Il libro di Achille Giovanni Cagna, uscito originariamente nel 1891, fu riproposto da Gobetti nella edizione del 1894, completamente rifatta dall'autore, che per quella del 1925 introdusse ancora alcune varianti. Intessuto di motivi autobiografici, il romanzo racconta della rinuncia all'amore ostacolato dagli interessi e dalle convenzioni sociali, e mette in scena un "tipo" che ritorna nella narrativa di Cagna: quello del giovane innamorato e povero, spesso dotato di qualità artistiche incomprese, capace poi di riscattarsi e di farsi valere in società. La lingua usata attenua lo sperimentalismo plurilinguistico, di ascendenza faldelliana, tipico di certe pagine di 'Provinciali' e di 'Alpinisti ciabattoni'.
Nel 1924 Achille Giovanni Cagna (1847-1931), proponeva a Gobetti la riedizione di alcune sue opere, che intendeva presentare nuovamente nel panorama letterario italiano. 'Alpinisti ciabattoni', considerato oggi il suo capolavoro, uscì nel 1925, in edizione riveduta rispetto alla prima versione del 1888 e a quella "italianizzata" pubblicata presso Hoepli nel 1903. Una coppia di maturi bottegai in vacanza sul Lago d'Orta è travolta da un'odissea di fastidi, noie e fatiche, tra un'umanità vacanziera colta con umorismo nelle sue pose e nelle sue manie. Esponente della scapigliatura piemontese, per Cagna fu decisivo l'incontro con Giovanni Faldella, che però seguì con una sua originalità, in una ricerca linguistica sperimentale apprezzata dalla critica novecentesca.
Usciti nel dicembre del 1930, "I giorni incantati" inauguravano la collana "Nostro Novecento", promossa dallo stesso Fallacara con l'intento di adunare scrittori cattolici che, attenti alle nuove forme letterarie, rimanessero però fedeli alla concezione scolastica dello splendor veri, così da rendere la propria arte "espressione di tutto l'uomo".
Il romanzo 'Provinciali' di Achille Giovanni Cagna, apparso a Milano per la prima volta nel 1886, inaugurava - nella biografia dello scrittore - una vitale stagione narrativa caratterizzata dall'influenza di Giovanni Faldella, con il quale ebbe una forte contiguità di temi e di stile. Nonostante fosse uscito già in due altre successive edizioni, il libro fu riproposto dall'autore a Gobetti nel 1924, sicché il giovane editore poté utilizzare le copie invendute dell'edizione del 1903 cambiandone la copertina. Nell'opera troviamo una felice invenzione linguistica impiegata per rappresentare la vita pubblica e privata di una città di provincia (Villalbana, alias Vercelli) prevalentemente ritratta nei toni parodistici e caricaturali che furono segnalati, all'indomani dell'uscita del volume nel 1925, dal giovane Eugenio Montale.
Le narrazioni di sé di Vico e Croce e le intenzioni ad esse sottese consentono di ravvisare nell'autobiografia intellettuale una tipologia di scrittura filosofica che adotta una modalità comunicativa centrata sulla ostensività di un sapere che si fa azione e pratica di vita e sulla esortazione più o meno implicita, rivolta al lettore, a condividere liberamente e magari a ripetere in tutto o in parte l'itinerario esistenziale e professionale dell'autobiografato. Questo paradigma viene confermato dal Progetto di Giovanartico di Porcìa, ripubblicato nell'Appendice I, e si mostra efficace nel saggio, presentato nell'Appendice II, su di una diversa autonarrazione intellettuale: 'Le mie prigioni' di Silvio Pellico.
Il poeta Pananti, in odore di giacobinismo e quindi inviso alle autorità del Granducato di Toscana, agli inizi dell'Ottocento aveva abbandonato la madrepatria e aveva soggiornato dapprima in Francia e poi in Inghilterra. A Londra era diventato membro del rinomato Teatro Italiano. Una volta deciso a far ritorno nello Stivale, era stato raggirato da due lestofanti suoi connazionali, i quali dopo avergli sottratto i risparmi lo avevano imbarcato su un malandato brigantino. Quasi in vista della Sardegna, la nave era stata assalita dai pirati barbareschi e ciurma e passeggeri erano stati tradotti ad Algeri. Dopo un tormentoso periodò di schiavitù Pananti e i suoi compagni erano stati liberati per intercessione del console inglese. In questa seconda parte l'autore riferisce appunto di come, una volta affrancato, si dedicasse all'esplorazione della terra dei Berberi. Nell'esposizione dello scrittore toscano si succedono cammelli, fiere, serpenti e aracnidi, usi e costumi beduini, mauri e di minoranze più o meno integrate o sottomesse. Le osservazioni a carattere naturalistico ed etnologico fanno di Pananti il rappresentante di una memorialistica stilisticamente dinamica e raffinata.
"In questo libro la patria trova la sua lingua, quella che ispirava a Iris Origo, nella sua lettera di ringraziamento all'autore dell''Inventario', l'idea che 'in certe forme di letteratura, la lingua faccia parte del paesaggio che descrive'. E questa patria non ha nulla della pesantezza di una ideologia: è insieme una terra interiore e un paesaggio, una stessa misura che accarezza le cose e ordina il pensiero". (Christophe Carraud)
Il volume si propone di offrire un profilo della produzione di Eugenio Montale (1896-1981) come critico letterario, a partire dai suoi esordi sulle riviste di Torino, Genova e Milano, nella prima metà degli Anni Venti, sino all'attività di lungo corso nella redazione milanese del "Corriere della Sera" a partire dal 1948. Nel panorama di studi su Montale manca ad oggi infatti un profilo dell'autore come critico. Vengono pertanto proposte alcune ipotesi relative ai rapporti tra poesia e prosa monta liane: rielaborazioni parallele in prosa e in poesia di esperienze esistenziali, occasioni culturali, epifanie di interlocutori (Benedetto Croce, Ernest Hemingway, Roberto Bazlen) che diventano, nel processo di scrittura, microcosmi di sperimentazione stilistica e di un discorso autobiografico, che emerge con carsica discrezione dal fluire delle pagine, consentendo a Montale di suggerire, dietro la diversità dei generi letterari e delle mansioni (il celeberrimo "secondo mestiere", ancora citato nel discorso per il Premio Nobel nel 1975), l'unità della propria esperienza di uomo di cultura.