La storiografia antica ha dato dell'imperatore Commodo un giudizio decisamente negativo, come è avvenuto per Caligola e Nerone, mostrandolo come un giovane non solo inesperto ma anche inetto, del tutto inconsapevole della grande responsabilità del suo ruolo a cui preferiva il lusso, i vizi di una vita smodata e la sua sfrenata passione per i giochi gladiatori. Commodo, ancora troppo giovane quando divenne imperatore, non possedeva certo l'auctoritas del padre Marco Aurelio e le qualità di leader politico di altri imperatori della dinastia degli Antonini, ma non era però così debole di carattere e indolente come gli autori antichi tendono a rappresentarlo. Ad ogni modo, la fine del suo principato segnò l'inizio del declino dell'Impero romano, immerso in una crisi che nei decenni a venire diverrà sempre più irreversibile.
Roma, da piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, divenne un grande Impero grazie alla portata fortemente innovativa della sua civiltà; fin dalle sue origini mostrò una grande capacità di integrare a sé le popolazioni conquistate e lo straniero, concedendo loro la cittadinanza romana. In tal modo Roma assunse, per un'intera epoca, il primato di centro politico e culturale, tollerando e facendo convivere nei propri confini popoli di diverse lingue e religioni, usi e costumi. In questa chiave Roma può rappresentare ancor oggi un modello di riferimento per l'Italia e l'Europa, per aver saputo gestire la complessità di una globalizzazione ante litteram e averla trasformata in un punto di forza.
Il giovane Gaio Giulio Cesare Germanico, meglio conosciuto come Caligola, ha avuto un breve regno come imperatore di Roma, poco meno di quattro anni, ma è passato alla Storia come un tiranno pazzo e crudele. La figura di Caligola è una di quelle tra gli imperatori romani che maggiormente sopravvivono ancor oggi, anche perché il suo principato fu da sempre percepito come una vera e propria parabola dell'abuso di potere e della tirannia senza freni e limiti. Sulla scia della storiografia degli ultimi anni, che mette in discussione il ritratto parossisticamente negativo di Caligola trasmesso dagli autori antichi, questo volume delinea la sua complessa personalità, affrancando - almeno in parte - l'immagine di un principe ritenuto folle, cercando di individuare un disegno politico coerente nei quasi quattro anni del suo principato. Caligola, pur non essendo pazzo, stando al racconto delle fonti, presenta il profilo di uno psicopatico nel senso clinico del termine: egli era a tal punto preso dal senso della propria preminenza da non sentire alcuna responsabilità morale e nessun freno. Questa cieca furia era probabilmente il risultato delle tragiche esperienze vissute nella prima giovinezza e del brusco passaggio da un anonimato trascorso in una sorta di carcere dorato alla corte di Tiberio a quello di princeps dell'Impero romano, con un potere pressoché illimitato, che nel breve volgere di pochi mesi lo portò a una visione del mondo totalmente egocentrica. Il principato di Caligola rappresentò la palese dimostrazione che l'assetto istituzionale creato da Augusto rischiava di degenerare in potere assolutistico dinnanzi ad un princeps dalle tendenze dispotiche.
Nella Roma imperiale pochissimi furono gli imperatori che seppero distinguersi sul campo di battaglia per valore e per le loro gesta. Tra questi spicca senza dubbio Traiano, primo imperatore proveniente da una provincia, che con le sue conquiste seppe portare l'Impero alla sua massima estensione territoriale. Traiano fu protagonista di memorabili successi militari, come la conquista della Dacia del re Decebalo, arrivando a essere paragonato ad Alessandro Magno per aver esteso sino a Oriente i confini dell'Impero con l'annessione dell'Arabia, dell'Armenia, dell'Assiria e della Mesopotamia. Ma si distinse anche per i provvedimenti in campo politico, economico, sociale e urbanistico, dimostrandosi un abile politico, un attento e lungimirante amministratore. Traccia immortale del suo governo sono la Colonna traiana e i Mercati traianei. In ragione di ciò Traiano è considerato - insieme ad Augusto - uno dei più grandi imperatori della storia di Roma, nonché uno degli statisti più virtuosi e completi della Storia.
Il Vangelo narra che il corpo di Gesù, deposto dalla croce, fu composto in un lenzuolo - in greco sindon - che fu poi trovato vuoto nel sepolcro. Che tracce ha lasciato di sé nei secoli questo prezioso telo? Gli autori di questo volume ripercorrono gli spostamenti del Sacro Lino, oggi conservato a Torino, da quando appare in Francia a metà del XIV secolo, fra guerre e rivendicazioni, occultamenti e venerazioni, fotografie e analisi scientifiche. Una datazione eseguita nel 1988 collocò l'origine della stoffa nel Trecento, ma quest'analisi non è stata esente da critiche; le antiche raffigurazioni di Cristo appaiono ispirate dalla Sindone, suggerendo così che il venerato lino sia ben più antico. Altre datazioni hanno riportato l'origine della Sindone all'epoca di Cristo. Dove è stata conservata prima della sua comparsa in Europa? Gli autori sono risaliti fino al misterioso panno chiamato Mandylion, nascosto a Edessa, una città nel sud-est dell'attuale Turchia: molti indizi permettono di dedurre che fosse in realtà la Sindone. Questo libro vuole essere dunque un viaggio avventuroso attraverso le ricerche storiche e scientifiche condotte sulla Sindone, per capire ciò che ormai è stato appurato e affacciarsi sulla soglia dei misteri ancora da svelare; un viaggio durante il quale le scoperte sorprendenti che vi attendono non vi deluderanno. Si ripercorrono i primi secoli alla ricerca di indizi della sua esistenza e si confronta l'analisi dell'impronta lasciata dal cadavere con ciò che è noto dalle fonti romane sulla crocifissione e dai Vangeli sul momento della deposizione del corpo di Gesù nel sepolcro. Così che il viaggio si conclude nel luogo da cui è partito.
All'alba del II secolo d.C. con due successive campagne militari l'imperatore Traiano vinse e conquistò la Dacia (un dipresso il territorio dell'attuale Romania). Fu l'ultima conquista duratura dell'impero; una conquista importante per il radicamento romano nell'area danubiana e anche per il rafforzamento politico del suo artefice, Traiano. Il ricordo dell'impresa è eternato nei bassorilievi della Colonna Traiana, che costituisce la fonte maggiore per la sua conoscenza. Il volume racconta lo svolgimento delle guerre daciche collocandole nel più ampio contesto della storia sia dell'area danubiana, sia dell'impero romano, seguendo le vicende della Dacia sino a quando essa venne abbandonata dai romani alla fine del III secolo.
L’armatura perduta è l’avvincente racconto di come ancor oggi l’archeologia possa riservare straordinarie scoperte, quale quella fatta da Livio Zerbini, valente studioso del mondo antico, in uno degli scenari paesaggistici e storici più affascinanti e suggestivi: la Colchide , l’antica regione, affacciata sul Mar Nero, il cui nome evoca immediatamente il mito di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro.
Le pagine del libro non soltanto ripercorrono e ricostruiscono le fasi salienti dell’eccezionale scoperta archeologica, un’antica armatura, completa ed in ottimo stato di conservazione, ma rappresentano una sorta di viaggio a ritroso nel tempo nell’antica Colchide, in cui la dimensione del mito si percepisce ancora e sembra quasi insita negli stessi luoghi, e in cui l’archeologia, proprio per l’insufficienza di scavi sistematici, risulta ancora inevitabilmente ammantata di quel fascino del mistero della scoperta.
Ma la scoperta, pur se di grande rilevanza scientifica, è di per sé l’occasione per raccontare un viaggio in una terra dall’incontaminata bellezza, che ancora preserva inesplorati tesori archeologici.
Questa terra, così densa di storia, oltre a conservare paesaggi incontaminati di assoluta e straordinaria bellezza, rappresenta un vero e proprio scrigno di tesori archeologici ancora tutti da scoprire. È il caso della straordinaria scoperta fatta dall’autore del libro, Livio Zerbini, dell’Università di Ferrara, insieme a Vakhtang Licelli, dell’Università di Tbilisi. Nella provincia di Samtskhe, a sud dell’attuale Georgia, in un territorio per molti secoli di grande importanza strategica, attraversato dal fiume Mtkvari, tra i villaggi di Tsunda e Tmogvi, lungo il percorso fatto da Pompeo Magno per giungere in Colchide, all’interno di una vallata ben celata e nascosta, in cui sembra che il tempo si sia fermato per sempre, si trova un’imponente necropoli, composta di innumerevoli tombe, che datano dall’età del bronzo al III secolo, che costituirà, senza alcun dubbio, una delle più interessanti aree archeologiche degli anni a venire.
L’armatura perduta è pertanto la palese dimostrazione di come molte rilevanti scoperte archeologiche possano ancora venire alla luce, e sottrarsi così all’oblio del tempo nel quale erano inevitabilmente cadute, e nel contempo concorrere a dare la giusta dimensione e fisionomia a quell’immensa galleria di fatti, avvenimenti e personaggi che hanno animato il grande palcoscenico della storia.
Livio Zerbini insegna Storia Romana presso l’Università degli Studi di Ferrara, dove è responsabile del Laboratorio sulle Antiche province Danubiane. Dirige una missione archeologica nella Colchide. Ha pubblicato numerosi lavori sull’economia, la società e il popolamento nel mondo romano e sulla didattica della storia antica. Tra i suoi libri recentemente editi, si ricordano: Demografia, popolamento e società del delta padano in età romana (Ferrara 2002), La città romana (Firenze 2005), Insegnare l’antichità (Roma 2006), L’ultima conquista (Roma 2006) e con Rubbettino La Dacia romana (Soveria Mannelli 2007) e Pecunia sua (Soveria Mannelli 2008). È autore di documentari e consulente scientifico di trasmissioni radiotelevisive.