Curata da uno dei maggiori studiosi di Shakespeare, Giorgio Melchiori, l'edizione presenta il testo critico inglese a fronte delle traduzioni eseguite da scrittori come Montale, Luzi, Quasimodo, Wilcock o da insigni specialisti. Un ricco apparato di note accompagna ogni volume. Il secondo tomo de I drammi storici riunisce una parte delle opere appartenenti al genere da Enrico VI a Riccardo III.
La dottrina delle categorie costituisce uno dei capisaldi del pensiero aristotelico. In essa, Aristotele fornisce il fondamento teorico di una concezione della realtà caratterizzata dal primato della sostanza individuale e della multivocità dell’ente. Partendo dalle definizioni di omonimia, sinonimia e paronimia, Aristotele traccia i presupposti per la formazione di colonne di predicati di cui le categorie costituiscono i più universali. Segue un elenco di dieci categorie e l’analisi di quelle della sostanza, della quantità, della relazione e della qualità. Il ricchissimo saggio introduttivo di Marcello Zanatta esamina la genesi e il significato dottrinale delle categorie; l’amplissimo commento chiarisce punto per punto l’impianto argomentativo dell’opera.
Con questo nuovo grande commento alle Storie di Erodoto, al quale hanno partecipato studiosi inglesi, israeliani e italiani, la Fondazione Lorenzo Valla vuole rendere omaggio al padre della storiografia europea: all'uomo che simboleggia la passione dell'Occidente per tutto ciò che non gli appartiene. Quante cose aveva contemplato Erodoto! Mentre leggiamo le Storie, lo vediamo ancora, animato da una curiosità insaziabile verso la totalità dell'esistenza, entrare nei templi e "osservare, conversare, porre domande, ascoltare, riflettere, paragonare, sollevare problemi, ragionare, talvolta concludere". Egli considera con attenzione e rispetto tutto ciò che fa l'uomo - tutte le nostre imprese gli sembrano degne di interesse o memorabili. E, insieme, sparge un'onnipresente ironia sugli orgogli, le vanità, le pretese, le follie, la hybris dell'uomo. "Nulla è sicuro tra le cose umane". "Tutto nell'uomo è caso e circostanza". Nella nostra vita si fondono l'iridescente imprevedibilità del caso, la ferrea necessità del destino, la strana partecipazione degli dèi - verso i quali egli prova un'ellenica mescolanza di venerazione e diffidenza. Prima o dopo di lui, nessuno ha mai saputo orchestrare così perfettamente una storia totale: i fatti politici, economici, militari, i costumi, le leggende, le favole, il folclore, la geografia, i monumenti si equilibrano in quest'opera che respira l'immensità e la libertà degli spazi aperti. La mente di Erodoto è complessa, molteplice, intrecciata, polimorfa. Quando egli insinua un tema dentro l'altro, e poi ancora un altro, e poi un altro ancora, quando procede a inserti e parentesi successive e scatole cinesi, come a mimare "l'infinito labirinto di concatenazioni" nel quale consiste l'universo, - noi pensiamo ai lontanissimi intarsi, alle ramificazioni di Henry James. Ma poi, se egli vuole, riesce a sembrarci semplicissimo: candido come un barbaro o un bambino. Molto spesso fatichiamo a capire cosa pensi e quale sia il suo punto di vista. Forse è inutile chiedergli un giudizio. Forse dobbiamo soltanto abbandonarci al suo talento di narratore : al senso prodigioso che egli ha della fluidità del tempo - allo scorrere del mondo e del racconto come, diceva Cicerone, "un fiume quieto", che muove da un punto ignoto e si perde chissà dove, oltre ogni limite.
Indice - Sommario
Introduzione generale
Bibliografia generale
Il testo delle Storie
Abbreviazioni bibliografiche
Introduzione al Libro I
Tavola genealogica
Nota al testo del Libro I
Sommario del Libro I
Cartine
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
Il Libro I delle Storie
Scoli
Lessico
COMMENTO
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione generale
1. "Questa è l'esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso..,": con queste parole famose si apre il primo libro. Non esiste certezza assoluta sull'autenticità di questa frase. Uno scrittore del primo secolo d.C., Tolemeo Hephaistion o Chennos ("quaglia") l'attribuiva ad un innografo tessalo, un certo Plesirrhoos, amato da Erodoto e suo erede. E una testimonianza alla quale nessuno da più peso, da quando la dichiarazione di questo Tolemeo venne catalogata come Schwindelphilologie ("filologia truffaldina"); tuttavia, poiché non è mancato chi catalogasse, anche di recente, l'opera dello stesso Erodoto in una simile categoria, la Schwindlerei letteraria greca sembra divenire una nozione piuttosto relativa. E possibile che l'autenticità della frase iniziale fosse discussa già in antico e che Tolemeo avesse cercato di risolvere il problema in maniera piccante. In ogni caso, questa frase è un'intitolazione. Figurava probabilmente all'inizio e alla fine dell'opera (come nella copia posseduta da Dionisio d'Alicarnasso) oppure sul sillybos o index sporgente dal rotolo nelle biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Autentica o no, questa frase famosa ci dice poco o nulla sulla personalità dello scrittore: appena il nome e l'etnico. Ci informa di più sul tema e sullo scopo dell'opera: ma di questo si parlerà in seguito.
E buona regola ricercare i dati biografici di uno scrittore antico nelle opere di quello stesso scrittore, e non servirsi di ricostruzioni apocrife. Purtroppo, a parte le notizie sui viaggi, Erodoto ci dice ben poco di sé. Era convenzione dell'epica greca arcaica, passata poi alla storiografia, che lo scrittore non dovesse parlare di sé quando l'argomento non lo richiedeva. Erodoto, però, è costantemente presente: leggerlo è come sentirlo parlare. Io, me, mio, a me, noi al pluralis maiestatis, ricorrono centinaia di volte in riferimento alla sua persona. Erodoto ci fa ripetutamente partecipi di ciò che pensa, di ciò che ha visto o udito, di cosa si propone di raccontare, con chi ha conversato; esprime dubbi, ragionamenti ed opinioni, invoca persino gli dei. Tuttavia, di sé da pochissime notizie concrete. Dice di esser stato in Egitto, a Tiro, in Arabia; di aver conversato con l'agente di un re scitico, e - se non parla ironicamente - ci fa capire che la sua famiglia possedeva una genealogia (II 143,1), ma non forse un capostipite divino, elemento in base al quale può essere messa in dubbio una sua origine aristocratica. Gli ultimi eventi ricordati da Erodoto appartengono ai due primi anni della guerra del Peloponneso (431/30 a.C.): quindi, sembrerebbe legittimo concludere che la sua attività di scrittore sia terminata non molto dopo quegli anni. Questo è tutto quanto si possa ricavare direttamente dall'opera sulla vita del suo autore. Indirettamente, si possono aggiungere i paragoni che egli fa talvolta con misure e distanze attiche, delie, ioniche e magnogreche: se ne deduce che voleva farsi comprendere dal pubblico di queste regioni.
Per altre informazioni biografiche è necessario volgersi ad altre fonti, lontane anche di secoli e di ambienti culturali diversi. La breve biografia riportata sotto la voce "Erodoto" nel lessico bizantino Suida dice così: "Erodoto: figlio di Lyxes e Dryo, di Alicarnasso, uno degli illustri (locali). Aveva un fratello: Theodoros. Si trasferì a Samo per via di Ligdami, colui che, a partire da Artemisia, fu il terzo tiranno d'Alicarnasso... A Samo si impratichì del linguaggio ionico e scrisse storia in nove libri, a cominciare da Ciro e Candaule re dei Lidi. Dopo essere ritornato ad Alicarnasso ed aver espulso il tiranno, si vide più tardi odiato dai cittadini, ed andò volontariamente a Turi, che era colonizzata dagli Ateniesi. Là morì e fu sepolto nell'agoni: alcuni però dicono che morì a Pella...". A questi si possono aggiungere i dati riferiti nello stesso lessico sotto altre voci: che Erodoto era il nipote o il cugino del poeta e divinatore Paniassi, messo a morte dal tiranno Ligdami; che soggiornò con lo storico di Lesbo Ellianico alla corte macedone di Pella; che dopo una lettura pubblica delle Storie, durante la quale il fanciullo Tucidide versò molte lacrime, Erodoto confortò Oloro, il padre di Tucidide.
Dall'introduzione al libro I
Il primo libro delle Storie prefigura l'intera opera di Erodoto e ne costituisce in un certo senso la quintessenza. Tutti gli elementi caratteristici di contenuto e di forma, di pensiero e di stile, si presentano subito e distintamente al lettore. Si estende immediatamente la panoramica universale della storia erodotea: l'umanità del sesto secolo a.C., Oriente e Occidente, civiltà e conflitti, continuità e mutamenti, i popoli e i grandi protagonisti. Lo spazio geografico si apre a Sardi, Mileto, Efeso nell'Asia minore occidentale, con salti in Grecia, a Corinto, a Delfi, ad Atene e a Sparta; si passa in Media, da Ecbatana e da Ninive al Caucaso, nella Filistia, in Persia; si ritorna in Asia minore, in Lidia, nella Ionia e nelle isole, in Caria e in Licia, con punte ad Occidente, in Corsica, Etruria, Lucania; la scena si trasferisce a Babilonia e si chiude nel paese dei Massageti, ad oriente del mar Caspio. È un giro del mondo arcaico in duecentosedici capitoli, grazie al quale si visitano anche i centri maggiori del dramma storico che si svolgerà nei libri successivi: la Persia, la Ionia, Atene, Sparta. Lo spazio cronologico del nucleo principale del racconto è il trentennio che va dall'inizio del regno di Creso alla morte di Ciro il Grande (560-30 a.C.), con punte digressive nel passato remoto dei Lidi e degli Assiri sino al tredicesimo secolo a.C., dei Medi sino all'ottavo, degli Ateniesi e degli Spartani sino all'alto sesto secolo. Sui due grandi protagonisti, Creso e Ciro, si fonda l'intera struttura del libro, che anche in questo prefigura il resto dell'opera, tutta articolata intorno alla serie dinastica dei re achemenidi, da Ciro a Serse.
A parte i capitoli introduttivi (1-5), il primo libro può infatti suddividersi facilmente in due logoi principali: il logos di Creso (6-94) e il logos di Ciro (95-216). L'ipotesi che originariamente esso fosse composto di tre logoi (1-94; 95-140; 141-216), corrispondenti a tre rotoli di papiro, va incontro alla banale difficoltà che la lunghezza di queste tre parti è sensibilmente diversa, mentre il rotolo di papiro andrebbe inteso proprio come unità di lunghezza. Nulla si oppone invece all'ipotesi che il primo libro occupasse originariamente due rotoli di circa sette metri ciascuno, corrispondenti in questo caso ai due logoi suddetti. Il "primo logos" (così lo chiama lo stesso Erodoto) è dedicato alla Lidia, con al centro il suo ultimo re. Erodoto riassume in brevi frasi introduttive le notizie essenziali su Creso, "colui che io so essere stato il primo ad aver fatto torto ai Greci", per giustificare il punto di partenza della sua ricerca: la "causa", per cui Greci e barbari si fecero guerra, è dopo tutto un proposito deliberatamente espresso dall'autore nella frase iniziale dell'opera. Erodoto passa quindi ad un breve prologo sui re lidi anteriori a Creso: i re autoctoni ed eraclidi sino a Candaule, ed i primi quattro Mermnadi (tre dei quali ebbero per primi rapporti ostiti con i Greci d'Asia minore); il quinto è Creso, il cui regno termina con la caduta di Sardi nelle mani di Ciro (546 a.C.). In questo prologo, che essenzialmente presenta una lista cronologica di regni, alcuni eventi bellici con aneddoti e le prime offerte lidie al tempio di Delfi, spiccano due racconti famosi: la storia di Candaule e Gige e la favola di Arione. Dal cap. 26 al cap. 94 il tema principale è il regno di Creso. Formalmente fedele all'impegno dichiarato, Erodoto apre con una breve rassegna delle ostilità e dei progetti espansionistici di Creso verso la costa ionica e le isole adiacenti; in seguito, però, non si parla più di questi rapporti ostili: anzi, il re lidio emerge come un benefattore filelleno in stretti rapporti con Delfi, che cerca l'alleanza dei Greci contro il pericolo persiano: c'è un divario evidente fra proemio e primo logos. Prima di passare alle vicende storiche del conflitto lidio-persiano, Erodoto inserisce due altri famosi brani novellistici: il dialogo di Creso e di Solone sulla felicità umana con le storie anch'esse ben note di Tello d'Atene e degli argivi Cleobi e Bitone, e la tragica storia di Atys e Adrasto. La morale di questi racconti, chiaramente premonitoria, deve tratteggiare la figura tragica di Creso, che dall'arroganza ingiustificata passa alla perplessità e al dolore. Si perviene quindi al tema principale: la minaccia persiana ed il ricorso di Creso all'appoggio dei Greci, dei loro oracoli, lautamente ricompensati con ricche offerte, e delle loro milizie. Creso vorrebbe l'appoggio delle due città-stato più importanti, Atene e Sparta. Ciò giustifica l'inserimento di due coppie di digressioni: una, più breve, sugli Ateniesi discendenti dei Pelasgi e sui Dori del Peloponneso discendenti di Elleno, ed una su Atene al tempo di Pisistrato e su Sparta intorno alla metà del sesto secolo. Solo Sparta a quel tempo era in grado di promettere l'appoggio richiesto; Creso, quindi, incoraggiato dall'oracolo delfico e dalle promesse spartane, traversa con le sue truppe il fiume Halys ed invade la Cappadocia. Dopo una battaglia non decisiva, Creso si ritira, Ciro invade la Lidia, sgomina l'esercito di Creso nella piana dell'Ermo ed assedia Sardi. Creso chiede allora l'aiuto che gli Spartani avevano promesso, ma gli Spartani proprio in quel periodo sono impegnati in un guerra contro Argo per il possesso della Tireatide: Sardi cade in mano ai Persiani dopo appena quattordici giorni di assedio, Creso è fatto prigioniero, posto sul rogo e poi graziato, cominciando così la sua carriera di consigliere del re persiano. Con ulteriori notizie sulle offerte di Creso agli oracoli greci e due capitoli storico-etnografici sulla Lidia, si conclude il "primo logos" di Erodoto.
Con postille e cenni introduttivi del prof. R. Fornaciari, riveduti dal prof. Piero Scazzoso. Nuova edizione ad uso delle letture pubbliche e delle Scuole
Per Plutarco, il mito è qualcosa di infinitamente complesso : i suoi cultori dovrebbero indossare le vesti variopinte di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, di ondeggiante, di contraddittorio. Di una sola cosa Plutarco sembra certissimo: non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o in un semplice fatto naturale, come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Quello che caratterizza ogni mito è la straordinaria ricchezza degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo in termini demoniaci, matematici, alfabetici, naturali, religiosi ; e mentre lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere valori contrastanti, può significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove il " principio di non contraddizione " è caduto.
Le "Vite di Teseo e di Romolo", commentate con grande erudizione e finezza da Carmine Ampolo in questo volume, riguardano eventi che si collocano prima dei fatti storici, nell'oscurità mitica. Come nelle carte geografiche, oltre le terre conosciute, gli antichi geografi disponevano segni per indicare "deserti" o "zone infestate da belve" o "paludi inesplorate" o "ghiaccio scitico", così Plutarco avanza nei territori favolosi che appartenevano di solito ai poeti tragici e ai mitografi. Il suo procedimento è molteplice. Da un lato egli, che venera l'elemento divino puro e incontaminato, non vuole vederlo troppo mescolato all'elemento umano; e dunque nega o razionalizza le leggende mitiche. Ma, d'altro lato, quando è convinto che il sacro si è calato tra noi, ne riconosce con commossa venerazione il passaggio sulla terra. Invece di abbandonarsi alla sua vocazione di grande ritrattista, evita di chiudere la materia mitica in un profilo psicologico. Non c'è un " personaggio " Teseo o un " personaggio " Romolo - come esistono, invece, l'Antonio o il Cesare di altre Vite. Qui Plutarco racconta incarnazioni celesti, descrive con amore istituzioni religiose e riti, tradizioni strane e curiose, oppure, con una specie di brivido, si inoltra nello spessore barbarico, fosco e brigantesco, che avvolge e nasconde i miti greci e romani.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
Tavole
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
Scolî
COMMENTO
La vita di Teseo
La vita di Romolo
Confronto fra Teseo e Romolo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. Plutarco nel territorio del mito. Nelle pagine iniziali della "Vita di Teseo" (1-2) Plutarco chiarisce i motivi della scelta della coppia Teseo-Romolo, ma giustifica soprattutto la sua decisione di occuparsi dell'età delle origini di Atene e di Roma, un'epoca ai confini della storia. Spiega il suo atteggiamento con un parallelo felice ed efficace con la cartografia: come nelle carte inserite nei libri di storia si mettevano nelle zone marginali indicazioni su terre inesplorate e invivibili, cosi egli, che ha già trattato in altre Vite l'età dei fatti accertabili o verosimili, potrebbe affermare ora che tocca i territori dove abitano poeti e mitografi, terre in cui non esiste certezza storica.
Il campo della storia viene delimitato con chiarezza e distinto dal campo della poesia e del mito, secondo una tendenza ben attestata e diffusa, anche se molto contrastata e spesso ignorata volutamente da parte dell'erudizione antica. Com'è noto, esisteva un'antica discussione sulla legittimità, l'opportunità e la possibilità stessa trattare l'età più antica, l'epoca delle origini di popoli e di città, di cui molti si dilettavano e di cui soprattutto si teneva conto nella vita politica interna e internazionale. In genere la storiografia locale si interessò sempre delle origini; basti pensare agli attidografi (da Ellanico in poi), benché la grande storiografia greca, prima del quarto secolo, avesse seguito vie sostanzialmente diverse: sono note le gravi riserve espresse da Tucidide (I 1,3 e 20,1), che pure aveva saputo scrivere pagine di storia antichissima (la cosiddetta "archeologia" del primo libro e la "archeologia siciliana" del libro sesto).
Un buon esempio della discussione sull'opportunità di scrivere delle origini oppure di storia recente o contemporanea è offerto dal primo libro del de legibus di Cicerone. Qui, discutendo appunto di verità poetica e di verità storica, della storiografia romana in confronto a quella greca, Attico, in polemica con Quinto Cicerone, preferisce nettamente la storia contemporanea al sentir parlare de Remo et Romulo (I 3,8). A loro volta, due storici ben noti a Plutarco, come Dionisio d'Alicarnasso e Tito Livio, pur cosi diversi, sentono entrambi il bisogno di giustificare la propria trattazione delle epoche più antiche. Malgrado le difficoltà e l'ampiezza del lavoro di ricerca, Dionisio d'Alicarnasso risale con decisione a tempi remoti; deve premettere tuttavia una sorta di autodifesa dalle critiche, che gli sarebbero state rivolte per essersi occupato delle oscure origini di Roma, e deve sostenere che i primordi della città potevano essere ricostruiti in modo veritiero e che essi avevano un carattere greco e illustre (I, 4-5; cfr. I 8). Livio invece si diceva sicuro che i lettori avrebbero apprezzato poco la sua trattazione dell'età delle origini, mentre si sarebbero affrettati a leggere la storia più recente (praefatio 4); specificava inoltre come le tradizioni relative all'età che precedette la fondazione di Roma fossero più abbellite da leggende poetiche di quanto fossero documentate: così, da parte sua, non intendeva ne accettarle ne respingerle. Ancora in tempi più vicini a quelli di Plutarco, Flavio Giuseppe nell'introduzione alla Guerra giudaica (5-6) dichiarava la sua preferenza per la storia contemporanea, criticando chi "riscriveva" la storia antica.
L'atteggiamento di Plutarco e le sue spiegazioni sono condizionate - com'è chiaro - da questa antica discussione. Il dilemma, storia antica o storia contemporanea, imponeva una scelta tanto di campo storico quanto di fonti. In tal modo, come nella Vita di Nicia (1,5) Plutarco aveva chiarito che da biografo intendeva solo integrare la grande storiografia con la ricerca di altri elementi trascurati, servendosi di fonti documentarie (iscrizioni votive, decreti)', così affrontando le origini di Atene e Roma spiega come abbia dovuto dare ascolto all'elemento leggendario, ma cercando sempre di razionalizzarlo e di renderlo verosimile. Aveva già espresso il suo scetticismo con forti perplessità a proposito di Licurgo (Lyc. i) e della stessa cronologia di Numa Pompilio, quando aveva riportato il giudizio negativo dello storico romano Clodio sulle genealogie. Non gli restava dunque che seguire il razionalismo della storiografia greca, passato anche a storici e antiquari romani, facendo appello alla comprensione dei lettori, come Livio aveva già fatto (praefatio 7). Per giustificare, ancora una volta, il carattere poco credibile del racconto dell'infanzia di Romolo e Remo (Rom. 8,9) ricorre a un argomento estremo, anch'esso forse una reminiscenza liviana (cfr. praefatio 7): si può credere alle origini divine di Roma se si pensa al grado di potenza che essa ha raggiunto.
Vediamo quali sono le caratteristiche del razionalismo di Plutarco. Come Plutarco abbia considerato il mito e la conoscenza mitica, è problema che esula da questa Introduzione: andrebbe affrontato in un esame globale della sua figura e della grandiosa attività di documentazione e di interpretazione mitologica attestata dai Moralia. Qui, vogliamo soltanto affrontare un problema più limitato: la sua interpretazione dei miti arcaici greci e romani.