unità del centrodestra nella manifestazione romana di piazza San Giovanni del 19 ottobre 2019 per far cadere il governo all'implicita alleanza non dichiarata tra Luigi Di Maio e lo stesso Renzi per evitare che Conte diventi il nuovo leader del centrosinistra.
Dentro ognuno di noi è tracciato il percorso che ci conduce alla nostra meta. Un cammino che si compie attraverso una continua metamorfosi. È una trasformazione che si svolge giorno dopo giorno dentro di noi, e di cui neppure ci accorgiamo. Svuotare la mente, accogliere i frutti della nostra immaginazione, che siano sogni o fantasie, non ascoltare nessuno, non farsi distrarre dai pensieri altrui ma semplicemente e pazientemente aspettare che i nostri fiori nascano dentro di noi: in poche parole, affidarsi alla vita (che "ne sa più di noi") e seguire il proprio destino. È questo il modo per invertire la rotta, questa la strada dell'autoguarigione. "Più restiamo sulla nostra via, più rapidamente i disagi guariscono. Più ci avviciniamo alla nostra meta, più arrivano, improvvisi, veri e propri attacchi di felicità". Quando smetterai di giudicarti, di confrontarti con gli altri, di cercare in te o nel tuo passato le cause dei tuoi problemi, allora - e solo allora - sarai pronto per la felicità. È l'avvertimento da cui parte "Segui il tuo destino", che come tutti i libri di Raffaele Morelli è molto più di un libro. È un percorso terapeutico per guarire dai più diffusi malesseri del nostro tempo: l'ansia, il panico, la depressione, le ossessioni, le nevrosi. Con il suo stile, mescolando casi clinici, testimonianze di pazienti, citazioni della saggezza antica, l'autore ci prende per mano e ci insegna a guardarci dentro. Non per cercare le nostre colpe ma per scoprire il nostro destino, la nostra unicità, la nostra missione nella vita.
«Memori delle tirannie che l'avevano mortificata, nella seconda metà del Novecento abbiamo amato il carattere esaltante della libertà come liberazione da ogni catena. Ma ora che finalmente abbiamo raggiunto tale condizione, nuove ombre si allungano attorno e dentro di noi». A cinquant'anni dalla «primavera in cui le strade e le piazze del nostro paese risuonarono del vibrante grido di libertà», quel concetto delicato e prezioso, coltivato dalla generazione dei baby boomer, è a rischio di collasso. La sempre maggiore richiesta di sicurezza, la ricerca di qualcuno o qualcosa in grado di restituire un po' di ordine, rischiano oggi più che mai di farci sacrificare la tanto agognata libertà e di indebolire le basi di solidarietà, tolleranza e fratellanza su cui la nostra società si fonda. Avremmo bisogno, sostiene Mauro Magatti, di una libertà che sappia essere responsabile, una libertà capace di indignazione, dedizione, affezione, in grado di non rinchiudersi nella consolazione di un godimento solipsistico ma di creare nuovi legami, una libertà che sappia ricostituire luoghi e processi di produzione di senso collettivo. E poiché la libertà va allenata, individualmente e collettivamente, ecco allora cinque «movimenti» che, come una ginnastica, possono aiutarci a sbloccare ciò che si sta intorpidendo. Primo: dire no, opporsi, resistere, dissentire. Secondo: coltivare lo spirito di iniziativa. Terzo: farsi ingaggiare, senza farsi imprigionare. Quarto: lasciare andare. Quinto: far circolare la libertà. Perché la libertà è una sfida, eccitante, complessa, quotidiana, che non riguarda mai solo l'individuo, ma ogni relazione che prende forma negli ordini sociali, culturali e politici. È un delicato equilibrio che, come acrobati su un filo sottile, possiamo raggiungere solo mettendo da parte la paura di cadere.
Il mondo è cambiato molto più di quanto gli occidentali si rendano conto. Il tramonto del secolo americano e la possibile transizione al secolo cinese bruciano le tappe. Ci siamo distratti mentre la Cina subiva una metamorfosi sconvolgente: ci ha sorpassati nelle tecnologie più avanzate, punta alla supremazia nell'intelligenza artificiale e nelle innovazioni digitali. È all'avanguardia nella modernità ma rimane un regime autoritario, ancora più duro e nazionalista sotto Xi Jinping. Unendo Confucio e la meritocrazia, teorizza la superiorità del suo modello politico, e la crisi delle liberaldemocrazie sembra darle ragione. L'Italia è terreno di conquista per le Nuove Vie della Seta. In Africa è in corso un'invasione cinese di portata storica. Due imperi, uno declinante e l'altro in ascesa, scivolano verso lo scontro. L'America si è convinta che, «ora o mai più», la Cina va fermata. Chi sta in mezzo, come gli europei, rimarrà stritolato? Nessuno è attrezzato ad affrontare la tempesta in arrivo. Neppure i leader delle due superpotenze hanno un'idea chiara sulle prossime puntate di questa storia, sul punto di arrivo finale. Mettono in moto forze che loro stessi non sapranno dominare fino in fondo. Pochi anni fa le due superpotenze sembravano diventate quasi una cosa sola, tanta era la simbiosi tra la fabbrica del mondo (cinese) e il suo mercato di sbocco (americano). Quell'epoca si è chiusa e non tornerà. Sta succedendo ciò che molti esperti consideravano impossibile. I dazi sono stati solo l'acceleratore di un divorzio che cambierà le mappe del nostro futuro. Trump può subire l'impeachment o perdere le elezioni nel 2020 ma i democratici che lo sfidano sono diventati ancora più intransigenti con Pechino. La resa dei conti precipita a tutti i livelli. Questo libro è una guida e un manuale di sopravvivenza nel mondo nuovo che ci attende.
Molto si sa del Vittorio Feltri giornalista e della lunga e fortunata carriera che lo ha visto passare da un piccolo giornale di provincia al «Corriere della Sera», fino a diventare direttore di testate come «Libero» e «il Giornale» che, sotto la sua dirompente conduzione, si sono affermate tra i quotidiani più letti in Italia. Meno noti, invece, sono alcuni aspetti della sua vita privata e del suo carattere, perché tenuti gelosamente nascosti dietro l'immagine battagliera e spesso cinica che il direttore mostra in pubblico. Attraverso il racconto di amicizie indelebili strette nel corso degli anni e di aneddoti divertenti, "L'irriverente" svela un Feltri inconsueto e inaspettato: lo scopriamo involontario autore di un verso di Giorgio Gaber, oppure impegnato in chiassose partite a biliardo insieme a Nicola Trussardi negli anni dell'adolescenza o, ancora, votato a riportare sulla retta via il «fuoriclasse» amante del sushi Alberto Ronchey, che convertirà alla pastasciutta. Tanti sono anche i ricordi che lo legano a colleghi diventati poi veri amici, a partire dai direttori del «Corriere della Sera» Franco Di Bella e Piero Ostellino, fino all'inimitabile Gianni Brera - giornalista «massiccio, ricco e appassionato» -, che celebrò il loro incontro stappando una bottiglia di Grignolino. E ancora si avverte bruciare, in queste brevi pagine scritte a distanza di anni, l'indignazione per le vicende giudiziarie che coinvolsero Enzo Tortora e Angelo Rizzoli, ai quali Feltri non fece mai mancare il proprio sostegno pubblico e privato. Il tono impertinente e ironico che sempre vena i suoi scritti si stempera quando il direttore rivolge il pensiero alla propria infanzia, segnata dalla prematura perdita del padre e dai sacrifici della madre, costretta a provvedere da sola a tre figli piccoli, e alle lunghe vacanze estive a casa dello zio in Molise, dove le giornate a zonzo per il paese e l'uovo bevuto crudo dal guscio avevano un sapore di leggerezza e libertà mai dimenticato. Ma è solo un attimo, perché cedere al sentimentalismo non è certo una prerogativa di Feltri, che ancora una volta conferma di essere una delle penne più corrosive e anticonvenzionali della stampa italiana.