Opera di Gelasio, vescovo di Roma dal 492 al 496, l'Epistula de duabus naturis si colloca nel contesto di un'affermazione rinnovata del Credo calcedonese. Fin dai primi tempi della controversia cristologica era evidente che il punto di maggior contrasto tra la cristologia unitiva alessandrina e quella degli antiocheni era costituito dal fatto che questi ultimi ragionavano secondo una logica di marca aristotelica, assai comune all'epoca, che faceva corrispondere a una natura, perché fosse reale e concreta, un'ipostasi. Conseguentemente, affermando in Cristo l'esistenza di due nature, rifiutavano di ammettere in lui una sola ipostasi, affermazione che ai loro orecchi implicava necessariamente la dottrina dell'unica natura degli apollinaristi. Sul fronte opposto, la stessa logica portava gli alessandrini a rifiutare le nature, corrispondenti per loro a due ipostasi, della dottrina calcedonese, che consideravano semplicemente nestoriana. Inoltre, per gli alessandrini, il termine "natura" indicava ciò che appartiene al soggetto da sempre, fin dalla nascita, e inerisce in modo permanente al soggetto medesimo. Necessariamente e in modo permanente al Lógos divino non poteva che appartenere la sola natura divina. L'Epistula de duabus naturis è senza dubbio un'eccezione nel panorama della speculazione cristologica occidentale. Si colloca, infatti, al cuore di un trentennio sterile dal punto di vista del pensiero teologico che sparisce nell'"equilibrio del silenzio", imposto dalla politica religiosa...