I contemporanei, tra i quali Ovidio, vedevano in Tibullo - questo poeta dall'ingenium mite - un vicino e un fratello di Catullo e di Virgilio. I moderni lo hanno ingiustamente negletto. Ma basta prendere in mano questo libro di "Elegie", nella bellissima traduzione di Francesco Della Corte, per restare di nuovo avvinti da un incanto senza pari. Nella nuova Roma di Cesare, di Ottaviano e di Antonio, nella Roma che sta diventando una grande, tumultuosa e colorata capitale d'Oriente, ecco venirci incontro questo amabile e squisito figlio dell'antica, piccola, povera Roma repubblicana, che insegue un suo sogno arcadico, e si rifugia nella campagna di una volta, tra le pianure, i colli, i solchi arati, le viti, i buoi, i contadini devoti alla terra e agli dei, che conducono una vita immutata dai tempi di Saturnus rex. Tibullo sembra conoscere tutto: la nascita, la crescita, il tramonto, la morte di tutte le cose e di tutti i sentimenti degli uomini. Ma egli si limita a rivelarci solo un'ombra di quello che conosce e presente ; e nasconde quanto sa dietro un'eleganza malinconica, una dolcezza insinuante, una nitidezza delicata, una sublime monotonia, che rivelano a tratti, tanto più fraterna per noi, il segno di una profonda ossessione.
Indice - Sommario
Introduzione
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Libro primo
Libro secondo
APPENDICE
Note al testo
Versificazione e metrica verbale
Indices
Addenda
Prefazione / Introduzione
Della vita di Albio Tibullo quasi nulla si conosce: né l'anno di nascita, né quello esatto di morte, né le date di pubblicazione delle sue opere, né tutte quelle notizie che ci illuminano sui fatti e le vicende degli altri poeti a lui contemporanei. Abbiamo, è vero, una "vita" riportata da alcuni codici, ma i dubbi sulla sua veridicità, recentemente sorti, sono di tal peso che ci impediscono di farne un uso indiscriminato.
Nella successione dei poeti elegiaci, Tibullo è presentato come il continuatore dell'opera di Catullo, di Licitilo Calvo e di Cornelio Gallo. Viene per solito posto innanzi a Properzio, unicamente perché morì prima di lui, anche se nacque presso a poco negli stessi anni, fra il 55 e il 50.
Il primo fatto storico, di cui si ode l'eco nelle sue elegie, è una guerra, che molto probabilmente non fu la modesta spedizione aquitanica, bensì la grande e impegnativa mobilitazione contro Antonio e Cleopatra. La situazione, che si delinea attraverso l'elegia I 10, è quella della vigilia di una guerra totale. È chiaro che Tibullo non ci va volontario, anzi ci va di mala voglia. A nostra conoscenza, solo l'occasione del "bellum Actiacum" contro Antonio e Cleopatra determinò una così massiccia chiamata di circa mezzo milione di cittadini alle armi. In tale circostanza, uno, che pure spirito militare non aveva e non mostrava alcun interesse alla vita delle armi, non poteva sottrarsi, nonostante la paura di restare sotto il ferro nemico e le implorazioni ai Lari perché lo salvassero.
Partito per la guerra, ebbe poi occasione di militare con Marco Valerio Messalla Corvino, alla cui cohors Tibullo dichiarava di appartenere; prima lo seguì nel 50 in Gallia, combattendo contro gli aquitani, e poi nel 28 in Siria. Ma una grave malattia, che lo colpì a Corfù, lo costrinse ad abbandonare la cohors di Messalla. Risanato, rientrò a Roma, dove potè assistere al trionfo di Messalla, celebrato il 25 settembre del 27.
Il contubernio con Messalla, noto come poeta bucolico in greco e "molto attento osservante della pura latinità", influì notevolmente sulla formazione poetica di Tibullo, che, pur avendo una vasta e profonda conoscenza della lingua e della letteratura greca, tuttavia nella sua pratica letteraria si ispira al più rigoroso monolinguismo, unitario e puristico, come si conveniva a uno che si vantava di discendere da un antico ceppo familiare radicato nel vetus Latium, e aveva la coscienza di far parte di un gruppo di parlanti che si atteneva costantemente all'uso della lingua patria, non accettando nulla che venisse dal di fuori se non filtrato attraverso le regole della lingua latina, escludendo ogni alternativa, anzi considerandola come deplorevole cedimento. La conservazione della purezza, proclamata e praticata da quella piccola élite culturale che caratterizzò, durante l'ultima repubblica, una prosa latina davvero esemplare, influì sulla lingua poetica di Tibullo, che si adeguò ai modelli prosastici proposti dalle scuole di grammatica e di retorica, in particolare da quella apollodorea cui aderiva l'amico Valgio. Lo aveva già fatto nelle "Bucoliche" Virgilio, e in grado minore Grazio negli "Epodi" e nelle "Satire"; delle quali Tibullo era candidus iudex, e ne dava, quindi, un giudizio positivo; ma l'elegia, pur più modesta dell'epica e della tragedia, era sì un genere medio, ma sempre più sostenuto della satira; e comportava l'uso esatto e appropriato delle parole e dei costrutti senza attingere a vocaboli stranieri, in primo luogo senza grecismi, per non dire poi di barbarismi e di influenze del sermo rusticus o di parlate settoriali. Nonostante la documentata presenza di Tibullo sotto le armi, le sue navigazioni e i suoi viaggi, non un elemento estraneo al puro eloquio latino è penetrato nelle sue elegie. Evitare tamquam scopulum la parola nuova o inaudita gli richiese qualche limitazione; dovette perciò rinunciare a indicare oggetti senza tradizione letteraria; e neppure tentò di dare una maggiore precisione espressiva a concetti che già si avevano; scartò ogni tecnicismo: in lui le parole onnicomprensive sono più frequenti di quelle specifiche.
La sua conclamata eleganza indica la caratteristica formale della sua opera, che non presenta mai, o quasi mai, espressioni di particolare e raffinata bellezza, il che suonerebbe come una nota fuori rigo nel pentagramma tibulliano; ma in compenso non cade mai nel piatto e nel volgare e offre una naturale e signorile spontaneità, priva di quell'erudizione di accatto che costituiva un pericolo, cui andava incontro la pedissequa imitazione degli alessandrini.
Terminati i viaggi e le spedizioni militari, dividendo la sua vita fra la città e la campagna, Tibullo strinse amicizia con Grazio, che gli dedicò due suoi componimenti, il carme I 33, pubblicato nel 23, e l'epistola I 4, pubblicata nel 20. Di una decina d'anni più anziano. Grazio aveva molto apprezzato il giudizio del suo giovane amico sui "Sermones", cioè sul primo e secondo libro delle "Satire". Dopo che le prime elegie, scritte alla spicciolata, furono, nel 26 circa, pubblicate nella raccolta del libro di Delia, Tibullo non era più uno sconosciuto nel mondo delle lettere. Grazio lo vedeva con simpatia: e, non comprendendone l'atteggiamento di innamorato infelice, gli indirizzò un'ode che è una consolatio. È giusto che Tibullo si dolga di Glicera, ma il dolore non deve essere smodato; se non può dimenticare la sua donna, se non riesce a scacciarne il ricordo, se Glicera è passata ad un altro amore, non è il caso di scrivere elegie eccessivamente piagnucolose:
Albio, tu non macerarti oltre misura nel ricordo
dell'implacabile Glicera; non insistere
con flebili elegie, perché uno più giovane di tè,
infrante le promesse, abbia avuto la meglio.
Poema di viaggi e d'avventure, di guerre e d'amore; celebrazione del regime augusteo e riaffermazione del mos maiorum come ideale modello di virtù civili e religiose, "l'Eneide" costituisce il testo fondamentale della civiltà classica dell'Occidente. Virgilio si prefigge l'imitazione di Omero e l'esaltazione di Angusto a partire dai leggendari antenati troiani e latini: un intreccio di motivi perfettamente fusi nel tessuto poetico scandito dall'esametro epico, flessibilissimo e ordinato. Un Omero capovolto: il peregrinare di Enea non è una ricerca della via del ritorno ma una navigazione verso l'ignoto; i combattimenti non sfociano nella distruzione di una città, ma nella fondazione della nuova capitale, Lavinio, da cui Alba Longa e la gloria di Roma. Il mondo augusteo è visto da un punto d'osservazione infinitamente lontano nel tempo: squarci profetici inseriscono nella trama narrativa schegge del presente in cui vive il poeta, così come certi flash-back riallacciano l'età repubblicana al passato mitico dell'epopea di Troia.
Con questo sesto volume, si conclude l'edizione "dell'Eneide" pubblicata per iniziativa della Fondazione Valla, col commento di Ettore Paratore e nella traduzione di Luca Canali. I libri XI e XII sono libri di guerra e di morte. Mai, come nella descrizione dello scontro di cavalieri e cavalli intorno a Camilla, Virgilio aveva rivelato la sua ferocia intellettuale, una ferocia quale non si trova mai in Omero: che orgia di sangue, che demoniaca torsione di membra, che meraviglioso manierismo michelangiolesco. Ma la morte lascia in noi un segno più profondo delle battaglie. Ecco il corpo di Pallante, disteso su un graticcio di corbezzoli e rami di quercia, simile a una viola o a un giacinto che, spiccato dalla mano di una fanciulla, non smarrisce la sua bellezza ma non è più nutrito dalla terra. Ecco i roghi dei cadaveri sulla spiaggia, i neri fuochi che nascondono il ciclo, i terribili ululati, il suolo che si bagna di lacrime. Ecco Camilla, incarnazione di tutto quanto vi può essere di selvaggio nella natura femminile, che muore: "a gradi si sciolse fredda da tutto il corpo e posò / il languido collo e il capo preso dalla morte". Ora che la fine incombe su di lui, Turno ci stringe il cuore. Avanza in silenzio, con lo sguardo immobile, le gote languenti e in volto un patetico pallore giovanile: la sua sicurezza si incrina: tutto gli sembra perduto. Guarda la città con follia mista a tormento e amore agitato dalla furia. Compie cinque giri di corsa, ripetendo i gesti di Ettore nell'Iliade. La sorella, la ninfa Giuturna, lo abbandona; una lugubre civetta lo atterrisce; e invano si sforza di scagliare, un macigno contro Enea: "E come in sogno, di notte, quando una languida quiete / grava sugli occhi, ci sembra di voler inutilmente intraprendere / avide corse, e durante il tentativo cadiamo sfiniti; / la lingua impotente, le forze consuete del corpo / svaniscono, e non escono voce o parole...". Non gli resta ormai che morire.
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
COMMENTO
Abbreviazioni bibliografiche usate nel Commento
Libro undicesimo
Libro dodicesimo
Come la Bibbia, la "Poetica" di Aristotele è uno dei libri che gli uomini, nei secoli, hanno interrogato più intensamente. Dall'antichità classica al Rinascimento, dal Romanticismo al nostro tempo, le hanno chiesto cosa fosse la poesia: come purificasse l'animo, da quali passioni ci liberasse: cosa l'epica e la tragedia, quali i caratteri tragici, cosa il linguaggio e la metafora; quale lo spazio in cui deve muoversi la parola poetica.
Dopo tanti secoli, questo piccolo testo sta ancora davanti a noi come un enigma di densità quasi indecifrabile; e, a volte, abbiamo l'impressione di assistere ad un dialogo tra un maestro infinitamente maturo ed esperto e i suoi discepoli, che conoscono ogni piega del suo pensiero e ai quali egli può parlare con allusioni di una rapidità stenografica. Oggi, la "Poetica" è attuale quanto lo era per gli studiosi del Rinascimento. La descrizione fenomenologica, che Aristotele compie delle forme, delle strutture e della tecnica della poesia, può trovare una rinnovata attenzione in un tempo come il nostro che tanto interesse dedica alle forme della poesia. Alcune analisi restano insuperate. La spiegazione dell'eccellenza dell'Iliade e dell'Odisssa è, probabilmente, la più grande pagina di critica letteraria che sia mai stata scritta.
Il commento di Carlo Gallavotti muove da un dibattito continuo con la lettera e lo spirito della "Poetica". Propone molte nuove lezioni in luoghi fondamentali; e, partendo sempre dal testo, interpreta espressioni e passi, illumina rapporti insospettati, chiarisce problemi e situazioni culturali, illustra in modo inedito teorie, e, con rapide intuizioni, ci porta di colpo nel cuore del sistema filosofico di Aristotele. In questa edizione critica e in questo commento, gli studiosi troveranno moltissime novità: tutti i lettori colti saranno trascinati dalla drammatica freddezza scientifica con cui ogni problema viene affrontato ed esaurito.
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
Commento
Appendici
Il piacere della mimesi catartica
Nota sulla costituzione del testo
Nota bibliografica
Indice di termini tecnici e vocaboli connessi
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Da "Lineamenti storici della "Poetica" di Aristotele"
Questo trattato di Aristotele sulla poesia costituisce la prima indagine sistematica, condotta con vigoroso spirito analitico, che sia stata dedicata all'arte poetica nell'antichità. È un'opera di estremo interesse nella storia della cultura e di forte originalità nella storia del pensiero; il suo influsso è stato notevole nella cultura antica, ma forse di più in quella moderna, a cominciare dal Cinquecento. Da allora ha dominato, come è noto, sul gusto e le teorie artistiche e sulla pratica dell'arte, per molto tempo. In parecchie intuizioni contenute nell'analisi aristotelica anche i sistemi filosofici recenti, dal positivismo all'idealismo e più ancora lo strutturalismo, possono ravvisare precedenti e anticipazioni fondamentali per una parte o per l'altra delle loro dottrine. Di qui l'attualità del pensiero aristotelico, e perciò si vuole qui riproporre l'opera ancora una volta alla considerazione del lettore moderno. In ciò consiste il suo fascino, per la storia del pensiero; d'altra parte, molte rapide annotazioni e giudizi sulle opere poetiche e alcuni accenni alle discussioni sull'arte, che si facevano al tempo dell'autore stesso, ci disvelano all'improvviso vivacemente quel fermento letterario che Atene riassumeva in sé verso la fine del quarto secolo a.C., quasi al termine di quella conquista umana nel campo artistico che era durata qualche secolo e che è rimasta paradigmatica ai nostri occhi ancor oggi.
È un'opera acroamatica, cioè dedicata da Aristotele al cerchio ristretto dei propri uditori, iniziati alla scuola peripatetica: acróama significa audizione; sono quasi appunti per un corso di lezioni, ma in una trama lungamente meditata e saldamente congegnata. La struttura dell'opera è chiara, nel suo schema essenziale, che si riflette all'ingrosso nella moderna ripartizione in capitoli:
1-3. Teoria generale delle forme della, mimesi poetica, ossia mezzi, oggetti, e modi dell'arte.
4-5. Giustificazione naturalistica della poesia come mimesi, e suo sviluppo storico nell'epica, nella commedia, e nella tragedia.
6. Definizione della tragedia e dei suoi elementi qualitativi rispetto alle forme dell'arte: racconto, carattere, pensiero (come oggetto della mimesi), lingua e musica (come mezzo), azione scenica (come modo).
7-12. Teoria del racconto come struttura di un'unica vicenda drammatica; gli elementi del racconto (peripezia, riconoscimento, sciagura) e le partizioni materiali della tragedia (prologo, episodi, esodo, e corali).
13-18. Qualità essenziali ed effetto della composizione tragica attraverso gli elementi del racconto e l'elemento del carattere e gli accorgimenti tecnici.
19-22. Teoria della lingua e particolarità del linguaggio poetico.
23-24. Aspetti dell'epopea in confronto alla composizione tragica.
25. Criteri di lettura e di giudizio delle opere poetiche.
26. Attualità della tragedia.
Nel complesso è un'analisi intensa e minuziosa, e assolutamente pragmatica, del fatto artistico o meglio della tecnica della composizione poetica, e in particolare della tragedia; l'analisi si sviluppa secondo una linea precisa e sicura, ma con frequenti rimandi interni e riprese e approfondimento di concetti, con indugi e poi con rapidi sviluppi, che hanno tutta la vivezza e le disuguaglianze del discorso parlato. Di qui derivano in buona parte le difficoltà che s'incontrano per l'esegesi generale dell'opera, e per l'esatta interpretazione di molti particolari. In parecchi punti la trattazione appare stringata nei concetti, quasi stenografica nella forma; restano sottintesi o appena accennati i riferimenti alle nozioni fondamentali dell'intero sistema filosofico di Aristotele, o i riferimenti a giudizi e discussioni che si facevano giornalmente nel cerchio degli iniziati. Restano impliciti anche tutti gli elementi di polemica antiplatonica, che si scoprono agevolmente nello scritto, quando si tengano presenti il dialogo sulle "Leggi" di Platone, e soprattutto i libri secondo e terzo della "Repubblica" e il decimo.
L'indagine di Aristotele è difatti, nel suo interno, una rivendicazione realistica della poesia contro la condanna platonica. Al motivo ontologico della condanna dell'arte come lontana di tre gradi dalla verità (idea dell'oggetto, oggetto sensibile, imitazione dell'oggetto) il sistema filosofico di Aristotele si trovava già ad avere risposto per la massima parte, poiché rifiutava la teoria metafisica delle idee iperuranie; per l'altra parte, cioè la poesia come opera di imitazione (mimesis), Aristotele non rifiuta l'antica e tradizionale concezione dell'arte come mimesi, ma rivaluta il concetto di mimesi sotto un duplice aspetto: sia come istruzione dell'uomo, e attività teoretica che supera la realtà, sia come un superiore diletto dell'animo ; e tale diletto (hedoné) non solo viene prodotto dalla considerazione dell'abilità artistica, ma s'identifica con l'effetto della poesia (ergon) sulle disposizioni psichiche dell'uomo. Nella tragedia tale effetto si produce attraverso vicende rappresentate (mimesi) che destano "commiserazione" e "terrore", nel senso tecnico che Aristotele ha spiegato anche "nell'Etica" e nella "Retorica"; ma tali vicende producono nell'animo umano, e sulla passionalità latente in ciascuno, quel sollievo liberatore della eccessiva passionalità, ossia quella kátharsis, che deriva dalla considerazione di sciagure altrui, quando sono reali, e tanto più quando sono soltanto rappresentate. Sui concetti fondamentali di mimesi e di catarsi, oltre le note di commento al testo, si veda l'Appendice.
Con ciò Aristotele ha risposto anche al secondo motivo della condanna platonica della poesia, e di tragedia e commedia in particolare, in quanto fomentatrici di violenti moti passionali. Ma a tale motivo di ordine etico Aristotele risponde anche, nel suo trattato, con tutte quelle indicazioni e avvertenze che si presentano come una precettistica, cioè come una regolamentazione del mestiere di poeta. Forse è questa la parte che risulta più ostica al lettore moderno; ma occorre notare fin d'ora che tale precettistica deriva anzitutto dalla concezione della poetica (arspoetica) come un mestiere.
Monumento supremo del classicismo di primo Ottocento, l'Iliade montiana riuscì nell'ardua impresa di mettere d'accordo, unendoli in un consenso senza riserve, classicisti e romantici. Come scrisse infatti Madame de Staël nel "manifesto" del Romanticismo italiano, "l'Europa certamente non ha una traduzione omerica, di bellezza ed efficacia tanto prossima all'originale, come quella del Monti [...]. Niuno vorrà in Italia por lo innanzi tradurre la Iliade, poiché Omero non si potrà spogliare dell'abbigliamento onde il Monti lo rivestì". Sull'unicità e grandezza della traduzione montiana si sofferma anche l'introduzione di Michele Mari. Sottolineata soprattutto l'eccezionale unità di tono del poema, il curatore analizza i passaggi che, in un interminabile labor limae, portarono Monti alla stesura della quarta e definitiva versione, quella del 1825 qui presentata, e fornisce un ricco apparato di commento delle più significative varianti rispetto alle precedenti edizioni.