Il tempo del nostro giudizio
01.05.2020
È stato un momento epocale, di quelli che entrano dritti nella memoria per non uscirne più. La piazza vuota, il buio che cala. La pioggia, via via più forte. E un uomo vestito di bianco che, davanti al Crocifisso, invoca Dio usando le parole dei discepoli: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Non ti importa di me, di noi? Scene simili a quelle che avremmo visto pochi giorni dopo, in una Settimana Santa altrettanto inedita: la Messa in Coena Domini, la Via Crucis, la Pasqua… Tutti ridotti all’essenziale. Il Papa, pochi altri. E la presenza di Cristo.
Ma in quella preghiera di fine marzo, nel grido di Francesco in una piazza per la prima volta deserta, si è aperta anche una strada. Preziosissima, per chi sta provando a seguirla. Perché, come ha detto il Papa, questa situazione mai vista, capace di «smascherare la nostra vulnerabilità», di ribaltare le «false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende», di farci toccare con mano quanto abbiamo bisogno di Cristo Risorto, non è una condanna, uno squarcio di nulla entrato di colpo nelle nostre vite. È un’occasione, grande.
È «il tempo del nostro giudizio». Non «del tuo giudizio», ha insistito Francesco rivolgendosi a Dio con audacia, ma «del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è». Il tempo della conversione. Dove a questa parola non corrisponde più nulla di moralistico, come se si trattasse di uno sforzo etico: ci viene chiesto uno sguardo. A chi guardare, cosa cercare. È un passo di conoscenza.
Lo hanno detto molti altri in tanti modi, nelle settimane successive, e anche nelle prossime pagine ne troverete degli esempi. Se questa emergenza così drammatica trascorresse senza una nostra presa di coscienza, senza scoprire qualcosa di più profondo di noi e della realtà, sarebbe una sciagura che si aggiunge al peso insopportabile della morte di tanti, del dolore, della paura. Anzi, di più: metterebbe un’altra pietra davanti al sepolcro della nostra umanità. Perché ci lascerebbe smarriti e vuoti, più di prima.
E invece questo «tempo vertiginoso» può essere altro. Può diventare l’occasione per un «risveglio dell’umano», come dice il titolo del libro uscito proprio mentre mandiamo in stampa Tracce. È un’intervista a Julián Carrón, il presidente della Fraternità di CL. Facendo i conti fino in fondo con «l’irruzione potente della realtà», che «ha fatto riemergere in tutta la sua portata quell’esigenza di capire che chiamiamo “ragione”», affronta le domande che ci stiamo ponendo tutti, senza sconti e scorciatoie. Perché è quasi inevitabile che affiorino, ma è una scelta nostra prenderle sul serio.
Così quel libro, in qualche modo, accompagna il tentativo che facciamo anche noi. Nelle pagine che state sfogliando troverete riflessioni, fatti e testimonianze che aiutino a fare dei passi, a sfruttare la circostanza unica che stiamo vivendo, a renderci conto di più di chi siamo e di cosa ha bisogno la nostra vita. Dell’essenziale.
Che cosa ci strappa dal nulla?
01.04.2020
L’editoriale di questo numero è la lettera che don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha mandato a tutto il movimento.
Milano, 12 marzo 2020
Carissimi amici,
pur non essendoci ancora disposizioni delle autorità circa il prossimo mese di aprile, l’attuale emergenza sanitaria e le problematiche legate all’organizzazione dei nostri gesti ci impongono di disdire tutti i consueti appuntamenti di questo momento dell’anno: gli Esercizi della Fraternità, gli Esercizi dei lavoratori, il Triduo di GS, i momenti della Settimana Santa del CLU, le Via Crucis, la Scuola di comunità in collegamento del 1° aprile.
Questa decisione, imposta dall’emergenza, non fa sparire la presenza insidiosa del Coronavirus tra di noi né attenua la provocazione che essa rappresenta, non ci consente di voltare la faccia dall’altra parte, come se non ci toccasse. Volenti o nolenti, ci riguarda tutti. E, con tutti, noi condividiamo la stessa domanda: come stare da uomini davanti a questa circostanza?
In queste occasioni – che il Mistero non ci risparmia – possiamo cogliere con ancora più chiarezza la grazia del carisma che ci ha investito, verificando la sua capacità di farci stare davanti a quello che accade. «L’unica condizione per essere sempre e veramente religiosi è vivere sempre intensamente il reale» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 150), ci ha detto don Giussani. È questa concezione della religiosità che ci fa riconoscere qualsiasi circostanza come vocazione. «Vivere la vita come vocazione significa tendere al Mistero attraverso le circostanze in cui il Signore ci fa passare, rispondendo ad esse. […] La vocazione è andare al destino abbracciando tutte le circostanze attraverso cui il destino ci fa passare» (Realtà e giovinezza. La sfida, Rizzoli, Milano 2018, p. 65). Don Giussani era ben consapevole di quale vertigine questo introduca nella vita: «L’uomo, la vita razionale dell’uomo dovrebbe essere sospesa all’istante, sospesa in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze attraverso le quali l’ignoto “signore” mi trascina, mi provoca al suo disegno. E dir “sì” a ogni istante senza vedere niente, semplicemente aderendo alla pressione delle occasioni. È una posizione vertiginosa» (Il senso religioso, op. cit., p. 189).
È difficile trovare una espressione più adeguata di questa per descrivere la situazione in cui ci troviamo quando stiamo realmente davanti a quello che accade: un vertiginoso essere sospesi «in ogni istante a questo segno apparentemente così volubile, così casuale che sono le circostanze». Eppure è questo l’unico atteggiamento razionale, perché è attraverso quelle circostanze che la presenza del Mistero, di quell’«ignoto “signore”», ci interpella, ci provoca al Suo disegno, al compimento del vivere.
Ma «la ragione non tollera, impaziente, di aderire all’unico segno attraverso cui seguire l’Ignoto, segno così ottuso, così cupo, così non trasparente, così apparentemente casuale, come è il susseguirsi delle circostanze: è come sentirsi in balia di un fiume che ti trascina in qua e in là» (Il senso religioso, op. cit., p. 189). In queste settimane ciascuno potrà vedere quale posizione prevale in sé: se una disponibilità ad aderire al segno del Mistero, a seguire la provocazione della realtà, oppure il lasciarsi trascinare da qualunque “soluzione”, proposta, spiegazione, pur di distrarsi da quella provocazione, evitare quella vertigine. Ciascuno di noi potrà poi verificare la reale consistenza delle “soluzioni” in cui ha cercato rifugio.
Come farci compagnia in questo frangente? Di quale compagnia abbiamo veramente bisogno? Quante volte cerchiamo una risposta svuotando l’avvenimento che ci ha raggiunto, riducendolo a un ambito di rapporti che ci protegga dall’urto delle cose, che ci risparmi la sfida delle circostanze, invece che sospingerci a viverla! Ma una simile compagnia non può rispondere: in momenti come quelli che stiamo attraversando, in cui l’urgenza del vivere si fa ineludibile e potente, diventa più evidente che mai.
Un mio giovane amico si è laureato e ha iniziato una nuova vita. Di conseguenza, non ci possiamo vedere più così spesso come quando frequentava l’università. Di recente si lamentava di questo con me. Gli ho ricordato un brano del Vangelo. Un giorno i discepoli si trovarono in barca con Gesù e si accorsero di essersi dimenticati di prendere dei pani. Nonostante fossero stati testimoni di due miracoli grandi come castelli – due moltiplicazioni di pani come mai erano successe nella storia –, cominciarono a litigare tra di loro perché si erano dimenticati i pani. Facevo dunque notare al mio amico che Gesù era lì, accanto a loro, sulla barca! E loro continuavano a lamentarsi! Il problema non era che fossero soli, perché Gesù era con loro, ma per loro era come se non ci fosse. E infatti discutevano tra loro che non avevano pane! Per mostrare dove fosse il problema, Gesù non fa un altro miracolo. A cosa sarebbe servito farne un altro, dopo tutti quelli che avevano già visto? Che contributo dà allora Gesù? Rivolge loro tre domande. La prima: «Quanti pani sono avanzati dopo la prima moltiplicazione?». E poi: «Quanti ne sono avanzati dopo la seconda?». E infine: «Ancora non capite?» (cfr. Mc 8,19-21). Come è prezioso il contributo che Gesù offre ai suoi amici non risparmiando loro le domande! Non aggiunge spiegazioni, non compie altri miracoli, ma li sollecita, dal di dentro della loro esperienza, a usare fino in fondo la ragione, in modo che essi possano rendersi conto di chi hanno incontrato (avevano con sé il signore del “panificio”!). Se non avevano capito, attenzione, non era perché fossero da soli o non disponessero di elementi sufficienti, ma perché non avevano ancora usato bene la ragione. Gesù infatti si era svelato loro attraverso i molti segni che avevano visto, di una risposta eccezionale, finalmente corrispondente al cuore, al loro e all’altrui bisogno di uomini, in tante occasioni, anche drammatiche, ma essi non avevano ancora riconosciuto chi era, con quel riconoscimento che si chiama fede e che «fiorisce sull’estremo limite della dinamica razionale come un fiore di grazia, cui l’uomo aderisce con la sua libertà» (Generare tracce nella storia del mondo, Bur, Milano 2019, pp. 45-46).
Gesù approfitta di ogni circostanza per far vedere ai suoi discepoli il Suo modo di stare davanti a tutto quello che accade, a qualsiasi imprevisto, anche doloroso, affinché essi sperimentino la pertinenza della Sua presenza, del rapporto con Lui – della fede –, alle esigenze della vita. «Il contenuto della fede – Dio fatto uomo, Gesù Cristo morto e risorto – che emerge in un incontro, perciò in un punto della storia, ne abbraccia tutti i momenti e aspetti, che come da un vortice sono portati dentro quell’incontro e devono essere affrontati dal suo punto di vista, secondo l’amore che da esso scaturisce, secondo la possibilità di utilità al proprio destino e al destino dell’uomo che esso suggerisce» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit, p. 40). Se l’incontro fatto non diventa per noi come un vortice dentro il quale sono portati tutti i momenti e aspetti del vivere, ci troveremo smarriti davanti a ogni nuovo imprevisto, a ogni nuova strettoia.
È così, circostanza dopo circostanza, nell’esperienza continua di una “convenienza” inaspettata, che «l’incontro fatto, per sua natura totalizzante, diventa nel tempo [sottolineiamolo: nel tempo] la forma vera di ogni rapporto, la forma vera con cui guardo la natura, me stesso, gli altri, le cose. Un incontro, se è totalizzante, diventa forma e non semplicemente ambito di rapporti: esso non stabilisce soltanto una compagnia come luogo di rapporti, ma è la forma con cui essi vengono concepiti e vissuti» (Generare tracce nella storia del mondo, op. cit, p. 40).
È a questo livello della questione – il riconoscimento della natura totalizzante dell’incontro, che diviene forma vera di ogni rapporto – che vengono in nostro aiuto presenze veramente «amiche», che ci testimoniano la strada che ci consente di vivere una situazione come quella attuale. Presenze che non programmiamo noi, così eccezionali – pur dentro le circostanze di tutti – che ci lasciano senza parole, in silenzio. «D’improvviso sono stata catapultata in trincea. Sembra di essere in guerra. Il mio quotidiano lavorativo e familiare in un giorno è cambiato. Da medico, da mamma, da moglie mi ritrovo a dormire in isolamento da mio marito, a non vedere i miei figli da due settimane, a non poter avere un contatto diretto con il paziente. Tra me e i miei malati c’è una maschera, una visiera e il loro scafandro. Spesso sono anziani che vivono da soli questo momento. Hanno paura. Muoiono da soli. E i parenti, isolati a casa, non possono assistere il loro caro, la loro cara, e ricevono telefonate nella notte in cui comunico loro la morte del loro familiare: tra me e loro c’è il telefono. Io cosa posso fare per loro umanamente, da cristiana? Entro in reparto, cerco un sorriso e l’abbraccio di un’infermiera amica: in questo momento di isolamento ho bisogno anche di sentirmi fisicamente insieme. E posso abbracciare solo loro. Davanti a tutto ciò mi sostiene rileggere tutti i giorni la lettera di Carrón al Corriere della Sera («Ecco come nelle difficoltà impariamo a battere la paura», 1 marzo 2020, p. 32), che mi aiuta a rimettermi in una posizione di apertura, a chiedermi che cosa in fondo regge. Sono chiamata a riconoscere l’essenziale, il vero. Poi c’è tutto il percorso fatto sul testo di Scuola di comunità: la prova è il modo in cui la fede può crescere se la libertà è giocata di fronte alla Preferenza che ci chiede tutto. E questo è vertiginoso. Noi dobbiamo affidarci e assumerci questo rischio. La certezza che sostiene la nostra vita è un legame, e c’è un cammino da fare per arrivare a questa certezza affettiva. Le circostanze ci sono date per attaccarci più a Lui, ci sta chiamando in un modo misterioso. La fede è fidarsi che Lui ci sta chiamando. “Solo quando domina una speranza fondata siamo in grado di affrontare le circostanze senza fuggire”. Siamo chiamati più che mai a rispondere a Lui che ci chiama in modo misterioso. È questa certezza che posso dare ai miei malati, ai parenti, oltre che fornire le cure mediche».
Questa è la sfida davanti alla quale è ciascuno di noi. In questo momento, in cui il nulla dilaga, il riconoscimento di Cristo e il nostro «sì» a Lui, anche nell’isolamento in cui ognuno di noi potrebbe essere costretto a stare, è già il contributo alla salvezza di ogni uomo oggi, prima di ogni legittimo tentativo di farsi compagnia, che pure va perseguito nei limiti del consentito. Niente è più urgente di questa autocoscienza.
Anche se non potremo fare gli Esercizi della Fraternità, niente ci impedisce di proseguire il nostro cammino per continuare a incrementare la certezza, quella «speranza fondata» di cui abbiamo assoluto bisogno per vivere in queste circostanze. Perciò vi invio la domanda che avevo pensato per la preparazione degli Esercizi, mai così pertinente alla situazione: «Che cosa ci strappa dal nulla?».
Tutti abbiamo visto quanto è stato utile il quesito inviato lo scorso anno per essere attenti all’esperienza che facevamo. Quest’anno può essere ancora più decisivo. Invito perciò chi lo desidera a inviare il proprio contributo a comunicazionifrat@comunioneliberazione.org.
Vedremo poi come fare tesoro tutti insieme del percorso delle settimane che ci aspettano e come rispondere nella maniera più adeguata alle domande che emergeranno. Aperti all’imprevisto.
È un tempo inedito e drammatico. Che portata possono acquistare i gesti a noi così cari come l’Angelus al mattino, a mezzogiorno e alla sera, il Memorare prima di andare a dormire, il lavoro quotidiano, personale e in famiglia, sulla Scuola di Comunità, la giaculatoria Veni Sancte Spiritus al primo risveglio e in ogni istante in cui la circostanza diventa così sfidante da aver bisogno di gridare per poter stare davanti ad essa!
Vi raccomando la carità fraterna, con una attenzione ai bisogni che emergono fra di noi, rimanendo in contatto come si può, sfruttando al meglio tutti gli strumenti che oggi la tecnologia ci offre.
Infine, secondo l’invito di papa Francesco, «continuiamo a pregare per gli ammalati, gli operatori sanitari, tanta gente che soffre questa epidemia».
Vi abbraccio uno ad uno in questa Quaresima così decisiva per la nostra conversione a Cristo vittorioso sulla morte.
Accompagniamoci, lasciandoci sfidare dai tempi che viviamo, per non perdere l’occasione che il Mistero ha preparato per noi!
Vostro,
don Julián Carrón
Editoriale - Cammino e ripartenza
Ormai il nome è quello, «fase due». E va bene così, anche se i confini tra «prima» e «dopo» sono molto più vaghi di una data sul calendario e tengono con il fiato sospeso. L’inizio della svolta che segue il momento più acuto della pandemia non è uguale per tutti: arriva soltanto per alcuni, mentre altri sono ancora nel pieno del dramma o addirittura rischiano di entrarci veramente adesso (si pensi all’America Latina e all’Africa, a cui molti guardano con apprensione più che comprensibile). Eppure, è chiaro che l’attesa è grande, ed è tanta la speranza che si riversa in una parola come «ripartenza». Ma cosa serve per ripartire davvero?
Regole e provvedimenti, certo. Comportamenti responsabili che aiutino a spegnere i fuochi del virus e a evitare che si riaccendano. Il darsi da fare di tutti, perché mentre la curva dei contagi declina, quella della crisi economica rischia di impennarsi. E l’elenco delle cose utili e indispensabili potrebbe continuare. Ma prima di tutto questo, c’è una condizione. Quella che Julián Carrón, la guida di CL, ha sintetizzato nel titolo dell’ebook uscito nelle scorse settimane: Il risveglio dell’umano. Dalla pandemia «usciremo cambiati, ma solo se cominciamo a cambiare adesso», si dice in quel testo. Ovvero, «se siamo presenti al presente e impariamo adesso a giudicare ciò che stiamo vivendo». Se la nostra umanità, appunto, si sarà ridestata.
Noi abbiamo voluto approfondire questo punto. Capire che cosa sia questo risveglio, che tratti abbia. Nelle parole di una serie di personaggi che hanno voluto confrontarsi con gli spunti contenuti in quel libro (abbiamo ben sei interviste nel “Primo Piano”, ed è un fatto insolito: ma mai come in questo momento è un regalo trovare compagni di cammino che aiutino ad approfondire ciò che sta succedendo). E nelle testimonianze di uomini che mostrano come l’impatto con una realtà anche dura, imprevedibile nella sua crudezza, anziché mortificare la nostra libertà può aiutarla, muoverla, destarla. Può far nascere domande acute e una tensione serrata alle risposte. Può farci arrivare a una consapevolezza di noi e dell’altro – del valore del nostro io e della realtà – che non avevamo guadagnato prima.
Perché il vero test di questi giorni, più ancora che i tamponi o lo screening sierologico (importantissimi, sia chiaro), sarà vederci all’opera. Scorgere i segni di questa umanità ridestata, in noi e negli altri. E dar loro spazio, seguirli. Per non interrompere il cammino.
Può sembrare un tema da addetti ai lavori, qualcosa che interessa solo chi studia, insegna o ha figli ventenni. Invece no. C’è una combinazione di fattori che rende l’università un punto di osservazione utile a tutti, perché fa venire a galla in maniera limpida alcuni fattori che ci riguardano in maniera trasversale.
Il primo è il contesto. L’università è uno degli ambienti che stanno cambiando di più, in questi anni. Non si tratta solo di trasformazioni nell’utenza o nell’offerta, del “chi sale e chi scende” tra Facoltà umanistiche o scientifiche, o tra i singoli Atenei. È proprio la vita universitaria che cambia, improntata sempre di più a un efficientismo fatto di elementi anche utili (valutazione, regole e via dicendo), ma che spesso hanno un contrappasso: ci si ritrova, in genere, più soli. A studiare, a cercare di tenere il ritmo, a vivere. Si fanno più rarefatte le iniziative comuni, le associazioni, persino la politica, mentre si diffondono un individualismo sottile e la tendenza a misurarsi in termini di performance. Insomma, è come se fossero anticipati certi caratteri, a volte soffocanti, del “dopo”, del mondo del lavoro.
Ma l’altro fattore, decisivo, sono i ragazzi. Che – sempre in generale, chiaro – oggi affrontano l’impatto con questo passaggio cruciale della vita con meno certezze di prima, apparentemente più fragili e di sicuro più isolati rispetto ai loro omologhi di dieci o vent’anni fa (per non parlare di momenti in cui l’università divenne in qualche modo il centro del mondo, come il Sessantotto e il suo post…). Ma proprio per questo, paradossalmente, con un bisogno ancora più scoperto e impellente: il bisogno che in quel luogo accada qualcosa, si accenda una scintilla. Che possano incontrare maestri.
Di più, dei padri. Ovvero, compagni di strada che non si limitino ad arricchire il loro bagaglio di strumenti e competenze, ma offrano alla loro vita «una proposta carica di significato», per usare un’espressione sintetica e potente di don Giussani. E si coinvolgano con loro nel verificarla, perché se c’è una cosa evidente come poche è che a un ventenne di oggi (ma non è vero anche per tutti noi, ormai?) le idee e i discorsi non bastano più. Servono padri.
È per questo che un viaggio nell’università come quello che vi proponiamo, si carica di domande che toccano tutti. Come è possibile incontrare una paternità in atto, una proposta di vita all’altezza del nostro desiderio?
Dove, come può succedere? E cosa accade alla nostra umanità – al nostro desiderio spalancato – quando questo incontro avviene, e la scintilla si accende? In queste pagine trovate storie e testimonianze che provano a raccontarlo. Buona lettura, e buon viaggio.
Difficile trovare un tema più trasversale, nello spazio – riguarda davvero tutti, a qualsiasi latitudine – e nel tempo – tocca allo stesso modo chiunque, dagli anziani, sempre più isolati, ai giovani, su cui ormai esiste un’intera letteratura su quanto siano «insieme, ma soli» (espressione di Sherry Turkle, celebre sociologa americana). La solitudine è un dato che lambisce la vita di ognuno di noi. E non dipende solo da quanti legami abbiamo, dalla nostra rete di relazioni più o meno ricca. È esperienza altrettanto comune sentirsi soli anche in momenti in cui siamo circondati da amici. Anzi, forse sono le occasioni in cui avvertiamo di più la radicalità di questo fattore.
«La solitudine vera non è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri», osservava don Giussani: «Si può benissimo dire che il senso della solitudine nasce nel cuore stesso di ogni serio impegno con la propria umanità. Può capire bene tutto ciò chi abbia creduto di aver trovato la soluzione di un suo grosso bisogno in qualcosa o in qualcuno: e questo gli sparisce, se ne va, o si rivela incapace». C’è un punto ultimo, al fondo del nostro io, in cui siamo inesorabilmente soli. Perché nulla di ciò che abbiamo davanti, e in cui riponiamo man mano le nostre attese di compimento, riesce a riempirci il cuore.
Condizione strutturale, quindi. Inevitabile. Ma la solitudine, allora, è una condanna? L’esperienza drammatica che facciamo tutti di uno stato d’animo così acuto da risultare a volte insopportabile (quanto tempo, energia e soldi se ne vanno per eludere i momenti in cui siamo soli con noi stessi? O quanta paura abbiamo, spesso, del silenzio?) è senza vie di uscita? Insomma, dobbiamo rassegnarci al fatto che la nostra stessa umanità ci sia nemica, o c’è un’altra possibilità?
È la strada che esploriamo in questo numero. Che la solitudine non sia solo questo, ma uno strumento per conoscere. Noi stessi, e la realtà. Anzi, che proprio quel confine ultimo dell’io sia il luogo a cui ancorare in maniera finalmente profonda, consapevole – nostra –, il rapporto con il Mistero. L’ambito in cui scopro il mio legame originario con Dio, che mi fa essere ora, che mi è compagno continuamente, perché è alla radice di me stesso. E in cui si svela il modo unico, originale, con cui Lui risponde alle mie attese e domande. Al di là di qualsiasi forma esterna, organizzazione, persino amicizia.
In Generare tracce nella storia del mondo, don Giussani nota che l’incontro cristiano «per sua natura totalizzante, diventa nel tempo la forma vera di ogni rapporto, la forma con cui guardo la natura, me stesso, gli altri». Precisando: «Forma, e non semplicemente ambito di rapporti», perché «non stabilisce soltanto una compagnia come luogo di rapporti, ma è la forma con cui essi vengono concepiti e vissuti». Ecco, è solo mettendo radici nel fondo del nostro io – cioè rispondendo a questa ultima solitudine – che Cristo può iniziare a dare «forma» alla vita. A plasmare la coscienza che abbiamo di noi. E a farci scoprire, in un sussulto di meraviglia, che qualsiasi cosa accada, non siamo mai davvero soli. Perché Lui è.
"Parole e gesti, insieme. Gli uni danno carne alle altre, ne fanno vedere tutta la profondità, le rendono sperimentabili. È così che papa Francesco sta allargando cuori e ragione anche di chi è lontano da Cristo, non lo ha mai conosciuto – o riconosciuto. È così che diventa, per tutti, un testimone. Lo abbiamo visto subito, dai primi momenti del Pontificato. E più si ha familiarità con lui, più questa capacità di toccare tasti profondi – diventati irraggiungibili anche dai discorsi più coerenti e meglio argomentati – diventa solare. Ma che cosa vuol dire vederlo da vicino, in azione? Cosa ci fa capire stare al suo fianco, seguirne i passi mentre incontra, parla, guarda, abbraccia?
Un viaggio con il Papa è un’esperienza che spalanca una finestra, su di lui e sul mondo. E noi vi offriamo di condividerla. Lo spunto è la presenza di un’inviata di Tracce sul volo che ha portato Francesco in Thailandia e in Giappone, qualche settimana fa. Un universo molto lontano dall’“Occidente cristiano”, ma attraversato dalle stesse domande e dagli stessi problemi, che lui ha sintetizzato con un’espressione potente: «La perdita del senso di vivere».
Il racconto approfondito di quella settimana va oltre la cronaca di un viaggio apostolico, per quanto importante: è un’occasione per immedesimarsi di più in lui, nel suo pensiero, nel suo modo di muoversi per rispondere a questo dramma, trasversale alle vite degli uomini. È una possibilità di guardare dove e come guarda, cosa e come segue. Ma è anche un modo per capire meglio da dove nasce la sua paternità, quell’autorevolezza che lo rende capace di risvegliare l’umanità e l’attesa di chiunque (in continuità con il tema che abbiamo affrontato negli ultimi numeri).
È di questo che il mondo ha sete. Lo si vede anche nelle pagine successive del giornale. Dal racconto di una realtà come la Fraternità San Giuseppe, singolare e profonda nel suo modo di rendere presente Cristo nel mondo, alle testimonianze delle lettere, agli accenti che si trovano negli altri articoli. Fino al percorso di un libro appena uscito, che mostra benissimo cosa succede nelle piaghe di un Paese ferito e diviso, come l’Italia degli Anni di piombo, quando è quella stessa testimonianza cristiana a insinuarsi e creare percorsi di riconciliazione. Si spalancano finestre, appunto. E si riapre l’avventura del «senso di vivere»."
Tracce n.10, Novembre 2020
La crepa e la diga
02.11.2020
In sei parole, aveva descritto l’oggi. E lo aveva fatto centocinquant’anni fa, quando pure certe evidenze reggevano ancora e l’incertezza non arrivava alla radice di tutto. Eppure, in quella frase di Friedrich Nietzsche c’è il dramma di ora: «Non esistono fatti, ma solo interpretazioni». Profezia perfetta di un’epoca in cui ci ritroviamo «sballottati» tra mille posizioni, come sottolineava Julián Carrón nella Giornata d’inizio (il “momento di avvio” del lavoro proposto al movimento di CL per il nuovo anno sociale), «senza saper distinguere quale di esse accoglie lealmente i fatti». Non c’è nulla che abbia la forza di sottrarci a una nebbia in cui diventa tutto confuso e incerto: «Nessun fatto ci “prende” al punto tale da farci uscire dalla equivalenza delle interpretazioni. Sembra tutto uguale», diceva Carrón. Aggiungendo una domanda decisiva, perché non è retorica: «C’è qualcosa in grado di sfidare questo assioma?».
La partita, in fondo, è tutta qui. Sui fatti, e su come li guardiamo. Meglio: su cosa ci permette di vederli, di accorgerci della loro portata. Perché di fatti che scuotono e aprono varchi nella nebbia, ne accadono. Tanti. Ne trovate anche in queste pagine. Non sempre eclatanti o clamorosi: il più delle volte sono piccoli («il Signore opera anche a soffi», ricordava don Giussani). Ma significativi – cioè capaci, letteralmente, di indicare un senso, di spalancare prospettive. Basta guardarli. Ed è in quel «basta» che ci giochiamo tutto. Perché dice della nostra disponibilità a lasciarci conquistare.
Nella Giornata d’inizio anno siamo stati rimessi di fronte a un percorso potentissimo, di cui avevamo già parlato nel numero scorso: quello di Mikel Azurmendi, l’intellettuale basco che, colpito dall’incontro con alcune persone di CL, si è incollato a quella “strana tribù” per studiarla a fondo, capirne la natura. Ammirato da quel modo di vivere, per usare la sua espressione, ha iniziato a vedere. Fino a scoprire l’origine di quella diversità che lo affascinava: Cristo. Carrón ha voluto «indicarlo a tutti» perché è una «documentazione di come, in questi tempi in cui il nichilismo dilaga, una persona possa accorgersi – quando accade – di una diversità di esperienza, di ciò che nichilismo non è, e possa stupirsi di sconfiggerlo semplicemente assecondando la prima evidenza, per quanto esile, di quella diversità. È bastata questa crepa per far crollare la diga».
Ecco, in questo numero abbiamo ripreso lo stesso filo, cercandone tracce anche nelle vite di ognuno di noi. Fatti, imprevisti. Un cuore disponibile ad accoglierli. E un cammino di conoscenza che si apre e «allarga lo sguardo», proprio come chiede il Papa nell’ultima enciclica, Fratelli tutti (su cui trovate un percorso di lettura). È questo che tira fuori dalla nebbia, quando accade. E il bello è che accade.
Dici “scuola”, e vengono subito in mente altre parole. “Futuro”, per esempio: qualsiasi società, in qualsiasi momento della storia, il domani se lo gioca lì, in quelle aule. Oppure, “speranza”, parente stretta dell’attesa di felicità che abita il cuore dei ragazzi e di chi vuole loro bene: i genitori, gli insegnanti... La scuola, in fondo, esiste per questo: custodire quella speranza, coltivare quell’attesa, è la sua stessa natura. Bene: se c’è un ambito che la pandemia ha messo in crisi più di altri è proprio quello scolastico. È stato scosso, spiazzato, diviso tra l’esigenza di proteggere i ragazzi (e le famiglie) dal virus e la necessità di non strapparli dal loro mondo, dai legami – fondamentali – con compagni e professori. Da ciò che esiste proprio per farli diventare uomini, cioè in grado di affrontare la realtà anche quando si presenta con il volto imprevedibile di un dramma globale.
Ecco perché la sfida di questi giorni è decisiva. Mentre scriviamo, la riapertura della scuola è ancora in bilico, e non solo in Italia. Si ricomincia, ma la pandemia mette a rischio in qualsiasi momento il ritorno tra i banchi. Orari e spazi, cattedre e classi restano per molti un’incognita. Ma abbiamo deciso lo stesso di parlare della scuola che verrà, per un motivo semplice: qualsiasi volto abbia – in presenza, a distanza o blended, come si usa dire oggi –, il nuovo anno scolastico si porta dietro un bagaglio ricchissimo: l’esperienza degli ultimi mesi. Guardare dentro quel bagaglio, capire cosa stiamo imparando oggi, è decisivo per non perdere l’occasione, per affrontare con più consapevolezza il domani, il futuro. E per accendere, appunto, la speranza.
Che, non a caso, è stata tra le parole chiave di un momento di svolta, in questa strana estate segnata dal Covid: il Meeting di Rimini. Non era affatto scontato che ci fosse, quest’anno. Ma è stata una grazia sovrabbondante vedere che ricchezza di contenuti, incontri, giudizi è seguita alla decisione di rischiare, di provare ugualmente a realizzarlo, in modo nuovo, per offrire un contributo arrivato davvero al mondo intero, anche grazie al digitale. Lo abbiamo raccontato online sul sito, clonline.org (i tempi di chiusura del giornale non ci permettevano altro), e lo riprenderemo di sicuro più avanti. Qui, però, ne offriamo il cuore: l’intervento di Julián Carrón su «dove nasce la speranza». Un dialogo in cui, a un certo punto, è emersa un’espressione di don Giussani che sintetizza bene la partita in corso: «La speranza è una certezza nel futuro in forza di una realtà presente». Quello che serve per crescere. E per vivere.
Tracce n.11, Dicembre 2020
Il soffio di Dio
01.12.2020
C’è una frase di don Giussani che torna spesso, nelle conversazioni e nel lavoro comune delle ultime settimane. Segno di quanto abbia colpito chi l’ha sentita ripetere alla Giornata d’inizio anno di CL (vedi l’ultimo numero di Tracce), ma pure del fatto che la riconosciamo familiare, la vediamo accadere nelle nostre vite. «Il Signore opera anche a soffi». Non si impone con gesti clamorosi: suggerisce, invita, sollecita. Si propone alla nostra disponibilità ad assecondare i fatti che Lui opera. Alla nostra libertà.
Se ci pensiamo bene, pure il Natale è così. Un bimbo, inerme. Venuto al mondo in un angolo sperduto di quel mondo, una provincia marginale e sconosciuta dell’Impero. Meno di un soffio, nella storia. Eppure, è ciò che l’ha cambiata per sempre. Perché rende possibile viverla.
Senza l’Incarnazione, se Dio non fosse presente nella realtà, la vita sarebbe semplicemente impossibile. Si potrebbero, forse, reggerne certi urti – per qualche tempo, e solo per i temperamenti più forti –; ma il respiro della nostra libertà non potrebbe mai allargarsi sotto quegli urti, la pienezza della nostra umanità non potrebbe mai fiorire fino in fondo. Perché sarebbe impossibile vivere fino in fondo ciò di cui siamo fatti: il rapporto con il Mistero, con il Padre. Senza il Figlio – che vive di quello, che è venuto per incarnare, e quindi mostrare a tutti, quel legame decisivo con il Padre – non potremmo mai, a nostra volta, concepirci come figli. O meglio, magari potremmo riconoscerlo teoricamente, in qualche raro soprassalto di una ragione che sembra farsi sempre più fiacca – è un’evidenza che non mi faccio da me, che in questo istante sono generato da qualcun altro che mi vuole –; ma non basterebbe per viverlo, per affrontare la realtà partendo da quella evidenza, mantenendola nella coda dell’occhio e dello sguardo.
«Caro cardo salutis», la salvezza della nostra stessa carne è nell’Incarnazione, dice un’altra espressione, più antica, sentita spesso negli ultimi tempi. Ma serve un’Incarnazione presente, che ci raggiunge ora. Fatti e testimoni che ci sollecitano oggi alla stessa disponibilità, docile e stupita, dei primi, di quei pastori che hanno dato credito a quel misteriosissimo «soffio di Dio».
La vita è piena di testimoni così. Qualche piccolo esempio lo trovate anche nelle prossime pagine. Sono la Sua carne, Dio con noi. Buon Natale!