Alla morte del padre, Peter e Ivan vedono sconvolto il precario equilibrio della loro esistenza. Nascono nuovi amori, esplodono vecchie ruggini, si creano inedite alleanze. E in questo interludio si intravede la vastità potenziale di ogni vita. A parte il fatto di essere fratelli, Peter e Ivan Koubek sembrano avere poco in comune. Peter è un avvocato di Dublino sui trent'anni - affermato, abile e apparentemente irreprensibile. Ma, ora che gli è morto il padre, prende farmaci per dormire e si barcamena con fatica fra due relazioni con donne molto diverse: il primo, imperituro amore, Sylvia, e Naomi, una studentessa universitaria per cui la vita è un'unica lunga barzelletta. Ivan è un campione di scacchi ventiduenne. Si è sempre considerato uno sfigato, un paria, l'antitesi del suo disinvolto fratello maggiore. Ora, nelle prime settimane dopo la perdita del padre, incontra Margaret, una donna più grande che esce da un passato turbolento, e rapidamente e intensamente le loro vite si intrecciano. Per i due fratelli in lutto, e per le persone da loro amate, si apre un interludio, un periodo di desiderio, disperazione e nuove prospettive - l'opportunità di scoprire quante cose un'unica vita possa contenere senza per questo andare in pezzi.
"Ne abbiamo vissuti di inferni, in questi anni: il Covid, la guerra, la delusione della politica... Più di tutti ne hanno sofferto i ragazzi, i giovani, che all'alba della vita si trovano di fronte un orizzonte nero - anche perché troppo spesso hanno davanti adulti che sanno solo lamentarsi e maledire, che non sanno più testimoniare una letizia, non hanno più ragioni sufficienti per sperare. Così, abbiamo pensato di proporre a loro, ai ragazzi e ai giovani, ma anche agli adulti che con i ragazzi condividono la fatica della vita, questa versione della Divina Commedia. Perché anche ai tempi di Dante c'era l'inferno: c'erano le epidemie, le guerre, le ingiustizie... Ma Dante dall'inferno è uscito. Ha attraversato tutto il male del mondo, lo ha guardato in faccia, ne ha condiviso il dolore; ma poi ne è uscito. Per questo vale la pena di leggere la sua opera oggi, anche e forse soprattutto per un ragazzo: perché ci dice che, per quanto buio sia l'inferno, si può uscirne; per quanto brutto sia il male che ci affligge, si può sempre uscire "a riveder le stelle". Basta un adulto come Virgilio, basta una compagnia umana certa della meta." (Franco Nembrini) Età di lettura: da 11 anni.
«Il mare stava arretrando. Anziché sommergere la costa, onde alte come falesie si ritraevano impetuose verso il largo. Un deserto di basalto si estendeva fino all'orizzonte. Coni vulcanici scintillanti di nero affioravano dall'acqua, simili a immensi tumuli. Decine di migliaia di pesci che non erano stati risucchiati dalla marea si dibattevano sul fondale asciutto in un luccichio di squame. Su quella distesa di roccia nera giacevano sparpagliati scheletri bianchi che sembravano di squali o balene, relitti di navi, barre di ferro lucenti, tavole di legno avvolte in vele a brandelli. Il mare era scomparso alla vista. Non è più un'isola, pensavo contemplando l'orizzonte ». Un vasto cimitero sul mare. Migliaia di tronchi d'albero, neri e spogli come lapidi, su cui si posa una neve rada. E intanto la marea che sale, minacciando di inghiottire le tombe e spazzare via le ossa. Da anni questo sogno perseguita la protagonista Gyeongha che, dopo una serie di dolorose separazioni, si è rinchiusa in un volontario isolamento. Sarà il messaggio inatteso di un'amica a strapparla alla sua vita solitaria e alle immagini di quell'incubo: quando Inseon, bloccata in un letto di ospedale, la prega di recarsi sull'isola di Jeju per dare da bere al suo pappagallino che rischia di morire, Gyeong-ha si affretta a prendere il primo aereo per andare a salvarlo. A Jeju, però, la accoglie una terribile tempesta di neve e poi un sentiero nell'oscurità dove si perde, cade e si ferisce. È l'inizio di una discesa agli inferi, nel baratro di uno dei più atroci massacri che la Corea abbia conosciuto: trentamila civili uccisi, e molti altri imprigionati e torturati, tra la fine del 1948 e l'inizio del 1949. Una ferita mai sanata che continua a tormentare le due amiche, proprio come aveva tormentato la madre di In-seon, vittima diretta di quel crimine. Tre donne, unite dal filo invisibile della memoria, che con determinazione si rifiutano di dimenticare, di dire addio e troncare il legame con chi non c'è più. Con la sua scrittura al contempo lirica e implacabilmente precisa, fatta di « istanti congelati in volo che brillano come cristalli », Han Kang riesce a raccontare questa pagina buia della storia, non solo coreana, consegnando al lettore un romanzo doloroso, lucido e poetico - dove la frontiera tra sogno e realtà, tra visibile e invisibile sfuma fin quasi a svanire. Un romanzo che lei stessa ha definito « una candela accesa negli abissi dell'anima umana ». Apparso nel 2021, "Non dico addio" è l'ottavo romanzo di Han Kang, scrittrice sudcoreana nata nel 1970 e divenuta famosa dopo aver ottenuto nel 2016 il Man Booker International Prize per "La vegetariana" (Adelphi, 2016). Nel 2024 è stata insignita del Premio Nobel per la letteratura. Di lei Adelphi ha pubblicato anche "Atti umani" (2017), "Convalescenza" (2019) e "L'ora di greco" (2023).
Chi si ricorda, oggi, che cos'era la Russia di Gorbaciov? Quando la glasnost, la trasparenza, dava improvvisamente voce al dissenso, quando si aprivano gli archivi e affiorava la memoria sepolta delle tragedie del passato, quando esisteva ancora l'Unione Sovietica e nell'immenso paese convivevano, senza sforzo apparente, russi e ucraini, azeri e armeni, e sotto la facciata del comunismo ortodosso ribolliva di tutto, dall'affarismo mafioso all'integralismo islamico. In quella Russia in bilico fra ingenue speranze e oscuri presentimenti si muovono la giovane storica Tanja, impegnata in una tesi su un argomento fino a poco tempo prima proibito; il giudice Nazar, che cerca di non perdere la sua umanità mentre indaga su crimini efferati; e l'attore Mark, ossessionato dal romanzo che sta scrivendo sullo sterminio degli ebrei di Odessa. Tre trame in apparenza separate che finiranno tutte per riunirsi, come in un intrigo di le Carré, svelando verità nascoste e lasciando intuire i torbidi che avanzano. Alessandro Barbero racconta questa storia con un ritmo e un modo di rivolgersi al lettore che ricorda volutamente i grandi russi, come Gogol' e Bulgakov. La firma del Barbero narratore di Storia e inventore di storie si legge nell'immersione dei fatti nel tessuto fitto dei tempi in cui sono ambientati. Con lo straordinario risultato di mostrare un'epoca attraverso il vissuto più quotidiano, i personaggi più svariati, i pensieri e le memorie, così consueti e diversi; attraverso lo spessore delle lenzuola dei letti, l'umidità delle pareti, le strategie amorose, il pigiarsi della folla in metropolitana, la congestione della novità delle riunioni aperte, gli sguardi scambiati nei giardini pubblici. Così Romanzo russo racconta l'ultimo ambiguo decennio dell'Unione Sovietica: dove alla conclusione delle storie di Tanja, del giudice Nazar Kallistratovic e di Mark Kaufman sarà inevitabile fiutare, come ammonisce un verso del poeta Mandel'stam, vittima di Stalin, «i futuri supplizi».
Lettere briose, profonde, filosofiche, dense di umanità e di straordinarie lezioni educative, tra testi di canzoni trap e brani di Seneca. È il dialogo che un "prete di galera", cappellano del carcere minorile di Bologna, intraprende idealmente con Y, uno dei tanti ragazzi che ha incontrato e che oggi ha scontato la sua pena e vive libero. Un testo che offre uno scorcio straordinario sul punto di vista di un educatore, ed è anche un affresco del mondo degli IPM (Istituti Penali per i Minorenni): realtà sconosciute ai più, e relegate a una sorta di irrilevanza sociale. Eppure, le storie e le voci di questi giovanissimi ci danno la misura di quanto sia importante non arrendersi, come comunità, e fornire strumenti di cambiamento, percorsi di riconciliazione, prospettive di futuro.
Secondo una leggenda, i Magi che resero omaggio a Gesù appena nato non erano tre, ma quattro. Il quarto saggio, Artaban, partì portando con sé pietre preziose da donare al Messia, ma smarrì la strada e arrivò a Betlemme quando già la Sacra Famiglia era fuggita in Egitto. Vagò per il resto della vita alla ricerca di Gesù senza mai incontrarlo. Capitò però a Gerusalemme proprio nei giorni della Passione del Nazareno e quando, la mattina di Pasqua, il Risorto gli apparve, egli non aveva più nulla da donargli, perché aveva utilizzato i doni destinati a Gesù bambino per aiutare poveri e perseguitati. Ma Gesù gli disse: «Ogni volta che hai fatto questo ai tuoi fratelli, tu l'hai fatto a me». Artaban comprese allora che la sua ricerca era conclusa. Ora finalmente avrebbe potuto seguire, e non più inseguire, il Risorto.
Nel febbraio 2021 Edith Bruck riceve a casa la visita eccezionale di Papa Francesco, colpito dalla "lettera a Dio" che la scrittrice ha appena pubblicato. L'incontro storico tra il Pontefice e Edith è nel segno dell'emozione e del dialogo tra due tradizioni, quella cattolica e quella ebraica, unite dalla parola ma divise dagli orrori del ventesimo secolo. Quell'abbraccio inatteso diventa per Edith il punto di inizio di una profonda riflessione sulla sua identità, sull'amore eterno per il marito Nelo Risi, sul senso di colpa che prova oggi per l'affetto verso il Papa, un uomo buono che pure rappresenta la stessa Chiesa che non ha difeso in passato i fratelli ebrei. Un libro commovente, che attraversa la vicenda personale e letteraria di una grande testimone del Novecento e offre ai lettori di ogni età una parola di speranza e di pace.
Due percorsi narrativi in versi, due vasti movimenti poetici che rivelano, nei termini di una insolita energia espressiva, il carattere di un autore che da sempre si è mosso con efficacia coinvolgente sul doppio registro della scrittura in versi e del romanzo. Daniele Mencarelli, con "Degli amanti non degli eroi", riesce qui a comporre un doppio quadro, con due poemetti complementari nella loro diversa fisionomia, nella linearità internamente turbata dell'ampio racconto d'amore fra due giovanissimi, in apertura, e nelle screziature interne, anche sul piano della pronuncia e della versificazione, di Lux Hotel , il testo successivo. Due impostazioni alternative, dalle aperture e dai turbamenti di "Storia d'amore", al complesso gioco metaforico del secondo poemetto, dove viene messo in risalto il tema dell'eroismo negativo nella sua connotazione guerresca, nella speranza, «meravigliosamente utopistica» come dichiara lo stesso autore in nota, «che si arrivi a un mondo dove a essere festeggiato è l'eroismo del perdono, della compassione, del coraggio che soccorre». Una straordinaria ricchezza di situazioni concrete, vissute e ritratte in vivi dettagli, nell'affiorare del «dolore che non s'affoga», caratterizza il primo capitolo, nel quale Mencarelli riprende, con sensibili, decisive modifiche, un testo apparso anni fa; mentre nel secondo, ambientato tra le luci e le ombre di un albergo di lusso, si muovono emblematici personaggi frutto di un'immaginazione quanto mai ricca e variegata. Ecco allora la figura del concierge, ecco l'ombra di un dittatore e i soldati Mercurio, Marte, Nettuno. Umani traffici e minuzie di orrori si manifestano con imprevedibili esiti nel gioco d'azzardo di Lux Hotel, realizzando un singolare e affascinante contrasto rispetto al racconto d'amore «nella sua dismisura» del primo poemetto, in un'opera poetica che conferma Mencarelli come una delle personalità di maggior spicco e solidità della nostra nuova ricerca letteraria.
Odissea: è il titolo del poema epico forse più noto e amato della nostra civiltà ed è anche il termine a cui si ricorre per definire un'esperienza travagliata e, in taluni casi, la vita tout court. Perché soltanto al titolo di quest'opera concediamo di essere sinonimo di vita? Ulisse è un eroe nuovo: avrebbe la possibilità di diventare immortale rimanendo con la bellissima Calipso, ma vuole tornare a Itaca da Penelope e Telemaco, e compiere il proprio destino mortale, paradossale destino di gioia. Proprio perdendo tutto, persino la propria identità, da re a mendicante, rinasce grazie a chi lo sa riconoscere e amare. Se Achille è l'eroe che sovrasta il mondo, Ulisse ne è invece sovrastato. Il suo multiforme ingegno scaturisce dalla necessità di difendersi dai colpi della storia. La sua è una vicenda di resistenza, che culmina nei dieci anni necessari per tornare a casa, dopo i dieci trascorsi a combattere una guerra non sua: a quanti è accaduto qualcosa di simile? E quanto abbiamo sofferto, quanti compagni abbiamo perduto, quante volte abbiamo fatto naufragio, prima di capire che l'unica cura per l'invincibile nostalgia di futuro che ci affliggeva era tornare nella nostra Itaca, non quella del passato ma quella ancora da fare rimanendo fedeli al nostro destino? Alessandro D'Avenia ripercorre i ventiquattro canti del poema come un'arte di vivere, e lo fa risplendere di tutta la sua luce. Ci accompagna attraverso l'opera come studioso di Lettere classiche che l'ha eletta a suo principale ambito d'interesse, come insegnante che da anni ne promuove la lettura integrale ad alta voce, come intellettuale abilissimo nell'interpretare lo spirito del tempo. E nel raccontarci le peripezie di Ulisse vi ritrova la propria esperienza personale e il percorso di ogni uomo verso il proprio originale compimento esistenziale. Se abbiamo perso la gioia della nostra odissea, rileggere l'Odissea è il modo migliore per "fare ritorno". Allora resistere non è rimanere fermi, ma ri-esistere: nascere. Questa è l'arte di essere mortali.
C'è un'età della vita in cui si può trovare una voce pura: una voce tra il silenzio e il tuono. Non c'è un altro modo per parlare di sé, forse, quando guardarsi indietro, e dentro, è lo stesso movimento. E tutto, proprio tutto - le gioie, i dolori, la scoperta dell'amore come quella della morte - è in noi con la stessa forza. Attraverso le lettere di un ragazzo che cresce e di un misterioso nonno, Roberto Vecchioni ha scritto il suo romanzo più intimo e struggente. Questo è un romanzo fatto di lettere, ma non è un romanzo epistolare come gli altri. Si alternano due voci: da una parte c'è lui, Roberto Vecchioni, che racconta a un fantomatico nonno alcuni degli episodi più significativi della sua vita. Li riporta in presa diretta, proprio mentre gli accadono, a dieci, quindici, trenta, ottant'anni. Infanzia, amicizie, studi, canzoni, dolori, amori. Sconfitte e vittorie. Il nonno, dal canto suo, non gli risponde mai: forse non ce n'è bisogno, forse conosce Roberto fin troppo bene. Le sue lettere sono indirizzate ad altri personaggi, veri o immaginari, e affrontano gli argomenti più disparati. Che si tratti di Schubert, di bizzarre teorie sugli ingorghi stradali o di scrittori russi che conosce soltanto lui, ne scrive sempre con la medesima, grandissima passione. E anche se le lettere di Roberto raccontano la storia di una vita - e insieme la storia di un corpo, che sente, ama, si ferisce, si ammala - e quelle del nonno sono puro pensiero, capita di rimanere spiazzati, perché ogni tanto parlano di qualcosa che sembra essere accaduto a entrambi. Di un palco illuminato, ad esempio, e di un uomo che chiede di essere chiamato amore. Ma, soprattutto, della morte di un figlio, e del dolore lacerante che non ti abbandona mai. Cinquantatre lettere, cinquantatre momenti sfolgoranti per catturare «l'ombra sfuggente della verità». In un tempo in cui il prima e il dopo possono confondersi, e persino, forse, illuminarsi a vicenda.
E' nei racconti che possiamo ritrovare tutte le tematiche e gli stili di Pavese, nonché il cuore della sua visione del mondo più matura, che può essere così riassunta: "siamo tutti soli, ognuno è inchiodato al suo destino fin dal principio, e quale esso sia per ciascuno lo si può cogliere già nei primi anni di vita, a sei-sette anni, osservando il carattere e certi segni, anche nel corpo. Per di più un destino immutabile". I racconti si affiancano alle pagine autobiografiche di altre sue opere, rivelando il percorso di crescita dell'uomo e mostrando la coscienza e la maturità intellettuale dello scrittore.
«Se proprio dovessi, sceglierei la Tasmania. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l'uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un'isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda». "Tasmania" è un romanzo sul futuro. Il futuro che temiamo e desideriamo, quello che non avremo, che possiamo cambiare, che stiamo costruendo. La paura e la sorpresa di perdere il controllo sono il sentimento del nostro tempo, e la voce calda di Paolo Giordano sa raccontarlo come nessun'altra. Ci ritroviamo tutti in questo romanzo sensibilissimo, vivo, contemporaneo. Perché ognuno cerca la sua Tasmania: un luogo in cui, semplicemente, sia possibile salvarsi. Ci sono momenti in cui tutto cambia. Succede una cosa, scatta un clic, e il fiume in cui siamo immersi da sempre prende a scorrere in un'altra direzione. La chiamiamo crisi. Il protagonista di questo romanzo è un giovane uomo attento e vibratile, pensava che la scienza gli avrebbe fornito tutte le risposte ma si ritrova davanti un muro di domande. Con lui ci sono Lorenza che sa aspettare, Novelli che studia la forma delle nuvole, Karol che ha trovato Dio dove non lo stava cercando, Curzia che smania, Giulio che non sa come parlare a suo figlio. La crisi di cui racconta questo romanzo non è solo quella di una coppia, forse è quella di una generazione, sicuramente la crisi del mondo che conosciamo - e del nostro pianeta. La magia di "Tasmania", la forza con cui ci chiama a ogni pagina, è la rifrazione naturale fra ciò che accade fuori e dentro di noi. Così persino il fantasma della bomba atomica, che il protagonista studia e ricostruisce, diventa un esorcismo: l'apocalisse è in questo nostro dibattersi, e nei movimenti incontrollabili del cuore. Raccogliendo il testimone dei grandi scrittori scienziati del Novecento italiano, Paolo Giordano si spinge nei territori più interessanti del romanzo europeo di questi anni, per approdare con felicità e leggerezza in un luogo tutto suo, dove poter giocare con i nascondimenti e la rivelazione di sé, scendere a patti con i propri demoni e attraversare la paura.