Il volume fornisce - attraverso un lavoro di esegesi scientifico e approfondito, e tuttavia ben comprensibile per ogni tipo di lettore - un quadro di come sia affrontato il problema e delle problematiche del racconto biblico. Per l'Antico Testamento l'analisi ha affrontato la storia di Giuseppe (Gen 37-50), il quale deve vivere tante situazioni anche molto dolorose. Alla fine Giuseppe loda Dio (che mai interviene direttamente nel racconto), perché grazie a tutto ciò che gli è accaduto egli può salvare la sua famiglia. Il libro di Giuditta inscena lo scontro tra due divinità: il Dio di Israele e il re Nabucodonosor, la cui adorazione è incompatibile con Dio. Alla fine, Israele ottiene la vittoria per mano di una donna, Giuditta, la quale - sola - si mostra saggia e timorata di Dio. Per il Nuovo Testamento si è visto che, all'inizio, viene proclamata la fede nella risurrezione del Cristo. I racconti nascono in seguito, per mostrare meglio il grande dono di fatto da Dio, con la evidenza che ogni evangelista sottolinea aspetti diversi, a seconda della propria visione teologica.
Il libro, grazie alla bella traduzione "alla lettera" dal testo ebraico di Gianpaolo Anderlini ed al puntuale commento di Luigi Rigazzi, presenta, la prima parte del Deuteronomio, dal versetto iniziale fino a Dt 11, 25. La scelta operata dagli autori è stata di affrontare la traduzione e il commento del testo secondo la ripartizione seguita dalla tradizione ebraica. In questo volume sono analizzate le prime tre "sezioni" di Deuteronomio/Devarìm: Parashàt Devarìm (Dt 1,1 - 3,22); Parashàt Wa'etchannàn (Dt 3,23 - 7,11); Parashat 'Eqev (Dt 7,12 - 11,25). Il commento affronta i diversi aspetti esegetici e teologici che il testo propone e sottende e ne invita ad approfondire la lettura e lo studio, perché, come afferma Francesco Rossi De Gasperis: "E' questo uno dei libri più belli della Bibbia, perché ci offre una meditazione sugli inizi della storia e della fede di Israele, più profonda e matura di quella contenuta nei primi racconti di essi".
La storia viene considerata non come lo svolgimento di leggi immanenti, ma come un perpetua creazione di Dio e in alcuni momenti quest'opera si manifesta con maggiore intensità, con un'eccedenza, un sovrappiù di gloria. Sono i miracoli. In questo senso sono fondamentali due fatti dell'Antico e del Nuovo Testamento: l'esodo e la venuta di Gesù. Al primo è connessa la fondazione del popolo di Dio e al secondo la nascita della comunità ecclesiale.
È noto che la fede non può essere ridotta ad una serie di certezze e non è una bacchetta magica al cui tocco tutto si risolve, ma è sempre esposta o percorsa da incertezze, interpellata o posta in discussione. La fede può essere messa alla prova e questo “esercizio spirituale” può coinvolgere lo stesso credente. Per tanti la fede è un dono non cercato, anzi ricevuto passivamente; è un dato familiare tradizionale, che in seguito va riscoperto perché diventi fondamento della propria vita cristiana. È questo il momento in cui il dono ricevuto diventa pregnante, vitale, decisivo per la maturazione di una fede più consapevole ed ecclesiale. Il cristiano aderisce così ad un annuncio che in qualche modo lo ha raggiunto; poi, in certe situazioni della vita, scopre la verità di quanto ha accolto e ne avverte la grandezza.
1. IL DONO COME PROVA
- Abramo e Sara
prof. ANTONIO NEPI, Professore di Antico Testamento presso “Istituto
Teologico Marchigiano” - Fermo / Ancona;
2. LA PROVA: PROVOCAZIONE, DONO E RIVELAZIONE
prof.ssa BENEDETTA ROSSI, Professoressa di Antico Testamento presso
la “Pontificia Università Urbaniana” - Roma;
3. IL MAESTRO MESSO ALLA PROVA:
GESÙ ARRIVA NEL TEMPIO DI GERUSALEMME
prof. ERMENEGILDO MANICARDI, Professore di Nuovo Testamento
presso la “Pontificia Università Gregoriana” - Roma;
"Provare per credere” è un aforisma popolare che invita a compiere certe azioni per convincersi del loro esito; è un titolo dato tentando di incuriosire gli affezionati o possibili frequentatori dei nostri incontri. Ma al di là di questo, ciò su cui invitavamo a riflettere è stato ed è il tema della “prova”.
È noto che la fede non può essere ridotta ad una serie di certezze e non è una bacchetta magica al cui tocco tutto si risolve, ma è sempre esposta o percorsa da incertezze, interpellata o posta in discussione. La fede può essere messa alla prova e questo “esercizio spirituale” può coinvolgere lo stesso credente. Per tanti la fede è un dono non cercato, anzi ricevuto passivamente; è un dato familiare tradizionale, che in seguito va riscoperto perché diventi fondamento della propria vita cristiana. È questo il momento in cui il dono ricevuto diventa pregnante, vitale, decisivo per la maturazione di una fede più consapevole ed ecclesiale. Il cristiano aderisce così ad un annuncio che in qualche modo lo ha raggiunto; poi, in certe situazioni della vita, scopre la verità di quanto ha accolto e ne avverte la grandezza.
Nell’antichità, quando il cristianesimo era ancora un fenomeno minoritario all’interno di un contesto culturale pagano, l’atto di diventare cristiani poteva essere visto come un rischio; un rischio che valeva la pena di correre, ma pur sempre un rischio. Rischio di emarginazione sociale, di persecuzione e persino di martirio. In quel contesto la fede era una “prova” di per sé. Ma quando avvenne il mutamento di statuto del cristianesimo all’interno dell’impero romano per essere promosso al rango di religio licita, la prova non venne meno. Cambiò la sua forma: il cristiano non doveva più attendersi prigioni, interrogatori, torture. Pur non essendo più cruento, non per questo era meno pericoloso, come testimonia Ilario di Poitiers (c. 310-367 d.C.): «Combattiamo un persecutore insidioso, un nemico che lusinga... Non ferisce la schiena con la frusta, ma carezza il ventre; non confisca i beni dandoci così la vita, ma arricchisce, e così ci dà la morte; non ci spinge verso la vera libertà imprigionandoci, ma verso la schiavitù onorandoci con il potere nel suo palazzo; non colpisce i fianchi, ma prende il possesso del cuore; non taglia la testa con la spada, ma uccide l’anima con l’oro e il denaro» (Liber contra Constantinum 5). La “prova” della fede diventa così la «lotta della fede» (1Tim 6,12), lotta che nasce dalla fede, che avviene nella fede e che tende alla fede, alla sua salvaguardia e al suo irrobustimento (cf. 2Tim 4,7). Lotta interiore contro le dominanti che seducono il cuore dell’uomo inducendolo all’idolatria, lotta costitutiva di tutta la vita cristiana e connessa col battesimo, come scriveva P. F. Beatrice nel 1992: «Il rivestirsi di Cristo nel battesimo comporta, per l’Apostolo, l’impegno di rivestirsi di un abito di vita rigenerata per entrare nella gloria di Dio e, poiché ciò non è realizzabile senza una continua tensione morale che si può paragonare a una lotta o a un continuo combattimento, con il battesimo il cristiano si impegna a rimanere sempre in tenuta militare, a indossare cioè quelle forze carismatiche che Paolo chiama “armi di giustizia” (Rm 6,13-14) e “armi di luce” (Rm 13,12); in definitiva, come suggerisce quest’ultimo testo, per combattere contro le forze del Male bisogna rivestirsi del Signore Gesù Cristo (Rm 13,14: “Rivestite il Signore Gesù Cristo”)» (L’eredità delle origini, Saggi sul cristianesimo primitivo, Genova, 150).
Questa lotta appare necessaria. Non si rivolge contro uomini, né si svolge con armi mondane. Le armi fondamentali sono la fede, la speranza e la carità (cf. 1Tess 5,8; Ef 6,16; 1Tm 4,10). Anzi, la fede è condizione e fine di tale lotta. Occorre lottare con fede fiduciosi in colui che ha vinto la morte e il diavolo «che della morte ha il potere» (Eb 2,14), ma occorre anche lottare per conservare la fede (2Tim 4,7). Questa lotta la si combatte in Cristo e con armi spirituali (Ef 6,10; 2Cor 10,3-5); necessita di vigilanza e perseveranza (Ef 6,18; Eb 12,1), di sobrietà (1Tess 5,6.8), di temperanza (1Cor 9,25), di rinuncia e di capacità di dominio del corpo e di tutta la persona (1Cor 9,27), della capacità di soffrire per il Signore (Fil 1,29-30; Eb 10,32-33), della pazienza per esercitarsi alla pietà (1Tim 4,8), della preghiera (Ef 6,18-20). Combattere questa lotta rende il credente temprato, provato, saldo nella fede.
dall'introduzione di Alberto Bigarelli