Nelle alterne vicende dell'esistenza terrena, la percezione della bellezza costituisce per l'anima un'esperienza fondamentale per l'intensità e la qualità degli affetti e dei pensieri che suscita, e per i cammini e le prospettive che può in vario modo dischiudere. Per Plotino infatti la bellezza rappresenta un elemento imprescindibile di quello che possiamo chiamare il romanzo dell'anima: racconto drammatico e insieme meditazione filosofica che ha per oggetto la vita della psyché oscillante tra i due poli dell'intelligibile e della materia, fintanto che non si produca, nella folgorazione istantanea, il contatto ineffabile con il principio primo della realtà. Dal visibile all'invisibile, dal materiale all'immateriale, dalla dimensione dei corpi al regno della mente e del pensiero assoluti, dal dispiegamento del molteplice all'unità assoluta: questo è il viaggio iniziatico cui i trattati plotiniani qui raccolti (Il bello, Il bello intelligibile e Il bene e l'Uno) invitano il proprio lettore, questa è la traiettoria di una philosophia, di un "amore della sapienza" che, giorno dopo giorno, è esercizio e pratica di sé, impegno vitale e sforzo strenuo di accedere a un altro piano di coscienza e a una diversa forma di esistenza.
Tutti gli uomini vogliono essere felici, ma che cos'è la felicità? La risposta non è affatto così chiara e immediata. La domanda è già antica: poeti, sapienti e filosofi, della Grecia e di Roma, hanno tentato di offrire delle indicazioni per avviarsi a una vita "buona" e "felice". Transitando da Omero a Erodoto, da Platone ad Aristotele, da Epicuro a Seneca e Marco Aurelio, dai Cinici agli Scettici, dalla sapienza dei Misteri a Plotino, il volume costruisce un percorso di idee e di immagini che invitano il lettore a rimodulare il proprio pensiero per interrogarsi sul nucleo profondo del proprio essere. Un punto, infatti, resta centrale e comune: chiedersi in cosa consista la felicità significa, nella sostanza, chiedersi che cosa sia l'uomo, quale sia il suo compito, la sua funzione e il suo scopo nel grande gioco del cosmo. Significa chiedersi che cosa sia la "vita".
"La tragedia greca ha saputo articolare, a più riprese e con implicazioni differenti, il linguaggio della sofferenza e la rappresentazione di corpi umani stretti dalla morsa del dolore, feriti e piagati fino agli estremi limiti della sopportazione. Meno consueta è la rappresentazione diretta di un corpo divino che, nell'impossibilità di agire, occupa lo spazio con l'ostensione di una pena indicibile e inaggirabile. Il criminale è Prometeo, riconosciuto colpevole da Zeus, considerato un nemico dagli altri dei che si raccolgono intorno al trono olimpico del figlio di Crono. La partita si gioca crudamente tra pari, tra soggetti che appartengono ad una stessa dimensione. La società divina, nella persona del suo re, espelle e condanna un suo membro che ha rotto gli equilibri, che ha infranto un ordine e un patto di governo. Prometeo ha commesso un torto dispensando onori e privilegi che erano un possesso celeste. Ha rubato il fuoco per darlo agli uomini. Ma la crisi che tale iniziativa innesca non si misura a partire dai soggetti mortali che vengono beneficati: gli uomini restano, essenzialmente, fuori campo e fuori scena. Il dramma si muove in una sfera superiore: il teatro degli dei è un teatro di signori che disputano, fra loro, per il potere e la supremazia, che regolano i loro conti con la ferocia dei gesti e delle maledizioni, che rispondono alla violenza con la violenza per assicurarsi il regno." (dall'introduzione)
Macerie fumanti, cadaveri sanguinolenti, pianti e grida di dolore: Troia in fiamme come emblema della caduta di un regno, come luogo archetipico della distruzione e del saccheggio. A partire dal materiale mitico della tradizione arcaica, la drammaturgia di Euripide presenta al pubblico lo spettacolo dei crimini di guerra e la deriva di una popolazione devastata. L'orrore è focalizzato nella prospettiva delle vittime, dei corpi umiliati e spogliati delle loro identità, delle soggettività ridotte a voci sofferenti quanto inermi. Attraverso una complessa costruzione di genere, il destino dei vinti si articola in un defilé di figure femminili che rappresentano altrettanti ruoli e altrettante esperienze travolte dalla spirale della violenza. Ecuba, Andromaca, Cassandra: una regina privata del trono, una vedova cui viene ucciso l'unico figlio, una figlia ritenuta da tutti una povera pazza. Su tutte incombe il trauma della perdita e dello sradicamento: la partenza verso un altrove che significa schiavitù e miseria.
Un cadavere fetido e putrescente su cui uccelli e cani banchettano. Una lotta mortale intorno al destino e ai diritti di questo corpo. Antigone contro Creonte. Un nodo tragico infinitamente riattraversato, dall'antichità ai traumi del "secolo breve". Antigone è stata identificata con le ragioni della pietà e dell'amore, con il profilo aurorale dell'autonomia etica, con la speranza di una rigenerazione, con la figura della dissidenza o del terrorismo. E tuttavia, se si ritorna al testo tragico, ci si avvede di ben altra e più inquietante configurazione. Antigone e Creonte sono i due volti inseparabili di una medesima élite che si autodistrugge dall'interno, disseminando la "peste" intorno a sé. Nel conflitto tragico si riannodano le contraddizioni di una città ove la politica è maledizione reciproca, gioco avvelenato, manipolazione della memoria e delle identità. Una città che è tomba e prigione senza scampo e senza futuro.