La tesi di questo saggio è sorprendente e provocatoria: la nostra epoca è quella del compimento di una estetizzazione del mondo; è addirittura possibile definire il sistema globale nel quale viviamo un «capitalismo artistico», quasi che alla fine si fosse realizzato l'antico ideale: «bisogna ammetterlo, il capitalismo ha creato un uomo estetico», vale a dire «un iperconsumatore che ha uno sguardo estetico e non utilitaristico sul mondo». Le avanguardie, la sperimentazione, le attività artistiche, diversamente che nel passato, sono oggi integrate nel sistema produttivo ed è il sistema produttivo stesso a moltiplicare gli stili. E così non perché il Bello sia offerto al «pubblico» quale semplice orpello pubblicitario, o a mo' di ornamento volto solamente a camuffare la pochezza intrinseca del prodotto. Ben oltre questo, il Bello è divenuto un vero e proprio fattore produttivo su cui impegnare capitali: «nessuna sfera è risparmiata dall'investimento estetico». Si è arrivati al presente stadio di estetizzazione del mondo attraversando un itinerario storico, che gli autori ricostruiscono in quattro tappe dall'antichità all'Ottocento, fino ad oggi. A ciascuna di esse è dedicata una analisi che individua per ogni epoca il tipico rapporto della società data con il Bello, con i fini estetici e la produzione estetica. Ma Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, ben riconoscendo i contributi del capitalismo alla estetizzazione del mondo, non ne fanno un'esaltazione. Il loro saggio unisce economia, sociologia, antropologia dentro l'orizzonte di una tagliente critica sociale. Ed essa dimostra come questo capitalismo artistico possa essere una macchina che distrugge la sostanza umana della società, quanto da esso «la buona vita sia minacciata».
«Ho deciso di selezionare, da un diario che conta più di ottocento pagine, cominciato nel 1965 e terminato nel 1989, delle scene tratte dal Mondo tutto mio», così Greene definiva il mondo dei suoi sogni. «In un certo senso è un'autobiografia, che inizia con la Felicità e termina con la Morte». Il taccuino sempre sul comodino accanto al letto, Graham Greene aveva l'abitudine di appuntarsi i sogni appena fatti (un'eredità di antiche sedute con lo psicanalista) per poi ricostruire la mattina dopo. Poco prima di morire, dall'enorme materiale, ne scelse alcuni, raggruppandoli in categorie. Il risultato, Un Mondo tutto mio, è l'ultimo suo libro. E non è soltanto la testimonianza, la memoria della sua vita onirica, con tutti i collegamenti che questa poteva avere con una vita da sveglio complicata e strabiliante quale la sua (tra viaggi, spionaggio, noia e depressione, amori, guerre, scommesse con la morte), e con tutti gli scambi con la creatività geniale di uno dei più originali scrittori del Novecento. Si legge come un libro estremamente avvincente prendendolo proprio come racconto, come pura narrativa. Vuoi perché dai suoi sogni Greene traeva continuamente contenuti: «I temi dei romanzi di Greene», scrive Vittorio Lingiardi nella sua Nota, «sono pura materia psichica. Certo, ci sono i conflitti sociali e politici che esplodono in tutto il mondo, ma con loro esplodono anche quelli personali: l'antagonismo, la lealtà e il diritto alla slealtà, il tradimento, il ritorno delle esperienze infantili, soprattutto del rapporto padre-figlio. Non c'è romanzo di Greene che non preveda soluzioni oniriche». Vuoi perché, raccontando sogni, era come se toccasse il punto ideale dello scrivere: descrivere una storia totalmente fantastica, inventata, del tutto separata dalla realtà, avendo però un ancoraggio oggettivo, una sua realtà al di là delle intenzioni di chi la scrive. Come si legge nella Postfazione di Domenico Scarpa: «Se esiste un libro lieve, brioso, energetico, se esiste un libro che esprima libertà allo stato puro, è proprio Un Mondo tutto mio. C'era in Greene il piacere di fare ciò che è la quintessenza del mestiere di scrittore: invitare il lettore a entrare in una intimità realmente accaduta in ogni dettaglio, ma inesistente nella realtà».
Un ragazzino di undici anni non ha mai visto una donna nella sua vita. Accade allora che la prima volta che ne incontra una la sorpresa è così grande da farlo scoppiare in lacrime. Quel ragazzo ha vissuto per otto anni all'interno di un Parco Safari abbandonato, e conosce solo il padre, il fratello, lo zio e un ex militare, al tempo stesso amico e servitore. Gli è stato detto che sono gli unici sopravvissuti, che non ci sono contatti col mondo, che sono in attesa di un cenno da parte di Dio e che in questo luogo non è ammesso né piangere né pregare. Dopo la morte della moglie, il padre ha deciso di troncare ogni legame e ha scelto di esiliarsi in quel posto remoto e inaccessibile convincendo i familiari che il mondo che li circonda è scomparso. Jesusalém, questo è il nome che gli viene dato, è un luogo apocalittico, un Paradiso alla rovescia, dove l'uomo si è costruito un suo microcosmo per riuscire a dimenticare la realtà che gli ha portato solo dolori, dominata dal caos e dalla violenza. Il fratello maggiore ha dei vaghi ricordi del passato e del mondo esterno, al quale vorrebbe tornare. Per questo mantiene un legame con ciò che si sono lasciati alle spalle e ne fa partecipe il fratello minore, insegnandogli in segreto a leggere e a scrivere. Il bambino subisce il delirio di annientamento del padre e ne diventa complice, ma trova una segreta via di fuga nella scrittura...