Come sassolini gettati nell'acqua, tante sono le storie che il sole disegna sulla città: in primis, la vita del più vecchio libraio di Firenze, Rolando Ugolini di Via Sant'Agostino, a cui il libro è liberamente ispirato. Ma all'interno del libro si respira un'aria profondamente femminile. Generazioni piene di donne che lottano in una Firenze dilaniata dalla guerra. Molte storie prendono spunto dal racconto degli anziani che usufruiscono della struttura di "riabilitazione" all'interno della A.S.L. di Scandicci, dove l'autrice lavora. Le loro memorie, còlte fuggevolmente dalla Vezzosi, la loro felicità nel raccontare e raccontarsi, nonostante malattie e debilitazioni, hanno fatto nascere l'idea di dare un 'luogo' a quello che potrebbe essere quasi un loro diario. Così è nato il libro: come un atto d'amore, uno scatto in bianco e nero che ferma l'immagine di un'epoca, dove i gesti semplici della povera gente hanno la forza di rimanere impressionati.
Questo volume nasce dalla curiosità di indagare cosa succede quando due generi letterari di per sé contigui ma distinti entrano direttamente in contatto fra loro. A tale scopo, l'autore ha scelto un caso privilegiato, esaminando il trattamento che un anfitrione molto generoso seppure a tratti polemico (la trattatistica amorosa cinque-secentesca) riserva ad un'ospite particolarmente preziosa (la lirica). Il presente volume offre inoltre un nuovo catalogo dei trattati sull'amore e sulla bellezza cinquecenteschi e primosecenteschi, integrando in più punti le bibliografie precedenti, sia sul versante delle opere a stampa sia su quello dei manoscritti.
Il testo riunisce due grandi personalità della cultura lucchese, Giovanni Pascoli e Felice Del Beccaro. Vi si riscopre lo stretto legame di affetto, di devozione, di partecipe interesse che Del Beccaro dimostrò sempre verso il Pascoli, promovendo tra l'altro le "Letture Pascoliane", curando la collana dei "Quaderni Pascoliani", e dedicando al poeta di Castelvecchio vari studi, alcuni dei più importanti raccolti nel volume Studi Pascoliani. Proprio in uno degli Studi Pascoliani Del Beccaro ha fatto giustamente notare la difficoltà di approntare una convincente biografia pascoliana. È arduo infatti smontare l'immagine oleografica del poeta idillico, virgiliano, immerso in un ambiente di fiori e uccellini, col suo aspetto bonario e goffo del buon fattore, con la sua facile inclinazione al pianto, col suo umanitarismo e la sua mitezza di marca deamicisiana: è un cliché che ha infestato e conquistato generazioni di lettori e di studiosi. Leggendo però le Lettere che Del Beccaro ha qui raccolto, emergono certamente segreti, ombre, che permettono di ricostruire in maniera più spregiudicata la figura del Pascoli negli anni di Castelvecchio.
Nel Cinquecento la canzone petrarchesca è protagonista di un'effimera rifinitura ma i tentativi di ricreare quella magistrale armonizzazione di "gravità e piacevolezza" che si compie all'interno del "Canzoniere" viene a tratti a confliggere con il compito di dare voce alle istanze compassate del dettato e dei contenuti cui il metro disteso sembra primariamente votato per ragioni genetiche e strutturali.
Manzoni tragico è spesso interpretato secondo una linea critica che punta ad evidenziare la componente "cristiana" delle sue tragedie, nelle quali il protagonista si presenta come figura Christi rassegnato ad accettare il proprio sacrificio dopo l'inevitabile e provvidenziale tradimento. In questa luce Manzoni appare sostanzialmente distaccato dal teatro, cui si accosterebbe come epigono del genere tragico: l'interesse consisterebbe proprio nel suo processo di distacco dall'eroico per abbracciare la misura del quotidiano. In realtà il rapporto che egli instaura con questo genere lo pone subito al centro di un dibattito internazionale, mentre le sue tragedie vengono tradotte, ammirate, discusse. Tra scritti teorici e prove concrete infatti Manzoni elabora una forma di tragico capace di rifondere originalmente la propria formazione classica con le suggestioni romantiche derivate dalla contemporanea riflessione filosofica europea: ideando eroi tragici impegnati nel vivo di un'azione storica, politica e militare, egli scava nella loro interiorità e nei loro dubbi metafisici e infine religiosi ben oltre la visione cristiana come unica cifra di riscrittura drammatica. La stessa finale rinuncia al teatro non può leggersi quale presa d'atto di un generico disinteresse: Manzoni, come testimonia l'abbozzo della terza tragedia, continua ad occuparsene anche mentre si dedica alla prima stesura del romanzo.
Il volume raccoglie una serie di saggi, prima pubblicati in inglese, sull'uuso che Ariosto fa dei poeti classici, in particolare di Ovidio e Virgilio; la sua tecnica basata sull'imitazione delle imitazioni; gli effetti della sua discontinuità narrativa; l'esibizione del carattere letterario del poema, il diffuso ricorso alla variatio. L'ultimo saggio mette in discussione la convinzione che l'ultima parte del Furioso prenza una svolta epica.