Dopo La lingua geniale, in cui ha mostrato quanto profonde siano le tracce lasciate dal mondo greco nella nostra contemporaneità, Andrea Marcolongo torna a scrivere per raccontare il suo personale viaggio verso quella agognata Itaca che è per tutti l'età adulta.
Giasone è solo un ragazzo quando, inesperto del mare e della vita, insieme ai compagni Argonauti salpa con la nave Argo, la prima costruita da mano umana, verso la remota Colchide alla ricerca del leggendario vello d'oro. Per poi, vittorioso, fare ritorno con l'amata Medea nell'Ellade, fra le paure, le tentazioni e le insidie proprie di ogni lunga navigazione in mare aperto. Quella narrata da Apollonio Rodio nelle Argonautiche , e magnificamente ripresa da Andrea Marcolongo in queste pagine, è la storia universale e sempre attuale del delicato passaggio all'età adulta di un ragazzo e una ragazza, che trovano la «misura eroica» attraverso il viaggio e l'amore. Ed è il racconto della difficile arte di partire, abbandonando la terraferma e varcando quel confine che siamo chiamati a superare ogni volta che qualcosa di potente ci accade e ci cambia per sempre. Per diventare grandi, non importa quanti anni si abbiano. Poiché, però, prendere il mare significa esporsi al pericolo di naufragare, ai versi del capolavoro della poesia ellenistica l'autrice affianca, in una sorta di controcanto, la prosa disadorna ma pregnante di How to Abandon Ship . Come abbandonare una nave, un manuale inglese del 1942 che qui, a dispetto del titolo, non rappresenta un manuale di fuga, ma un compendio di strategie per resistere e superare i naufragi della vita. Dopo il best seller La lingua geniale , in cui ha mostrato quanto profonde siano le tracce lasciate dal mondo greco nella nostra contemporaneità, Andrea Marcolongo torna a scrivere per raccontare il suo personale viaggio verso quella agognata Itaca che è per tutti l'età adulta. Forse l'unico modo, sicuramente il più sincero, per rispondere alle domande dei suoi tanti lettori. C'è ancora posto per il passato nel nostro futuro? Perché la paura deve essere necessariamente un sentimento di cui vergognarsi? Perché non ci siamo mai sentiti così soli nella storia dell'umanità? Perché ogni giorno tutti noi – umani e contemporanei Argonauti – navighiamo attraverso i mari per diventare diversi da come eravamo quando abbiamo lasciato la riva? La misura eroica ci ricorda quello che ogni viaggiatore dovrebbe sapere. Qualunque meta non è mai il punto di arrivo, ma è innanzitutto il punto di svolta: il senso di qualunque scelta, di qualunque viaggio, non è il dove si arriva, ma il perché si parte.
Sullo sfondo inconfondibile della "sua" Costiera Amalfitana, Franco Di Mare ci regala un nuovo, intrigante romanzo in cui vizi e virtù dei protagonisti si confondono con i nostri. E ci ricorda che tutti, nella vita, abbiamo bisogno di un pizzico di magia.
L'inverno a Bauci non è uguale a quello della Costiera: la pioggia batte forte e dai monti Lattari soffia un vento di tempesta che, se uno non c'è abituato, mette un po' di paura. È in una sera così, mentre le imposte sbattono e le nuvole coprono il cielo, che in paese arriva un misterioso sconosciuto. Capelli e barba bianchissimi, lungo pastrano nero, lo straniero non fa in tempo a presentarsi che già corrono voci su di lui. Chi è? Da dove viene? Cos'è venuto a fare qui, che vuole? La targa appesa alla sua porta recita: "Mago Barnaba, maestro di esoterismo, sacerdote di riti karmici, esperto di sciamanesimo, astrologia, tarocchi, chakra, malocchi, fatture". La curiosità è tanta, ma per le strade di Bauci un mago non s'è mai visto, e ad aumentare la diffidenza ci si mette pure don Balo, il parroco, che durante l'omelia non perde occasione per ricordare che ciarlatani e imbonitori non sono altro che servi del demonio. Resistere alla tentazione però è difficile, anche perché pare che Barnaba, con le sue profezie, non sbagli un colpo. In fondo, a fare domande che male c'è? È così che i baucesi, uno dopo l'altro, aspettano l'ora giusta per consultare il mago in gran segreto e scoprire cosa riserva loro il futuro...
«Dieci anni dopo "Cuori di Pietra", ventitré donne, scrittrici, giornaliste, esseri umani di varia foggia e sfumatura emotiva contingente, si ritrovano con un obiettivo, comune e chiaro: scrivere. E un altro obiettivo più nebuloso, velleitario, eppure bellissimo. Anzi due: impreziosire la vita di chi legge, magari sorseggiando un drink nel tinello della propria comoda casa, e migliorare quella di chi il tinello non ce l'ha, ma soprattutto non ha un piffero da bere perché dalle sue parti l'acqua è un'ipotesi avventurosa. E tutto ciò soli centocinquant'anni dopo che il dottor Semmelweis, il primo medico che un giorno disse ai suoi colleghi "stimatissimi, sarà il caso che uscendo dalla sala autopsie e dirigendoci in sala parto ci laviamo le mani?", venne obbligato a lasciare la sua città, rinchiuso in un manicomio ed escluso a vita dalla comunità scientifica, a suggello del fatto che esistono congiunture astrali per cui tra essere riconosciuto come un genio ed essere stigmatizzato come idiota il passo è davvero troppo breve e amaro. Questo libro si muove su quel crinale, affascinante e pericoloso, sfidando rassegnazione e cinismo con un rapido ed elegante battito di ciglia. Racconta storie il cui epilogo non è stato sventurato come quello del medico viennese di cui sopra, si sbatte alla ricerca di leggerezza, tallona un anelito di speranza come il viaggiatore ramingo insegue un caffè decente in autostrada. In un momento in cui l'ottimismo non è più il profumo della vita, in una stagione in cui questo mirabile concetto viene vissuto come il contrario non del pessimismo, ma del realismo, è sempre giusto e prezioso celebrare quell'istinto mai sopito che suggerisce di vedere finalmente il bicchiere mezzo pieno, badando anche a quale sia la sostanza al suo interno, dettaglio questo di discriminante importanza.» (Dalla Prefazione di Geppi Cucciari)
Modello per secoli di tutta, o quasi, la lirica italiana, il "Canzoniere" del Petrarca si configura come un'opera di estrema modernità: moderna è la consapevolezza con la quale il poeta si pone nei confronti della tradizione letteraria; moderno è il linguaggio, la metrica; moderna l'attitudine sperimentale, moderno il ruolo assegnato alla letteratura, l'afflato narrativo. Moderna la concezione dell'amore, che fonda il suo rituale su un'esperienza fondamentalmente interiore; e moderno, infine, lo spessore di quell"io" poetico che per la prima volta assurge a protagonista assoluto. Il testo dei trecentosessantasei componimenti (i "rerum vulgarium fragmenta") è accompagnato dal commento di Marco Santagata: un caposaldo della critica e della filologia, l'edizione di riferimento del "Canzoniere".
«Un mese prima, David guardò mia madre negli occhi e le disse: “Avevi ragione. Se scampo questa, lascio tutto e inizio a fare solo quello che mi dici tu”.» Ma la sera del 6 marzo 2013 David Rossi, influente responsabile dell’area comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, precipita dalla finestra del suo ufficio nella storica sede della banca, nel pieno dello scandalo che ne avrebbe segnato il declino. La sua morte viene archiviata come suicidio, anche se fin dall’inizio emergono aspetti inquietanti nella dinamica della caduta e nei suoi retroscena: contraddizioni, dettagli controversi, reticenze, imperdonabili leggerezze.
Se tu potessi vedermi ora è un memoir bruciante, scritto nel nome del padre, il gesto necessario di una figlia per dissipare le ombre di una vicenda che, se per molti è soltanto cronaca, per lei è la vita stessa, da quando, sedici anni prima, David vi è entrato come marito di sua madre. Una vita privata e poi, traumaticamente, pubblica, in cui tutte le certezze sono diventate domande.
Carolina, oggi venticinquenne, consegna una parte finora invisibile della storia di David Rossi, raccontandolo dall’interno, come padre, marito e uomo: colto, ironico, integro e taciturno, con le sue passioni e i fantasmi che lo circondavano nei giorni prima della fine. E lo fa con gli occhi asciutti di chi è già abituato a lottare e vuole conoscere la verità. I ricordi personali si mescolano alle indagini giudiziarie e l’amaro stupore si trasforma in forza e consapevolezza a mano a mano che inizia a occuparsi della vicenda in prima persona.
La disamina di ogni particolare fuori posto – le telefonate misteriose, i foglietti attraverso i quali David le parlava, gli abiti distrutti, il computer violato, i probabili «testimoni» ancora senza volto della sua agonia – si fonde con l’elaborazione impossibile di un lutto e il silenzio di una città intera, Siena, fino ad assumere i drammatici contorni del primo incontro di una giovane ragazza con la crudeltà e l’ingiustizia del mondo.
«Una sera, a tavola, ti ho chiesto come mi sarei dovuta muovere, un giorno, se avessi voluto scrivere un libro. E tu, con aria apparentemente disinteressata, mi hai detto: “Intanto per scrivere un libro bisogna aver qualcosa da raccontare”. Quella sera la presi come una mancanza di fiducia nei miei confronti. Oggi io racconto la più dura delle storie. La tua.»
Una storia piena di speranza, di amore, di attaccamento alla vita. Un inno alla resilienza.
Tutto comincia alle sei di mattina, in radio, dove due giornalisti assonnati si danno il turno. Lui sta cercando di svegliarsi con un caffè, lei sta correndo a casa dopo aver lavorato tutta la notte. E succede che nella fretta i due scambiano per errore i loro cellulari. Si rivedono qualche ora più tardi e da un dialogo quasi surreale nasce un invito al cinema, poi a una mostra, un aperitivo, una gita in montagna.
Francesca è bassina, impertinente, ha i capelli biondi arruffati e due occhioni blu che illuminano il mondo. È una forza della natura, sempre in movimento, sempre allegra: per questo la chiamano Wondy, da Wonder Woman. Alessandro è scherzoso e un po’ goffo, si lascia travolgere da Francesca e dall’amore che presto li lega. Con lei, giorno dopo giorno impara a vivere pienamente ogni emozione, a non arretrare di fronte alle difficoltà. E così, insieme, con una forza di volontà che somiglia a un superpotere, si troveranno a combattere la più terribile delle battaglie, quella che non si può vincere. Ma anche dopo la morte sono tante le cose che restano: due figli, un gatto, un bonsai, tanti amici e, soprattutto, una straordinaria capacità di assorbire gli urti senza rompersi mai. Anzi, guardando sempre avanti, col sorriso sulle labbra.
Non è una favola, quella di Alessandro e di Wondy. È però una storia piena di speranza, di amore, di attaccamento alla vita; un inno alla resilienza, quella da esercitare quotidianamente. Perché le storie più belle non hanno il lieto fine: semplicemente non finiscono.
Durante una notte surreale, e nello stesso tempo fin troppo reale, una donna, una scrittrice, tornata nel paese siciliano dove è nata, nella piazza dove passeggiava bambina, ascolta decine di voci che giungono da un altrove indistinto, che si fanno strada in una nebbia strana, inquietante. Sono voci di donne morte, che vogliono, devono, raccontare le loro storie perché la scrittrice le trascini fuori dall'oblio al quale sono destinate. Sono storie quasi sempre dolorose, a volte tragiche, che hanno una caratteristica in comune: l'umanità delle protagoniste, la loro complessità emotiva e intellettuale, i loro sentimenti, le loro vite vere, insomma, tutto viene sempre e inesorabilmente annullato nella dicotomia maschile della donna «santa o buttana». Ma non solo per raccontarsi, i fantasmi di queste donne parlano all'autrice: c'è anche un'altra storia, che tutte le coinvolge, e che vogliono si sappia. La storia di Adele, figlia di Rosa, ma non del suo legittimo marito, Rosario. E la colpa più grave di Adele è quella di avere i capelli rossi, come il suo vero padre, segno inequivocabile del tradimento, della colpa, delle corna. Per questo Rosario passerà il resto della sua vita nel tentativo di uccidere la bambina, poi ragazza. E per questo le donne del paese, le stesse donne che si raccontano, faranno di tutto per salvarla. Perché levare almeno la piccola Adele dai meccanismi mentali malati di questi maschi brutali, ancestrali e irredimibili, vorrebbe dire aver salvato tutte loro.
“Le cose straordinarie, quelle che resteranno per sempre nella tua vita, arrivano spesso in punta di piedi e all’improvviso, senza tuoni e particolari avvisaglie. Proprio come quella nevicata dell’85.”
A dodici anni sono diventato amico di un supereroe. Aveva venticinque anni, abitava nel mio condominio a Napoli e diceva di non essere per niente un supereroe. Ma io so che i supereroi esistono. E sono in mezzo a noi.
“Un doloroso e frantumato itinerario nel cuore di una donna incompiuta” il venerdì di Repubblica
Parigi. È qui che la passione per la danza ha condotto Alice, acrobata di un’esistenza precaria come la maggior parte dei suoi coetanei: la generazione senza futuro, quella immersa in un eterno presente che si sente derubata da chi l’ha preceduta. Il suo vivere fuori squadra e senza radici è in parte anche una sfida alla madre – insigne grecista, con alle spalle brucianti passioni politiche e un presente di dolenti disillusioni –, da sempre convinta che l’unico antidoto al caos e alle brutture del mondo sia la bellezza. Dopo uno scontro feroce, la madre si accascia. A Napoli, dove la riportano in coma, quel corpo diventa per Alice uno scrigno di memoria e un enigma. Il ritorno a Napoli coincide per lei con il ritorno nella casa della sua infanzia, dove è costretta a una difficile convivenza con il padre, chiuso in una scontrosa solitudine. In quel grande appartamento, la vita torna comunque a sussurrare parole: c’è da scoprire chi è stata veramente quella donna così passionale che ora “dorme”, c’è da preparare una dipartita che chiama sulla scena fantasmi d’amore.
Iaia Caputo scava nel cuore di una figlia per arrivare al grande cuore di sua madre, per ripercorrere la catena dei giorni e dell’accadere, perché capita che infine sia il dolore a insegnare l’arte di vivere.
Andrea Vitali ritorna con i suoi casi da risolvere sulle rive del lago di Como. I casi del maresciallo Ernesto Maccadò" non inizia con il fruscio delle acque, ma a Milano, la notte del 4 maggio 1930. I carabinieri di Porta Ticinese vengono chiamati ad intervenire alle due del mattino per schiamazzi notturni e disturbo della quiete pubblica. A provocare tutto quel baccano sono un uomo e una donna. Lui è un giornalista e studente di trentacinque anni che afferma di essere stato molestato dalla ragazza lì presente, bella e avvenente. La giovane non ha documenti, ma afferma di chiamarsi Desolina Berilli, in arte Doris Brilli, ed è proprio di Bellano. La ragazza è cantante e ballerina e non sa come difendersi dalle accuse infamanti che quel giovane le ha rivolto, visto che ha un sacco di conoscenze importanti che gli permettono di passarla liscia. Doris Brilli viene così riaccompagnata a Bellano, il suo paesino natìo, dove ad occuparsi di lei e del suo caso spinoso ci penserà Ernesto Maccadò, il giovane comandante arrivato al lago dal mare calabrese. In "Nome d’arte Doris Brilli" sarà proprio questo maresciallo inesperto e con il cuore ferito per aver lasciato a casa la sua sposa Marinella, a salvare la cantante e ballerina.
Un biografo ha scritto che «una singola sillaba in Kafka può suscitare le emozioni del lettore fin nel profondo». Ecco, io sono uno di questi. Nel mio caso si tratta di una parola, benché a variare siano solo due sillabe. La parola è Strassenlampen (lampioni), e sta all’inizio della seconda parte della Metamorfosi. Tutto è cominciato quando mi sono accorto che nella più classica traduzione italiana invece dei lampioni c’era un tram. Come si fa a prendere un tram per dei lampioni? Ho guardato in giro: in una quantità di traduzioni nelle più diverse lingue sbucava il fantomatico tram. Che in tedesco si chiama Strassenbahn. Se un commesso viaggiatore può svegliarsi trasformato in uno scarafaggio, direte, anche un lampione può trasformarsi in un tram. L’apparente strafalcione, tram per lampioni, era già nella prima traduzione della Metamorfosi, uscita anonima nel 1925, un anno dopo la morte di K. Risalendone la peripezia ci si imbatte nell’appropriazione indebita di quella traduzione da parte di un gran signore delle lettere universali come Jorge Luis Borges. La traduttrice vera era Margarita Nelken, una donna spagnola dalla vita brillante, tumultuosa e triste.
Non era questo però a motivare il fervore che mi aveva preso. Il fatto è che a un certo punto mi è sembrato che il tram al posto dei lampioni fosse più bello, e che illuminasse la conclusione stessa del racconto. E non fosse un errore – Strassenlampen e Strassenbahn possono confondersi – ma una variante introdotta dallo stesso Kafka. Proporre una correzione addirittura della Metamorfosi è quasi come sfidare la lettera delle sacre scritture per le quali si fanno guerre micidiali. La filologia laica risparmia lo spargimento di sangue, tutt’al più qualche spargimento di cattedre. Ma è stato bello immaginarsi alleato di Kafka contro l’ordine tipografico costituito. Lettrici e lettori scusino le pagine pedanti: si possono saltare e riprendere dove la trama – il tram – torna sui suoi binari. A. S.
Quattro racconti che ci portano nel cuore di un dolore infinito, storie brucianti e dense: amori che sbocciano, la promessa di ritrovarsi, il dramma dello sradicamento, la fuga, l’esilio.
L’autore, con l’apparente leggerezza di un narrare che sa parlare al cuore, ci conduce nel complesso rapporto tra religione, violenza e sacro fino ai temi di stringente attualità del modo di porsi di un Islam della diaspora, in Europa e in Italia, e del rapporto fra questo e le nuove frontiere della democrazia.