Sono raccolti in questo volume (che esce purtroppo postumo per l'improvvisa scomparsa dell'Autore, il quale lo aveva comunque corretto e licenziato) alcuni recenti suoi studi danteschi, di cui tre inediti. Con uno stile che riesce magistralmente a corretto e licenziato) alcuni recenti suoi studi danteschi, di cui tre inediti. Con uno stile che riesce magistralmente a coniugare un'esposizione piana e accattivante con la complessità dei temi trattati, Manlio Pastore Stocchi si avvicina sia ad ardui temi teologici, come il problema della salvezza in extremis, della dannazione inconsapevole, ecc., sia a sofisticate questioni astrologiche e biografiche, tese ad esempio a stabilire il giorno natale di Dante o la data precisa del suo viaggio nell'aldilà. Sono pagine di grande finezza, che rendono più dolorosa la perdita di uno studioso di alta levatura e profonda dottrina.
La pandemia dà ragione agli ecologisti, all’idea che l’Homo sapiens abbia devastato la natura e ora ne paghi il prezzo? O al contrario dimostra che gli ecologisti hanno torto, che solo un uomo sempre piú “tecnologico” e “artificiale” può sconfiggere la natura “ostile”?
A partire da queste due opinioni contrapposte ed entrambe correnti, si snoda una riflessione sul pensiero ecologico, che vede l’uomo come “intruso” nel mondo naturale ma al tempo stesso, nel solco di Darwin, come specie animale integrata nei processi evolutivi. Questa contraddizione non ha impedito alle idee degli ecologisti di conquistare l’opinione pubblica, di penetrare nella mentalità contemporanea e soprattutto delle nuove generazioni. Ma di fronte alla pandemia e a una crisi ancora piú grave, quella climatica, gli ecologisti devono sciogliere le loro ambiguità, mettendo da parte pregiudizi e diffidenze verso la scienza e la tecnologia: oppure, da soluzione della crisi ecologica, il pensiero green rischia di diventare esso stesso parte del problema.
Asilo e rifugio per reietti, città promiscua, che cresce accogliendo gli stranieri e i vinti, concedendo la libertà agli schiavi, dove mescolare il sangue non è un tabù, ma una virtù: così appare Roma ai suoi albori attraverso i luoghi della memoria e i miti di fondazione. Lungi dall'essere motivo di imbarazzo, come avrebbero voluto i suoi nemici, questi racconti divennero la pietra angolare sulla quale i Romani costruirono la propria "identità" civile e politica. Molte sono le "Rome" che hanno preceduto quella di Romolo, eppure vi è una costante, una sorta di filo rosso che le unisce tutte: una costituzione "aperta", che si esprime nella capacità di accogliere e integrare lo straniero. I miti delle origini insegnavano che la romanità non scorre nel sangue di chi la possiede, non è, dunque, un dato biologico, testimone di purezza, ma piuttosto un merito culturale, che si guadagna per mezzo delle virtù sociali, adottando valori e modelli di comportamento condivisi, rispettando il diritto, obbedendo alle leggi. Si poteva nascere Romani, ma, cosa ben più importante, lo si poteva diventare.
«Scaltra come una zingara»: così Alberoni definì Elisabetta Farnese (1692-1766) pensando alle sue doti politiche. Regina consorte tutt’altro che passiva e dietro le quinte, la sua figura si presta all’analisi dell’apporto muliebre alla realizzazione della sovranità monarchica europea, in sintonia con l’attenzione della più recente storiografia alla regalità femminile, al ruolo delle regine consorti, nonché all’influenza delle donne nella costruzione delle corti. Le vicende della Farnese vanno infatti ricollocate in un quadro di studi profondamente rinnovato negli ultimi decenni.
In questa biografia si presta quindi attenzione alla formazione della futura regina di Spagna negli anni del tramonto degli antichi stati principeschi italiani, decadenti, ma con corti ancora vivaci e in grado di rappresentare dei modelli culturali e artistici. Proprio il destino della penisola italiana rappresenta il cuore della successiva politica internazionale della regina di Spagna. Si è voluto superare lo stereotipo della “madre ambiziosa”, per cogliere maggiormente i disegni complessivi di Elisabetta. La vita della regina di Spagna ha fatto i conti con i nodi internazionali che caratterizzarono il vecchio continente nella prima metà del Settecento: il conflitto a livello mondiale tra le potenze coloniali della Francia e dell’Inghilterra; la crisi e la resilienza dei paesi mediterranei; l’affermazione prima degli Asburgo di Vienna e l’emergere poi della Prussia come nucleo tedesco alternativo all’interno dell’Impero. È in questo quadro assai complesso che Elisabetta Farnese attuò un’attenta politica volta all’affermazione della dinastia. Fu soprattutto grazie al suo operare, energico e non sempre convenzionale, che nacquero numerose branche della famiglia dei Borbone, destinate a dominare con tratti assai comuni l’Europa della seconda metà del Settecento.
Templari e francescani nacquero dal tentativo di fornire un orizzonte nuovo alla religiosità laicale. Entrambi, benché in tempi diversi, mantennero uno stretto legame con la Terrasanta, custodendone i luoghi in favore dei pellegrini, armati e non. Dal loro confronto emergono notevoli somiglianze ma anche differenze sostanziali, pur nella continuità e nella tensione tra crociata e missione, che entrambi incarnavano. L'ideale "passaggio di testimone" dall'uno all'altro ordine avrebbe portato, nei primi decenni del Trecento, alla fondazione della Custodia Terrae Sanctae - ancora oggi attiva -, istituzione che avrebbe raccolto il legame profondo instaurato coi Luoghi Santi dal Tempio sino alla sua soppressione, nel 1312. Per entrambi gli ordini, la Terrasanta rivestiva un ruolo particolare; un ruolo troppo spesso banalizzato nel tradizionale accostamento degli uni alla guerra e alla difesa del territorio, degli altri alla pace (se non a un anacronistico "pacifismo"). Questo libro mostra come la realtà fosse piú complessa, raccontando la storia del rapporto fra templari e minori, tra laicato cristiano, crociata e Terrasanta.
Dieci milioni di morti fra uomini, donne e bambini. È il bilancio della peste antonina che, sotto il principato di Marco Aurelio, flagellò l'Impero romano all'apice della sua potenza. Alcuni storici del mondo antico considerano questa epidemia la causa remota della gravissima crisi che avrebbe travolto la Roma dei Cesari; ma tutti ne circoscrivono la portata entro i limiti dell'Impero. Oggi però, la diffusione delle infezioni di origine zoonotica, di cui il Covid-19 è la variante piú recente, ha indotto a riconsiderare la questione da una visuale differente: quella dei virologi. Ponendo a confronto le fonti storiografiche latine e quelle della Cina degli Han, emerge un nuovo quadro: la peste antonina arrivò in Occidente dalla Cina imperiale tramite l'incrocio in Persia fra i legionari romani in guerra coi Parti e i mercanti cinesi in pianta stabile a Baghdad. Questa ipotesi traccia un itinerario epidemiologico analogo a quello del Covid-19 disegnando uno scenario in cui la pandemia che ci affligge apparirebbe come l'ultimo ritrovato di un tipo di infezione animale-uomo risalente almeno a due millenni fa. Se cosí fosse, la peste antonina andrebbe considerata come la prima pandemia documentata della storia e da essa, forse, abbiamo ancora qualcosa da imparare. Con una prefazione di Kyle Harper.
L'Impero romano d'Occidente, diviso da quello d'Oriente da fratture sempre più rilevanti e ridotto nelle sue dimensioni, confidava ormai per la sua sopravvivenza su truppe germaniche mercenarie, potenzialmente agguerrite, ma fedeli in prima istanza ai loro comandanti. Odoacre, che governò l'Italia con il titolo di re e riconobbe l'autorità suprema ed esclusiva dell'imperatore di Costantinopoli, era uno di questi. Fu lui a deporre Romolo Augustolo nel 476, ultimo atto di una serie di eventi, in alcuni casi drammatici, che scandirono la caduta di Roma a partire dall'inizio del V secolo d.C. Questo libro racconta la crisi politica, economica e militare, che investì l'Impero romano d'Occidente sino alla sua caduta "silenziosa" nel 476, evento conclusivo della storia della più grande potenza del mondo antico.
Un'assolutista travestita da illuminista? O l'interprete più coraggiosa della vicenda storica della Russia, capace di tradurre le idee più avanzate della seconda metà del Settecento in una proficua stagione di governo? Fin dalla sua ascesa al trono Caterina II di Russia è stata prigioniera di un mito contraddittorio. Nel delineare la sua figura non sempre è stato facile per i biografi sottrarsi al fascino delle leggende accumulatesi attorno al suo personaggio e alla sua opera: quelle che la dipingono come la «Messalina del nord», la sovrana dall'appetito sessuale smisurato; o, di contro, quelle che la raffigurano come la monarca "illuminata" autrice del 'Nakaz', l'Istruzione in cui sintetizza le idee dei 'philosophes', e come colei che è riuscita a liberare per sempre l'Europa dal pericolo degli Ottomani. In questa biografia politica, l'autore ricostruisce dapprima la formazione personale di una Caterina che cerca di sovvertire le regole scritte e gli usi della tradizione per trovare la propria identità, le radici delle sue convinzioni e delle sue scelte; e poi percorre le tappe fondamentali - di cui rivela aspetti poco noti e retroscena inediti - di un regno che si è intrecciato con quel processo di trasformazione dell'impero russo da monarchia tollerata nel concerto degli Stati europei a potenza in grado di gettare un ponte verso il continente asiatico. Ma racconta anche i successi e i fallimenti di un'intera generazione politica alle prese con trasformazioni destinate a mutare il volto di una società di Antico regime rigidamente divisa in ordini. Così i rapporti mutevoli e ambivalenti della zarina con l'Europa occidentale sono posti in una prospettiva originale che spinge a interrogarsi sulla storia della Russia e sul suo ruolo nella costruzione dell'identità europea. l'indice, possa scomporre e ricomporre il testo affrontando i temi secondo la priorità d'interesse.
Non sono molti nella storia i personaggi come Alcibiade, capaci di generare odi e amori tanto potenti da smuovere l'interesse appassionato degli storici a distanza di due millenni e mezzo. All'uomo politico possono essere mosse accuse fortissime, come quella di esser stato animato solo dalla sete di potere o di aver tradito la propria città. Ma tutto questo sfuma di fronte all'uomo Alcibiade, al "cucciolo di leone" del quale parla Aristofane, odiato e idolatrato dal suo popolo. L'uomo adottato da Pericle fu in effetti una personalità ambivalente, a cavallo tra poli opposti a livello pubblico e privato: un aristocratico che ha fatto una scelta democratica, ma anche l'esponente di una politica slegata dall'idea di servizio alla comunità. Le sue doti intellettuali erano formidabili, come d'altra parte la sua eloquenza e la simpatia che lo circondava, non a caso fu allievo e amante di Socrate. Quasi impossibile non amare un personaggio così eccezionale, smisurato nelle ambizioni così come nel carattere. Capace di concepire piani grandiosi, fu poco efficiente nel portarli a termine, per questo fu costantemente esposto alle altalenanti sorti, in termini di consenso, di chi molto promette e nulla mantiene. Volle troppo e perse tutto, prima fra tutte la sua credibilità, in un tempo in cui etica e politica erano ancora congiunte.
A non molta distanza dalla stazione Termini, il profilo urbano di Roma è segnato dalla presenza di imponenti resti, integrati nelle mura della città: è tutto ciò che rimane del perimetro dei castra praetoria, la caserma che alloggiava le coorti pretorie. Ma chi erano i pretoriani? Gli storici antichi, senatori animati per lo più da sentimenti ostili nei confronti del regime imperiale, non esitavano a considerarli lo strumento di repressione utilizzato dai Principi per schiacciare l'antica libertas repubblicana, quando non addirittura una soldataglia interessata soltanto ad accrescere i propri privilegi. Ancora oggi l'immaginario comune, nutrito dalla vulgata di certa fiction, tende a vedere nei pretoriani gli sgherri in uniforme di imperatori crudeli e pazzoidi: una muta di spietati cani da caccia sempre pronti a mordere persino la mano di chi li nutriva. Questo volume si propone di ampliare la visuale sulle fonti, per meglio definire il volto degli uomini - soldati, tutori dell'ordine, funzionari - che marciarono sotto l'insegna dello Scorpione.
Si può immaginare un Napoleone giardiniere, con un largo cappello di paglia e un comodo camicione di lino per difendersi dal sole, che zappa e innaffia nella illusoria speranza di far crescere le sue stentate piantine al caldo e all'umido dei Tropici? A Sant'Elena Napoleone fu anche questo. Allontanando i fantasmi del passato, impastati di gloria e di sconfitta, egli usò il lungo esilio per guardarsi dentro, lavorare sulla memoria, scoprire la vastità di uno spazio interiore, dopo che gli spazi non meno vasti ai quali lo avevano abituato le sue imprese si erano ridotti progressivamente a una isola minuscola, a un giardino intorno casa e, quando tutto sta per finire, a una stanza, l'ultima.