L'opera offre profili di grandi predicatori del primo millennio della storia cristiana. Con diversa ampiezza di approfondimenti, si ricordano le opere oratorie e si delineano gli stili che hanno caratterizzato le rispettive forme di retorica adottate. Nell'alveo della tradizione secolare si innesta l'evento del Concilio Vaticano II con la successiva riforma liturgica: è da questo evento che anche la predicazione e soprattutto l'omiletica ha ripreso una configurazione secondo i parametri essenziali che provengono dall'esperienza del primo millennio. L'accostamento dell'opera si apre a varie considerazioni che chiamano in causa soprattutto le modalità con cui l'unica sorgente della predicazione, la Parola di Dio, è stata interpretata lungo il tempo e nei più variegati contesti delle Chiese locali. Una lezione, questa, di perenne attualità; una lezione che dà adito a una vita spirituale modellata dall'incontro tra la Scrittura, la teologia e soprattutto la celebrazione liturgica in cui la Parola attua ciò che annuncia. La retorica di cui i Padri e gli Scrittori ecclesiastici sono maestri costituisce un elemento prezioso per attivare nell'oggi del perenne annuncio del Vangelo quelle forme che permettono di facilitare e realizzare l'incontro tra Dio e il suo popolo.
Opera di Gelasio, vescovo di Roma dal 492 al 496, l'Epistula de duabus naturis si colloca nel contesto di un'affermazione rinnovata del Credo calcedonese. Fin dai primi tempi della controversia cristologica era evidente che il punto di maggior contrasto tra la cristologia unitiva alessandrina e quella degli antiocheni era costituito dal fatto che questi ultimi ragionavano secondo una logica di marca aristotelica, assai comune all'epoca, che faceva corrispondere a una natura, perché fosse reale e concreta, un'ipostasi. Conseguentemente, affermando in Cristo l'esistenza di due nature, rifiutavano di ammettere in lui una sola ipostasi, affermazione che ai loro orecchi implicava necessariamente la dottrina dell'unica natura degli apollinaristi. Sul fronte opposto, la stessa logica portava gli alessandrini a rifiutare le nature, corrispondenti per loro a due ipostasi, della dottrina calcedonese, che consideravano semplicemente nestoriana. Inoltre, per gli alessandrini, il termine "natura" indicava ciò che appartiene al soggetto da sempre, fin dalla nascita, e inerisce in modo permanente al soggetto medesimo. Necessariamente e in modo permanente al Lógos divino non poteva che appartenere la sola natura divina. L'Epistula de duabus naturis è senza dubbio un'eccezione nel panorama della speculazione cristologica occidentale. Si colloca, infatti, al cuore di un trentennio sterile dal punto di vista del pensiero teologico che sparisce nell'"equilibrio del silenzio", imposto dalla politica religiosa...