Metafisica: ecco la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel). Un fuggire che, a furia di decostruzioni, oltrepassamenti, dichiarazioni di morte o di inesorabile, fatale compimento nelle forme della razionalità scientifica, ha finito col diventare una sorta di habitus del pensiero contemporaneo. E tuttavia, ripercorrendo contropelo le filosofie classiche e i grandi sistemi del razionalismo moderno, così come le più ardite e recenti teorie della scienza, è possibile riscoprire ciò che di quel termine rimane inaudito: la tessitura che collega l'essente in quanto osservabile e determinabile allo s-fondo della sua provenienza e del suo imprevedibile avvenire; la relazione tra la theoría della cosa sotto l'aspetto della sua caducità, nell'ordine di Chronos, e quella che cerca di esprimerla nella sua relazione al Tutto e in tale relazione giunge a considerarla res divina. Nessun 'al di là', nessuna Hinterwelt, o mondo 'dietro' tà physiká, dietro il manifestarsi di Physis. Questo mondo, e il soggetto che intende conoscerlo conoscendo sé stesso, il cui essere-possibile non si arrende al Muro dell'Impossibile, esigono di essere interrogati anche secondo una tale prospettiva. Metafisica concreta, dunque, come Florenskij, scienziato, filosofo e teologo, voleva intitolare l'opera che avrebbe dovuto concludere la sua ricerca. Filosofia e scienza possono in essa ritrovarsi ed esprimere insieme, in forme distinte e inseparabili, l'integrità e inesauribilità della vita dell'essente.
Tenuto nel 1932 e dedicato all'interpretazione di Anassimandro e Parmenide - insieme a Eraclito i «pensatori iniziali» della filosofia occidentale -, questo corso universitario rappresenta una vera e propria cesura nel percorso di Heidegger dopo Essere e tempo, e si inserisce nella celebre «svolta» inaugurata dal saggio del 1930 sull'Essenza della verità. Compito della filosofia è ormai per Heidegger, impegnato nella ricerca di tale essenza, quello di rievocare la forza delle parole più elementari del pensiero delle origini - phy?sis, alétheia, noûs, lógos - mediante una comprensione prefilosofica, cioè preplatonica e prearistotelica, del fenomeno della verità. Si tratta cioè di compiere quel passo indietro che permette di ripensare in modo ancora più iniziale l'inizio del pensiero occidentale, prima della soglia che dà accesso alla storia della metafisica: non già per operare una ricostruzione filologica e storiografica, ma nella prospettiva che tale «inizio più iniziale» possa essere «ripetuto» e, soprattutto, trasformato in un nuovo inizio, promosso da un'umanità futura in modo ancora più originario. Sicché, conclude Heidegger, «l'inizio non sta più dietro di noi, alle nostre spalle, bensì sta davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza».
Sin dal suo inizio storico la filosofia è stata la volontà di incarnare il sapere assolutamente innegabile. Ma come è possibile «la stabile conoscenza della verità», si chiede Emanuele Severino, «in un clima come quello del nostro tempo, dove non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha quasi ovunque voltato le spalle a ciò che essa ritiene il "sogno" di un sapere siffatto». In realtà, già nel modo in cui la «scienza della verità» compie i primi passi è presente l'errare più radicale in cui l'uomo possa trovarsi, quello che per Severino è la Follia estrema: «la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono ... affermando che l'evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano». Tutta l'opera di Severino, sin dal suo primo libro ("La struttura originaria", 1958), è volta dichiaratamente allo «smascheramento della Follia di questa fede», per «consentire al linguaggio di testimoniare l'assoluta innegabilità del destino della verità». E in queste pagine l'intero percorso viene ripresentato nell'insieme dei suoi tratti fondativi, con l'approfondimento di alcuni temi centrali quali l'interpretazione, il rapporto tra destino e scienza, l'essenza linguistica del sapere originario, il senso ultimo dell'esser uomo e la storia infinita dell'uomo, il senso della salvezza. Un percorso, dunque, attraverso l'intero 'terreno' di Severino, da cui il lettore potrà spaziare con lo sguardo: «Non basta possedere un campo: bisogna coltivarlo. Il campo di cui qui si tratta è l'insieme dei 'miei scritti'. Un linguaggio, dunque. E anche questo libro intende indicare l'autentica "pianura della verità"».
L'interesse di Heidegger per Aristotele, testimoniato da questo corso universitario che il filosofo tenne nel 1924, si colloca nel periodo cruciale dell'elaborazione dell'analitica ontologico-esistenziale di Essere e tempo. In particolare, nell'analisi della Retorica aristotelica compaiono già, in nuce, alcuni 'concetti fondamentali della filosofia heideggeriana' - come "Dasein" (esserci) , "In-der-Welt-sein" (essere nel mondo) e "Befindlichkeit" (il sentirsi situato, la situatività, e anche la situazione emotiva) - destinati a lasciare un segno indelebile nella filosofia del Novecento. Ma, soprattutto, Heidegger si impegna qui - come raramente in seguito - in una brillante fenomenologia dei "pàthe", delle «passioni», e del ruolo determinante che esse svolgono nella vita e nell'esistenza dell'uomo. La messa in questione del tradizionale privilegio accordato agli atti intellettivi superiori che questo implica suggerisce l'idea che siano costitutivi dell'uomo, allo stesso titolo della ragione, anche gli elementi 'inferiori', quali la sensibilità, le affezioni e le passioni.
Gli scritti di Severino indicano un senso della "storia" profondamente diverso da quello presente nelle varie forme di cultura: nel suo significato più radicale la storia è l'infinito e sempre più ampio apparire degli eterni in ognuno dei "cerchi dell'apparire del destino della verità". Ogni cerchio è l'essenza di ciò che chiamiamo "un uomo". Gli eterni, quindi, non sono res gestae. Che esistano res gestae - cose che son fatte esistere e che escono poi dall'esistenza - è la "follia estrema". Solo gli eterni hanno Storia, solo essi possono "morire" e rimanere eterni: la loro Storia prosegue all'infinito anche dopo la loro morte. La totalità infinita degli eterni è la Gioia, la Pianura che dà spazio all'infinito, e sempre più ampio, apparire degli eterni nella "costellazione" dei cerchi.
Molto tempo prima che venisse coniato il semplicistico termine di «globalizzazione», Carl Schmitt aveva visto, con lucidità profetica, come «l'universalismo dell'egemonia anglo-americana» fosse destinato a cancellare ogni distinzione e pluralità spaziale in un «mondo unitario» totalmente amministrato dalla tecnica e dalle strategie economiche transnazionali, e soggetto a una sorta di «polizia internazionale». Un mondo spazialmente neutro, senza partizioni e senza contrasti – dunque senza politica. Per Schmitt non il migliore, ma il peggiore dei mondi possibili, sradicato dai suoi fondamenti tellurici. Fedele alla justissima tellus, Schmitt persegue invece l'idea che non possa esservi Ordnung (ordinamento) mondiale senza Ortung (localizzazione), cioè senza un'adeguata, differenziata suddivisione dello spazio terrestre. Una suddivisione che superi però l'angustia territoriale dei vecchi Stati nazionali chiusi, per approdare al «principio dei grandi spazi»: l'unico in grado di creare un nuovo jus gentium, al cui centro ideale dovrebbe tornare a porsi l'antica terra d'Europa, autentico katechon di fronte all'Anticristo dell'uniformazione planetaria nel segno di un unico «signore del mondo». Certo è che la prospettiva di Schmitt, già delineata ottant'anni fa, appare oggi più attuale che mai, e il suo pensiero si conferma come essenziale per la lettura della nostra epoca. Lo testimonia eloquentemente questa ampia raccolta di saggi, che, scritti nell'arco di un cinquantennio – da Il concetto del politico (1927) a La rivoluzione legale mondiale (1978) –, compongono una vera e propria summa della sua speculazione sulla politica e il diritto internazionale.
La parola dike, comunemente tradotta con "giustizia", nasce in un contesto religioso e poi giuridico, ma ha in realtà un significato più profondo, che compare per la prima volta nella più antica testimonianza del pensiero filosofico: il frammento di Anassimandro. Si può dire che l'avvento della filosofia coincida con l'avvento di tale significato - quello che Aristotele chiama "il principio più stabile". Dike designa l'incondizionata stabilità del sapere. E richiede la stabilità incondizionata dell'essere. Riguarda tutto ciò che l'uomo può pensare e può fare. In rapporto con essa si svolge l'intera storia dell'Occidente. Se nel "Giogo" Severino aveva puntato l'attenzione sulla conseguenza decisiva per l'uomo della tradizione occidentale, resa esplicita da Eschilo, ovvero che l'incondizionata stabilità del sapere e dell'essere è il "vero" rimedio contro il dolore e la morte, e sul rapporto tra Eschilo e Anassimandro, in questa sua nuova opera si volge invece verso le radici di quel significato. Soprattutto perché dike e l'Occidente, che ne è dominato, sfigurano il volto della stabilità autentica: il volto del destino della verità. Affrontando il rapporto tra il puro volto del destino e il suo volto sfigurato da dike, questo libro compie alcuni passi avanti rispetto agli scritti precedenti, da cui pure trae origine.
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali "alla moda", sulla "fine della filosofia" che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto pensiero dell'Occidente, sta la "sentenza" hegeliana: che la philosophia cessi di chiamarsi "amante" e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovvero Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio. Che il "sophós" dismetta il suo abito di eterno pellegrino e fissi la sua dimora. E questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è "ciò" che non possiamo esprimere, rappresentare, indicare se non amandolo? Il discorso filosofico-metafisico porta in sé la traccia di questa tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la sua aporia costitutiva: che l'ente è, che nella sua singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lògos ne predica, che la sua sostanza non può disvelarsi nella finitezza del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza - non differenza tra essere ed essente, ma differenza immanente alla realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello straordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio sempre più vacuo delle decostruzioni, oltre gli astratti specialismi, oltre le accademie e le scuole, sarà a tale problema, eterno "aporoúmenon", e al "timore e tremore" che suscita, che questo libro intende fare ritorno, ascoltando alcuni grandi classici della tradizione metafisica, per svilupparlo ancora una volta.
Per quanto grandi siano le speranze e le supposizioni umane," scrive Severino sulla soglia di questo suo nuovo libro "esse si accontentano di poco, rispetto a ciò da cui l'uomo è atteso dopo la morte e a cui è necessario che egli pervenga". Nel proseguire, con ammirevole rigore speculativo, quel temerario percorso filosofico che da "Destino della necessità", attraverso "La Gloria", è approdato a "Oltrepassare", Severino procede qui "risolvendo un problema decisivo, lasciato ancora aperto": se "la terra isolata dal destino è oltrepassata dalla terra che salva e dalla Gloria", nondimeno su "'questa nostra vita' - si potrebbe dire - incombe la morte, e continuamente vi irrompe". Sorge quindi un interrogativo ineludibile: "L'attesa della terra che salva continua anche dopo la morte (e che cosa appare in questo prolungarsi dell'attesa? sonno, sogni, incubi?), oppure con la morte ha compimento anche l'attesa?". Nell'architettura del grandioso edificio teoretico che il filosofo è andato solitariamente costruendo nel corso degli anni, "La morte e la terra" appare dunque un vertice dal quale lo sguardo si spinge oltre ogni confine, giacché Severino non teme di consegnare risposte definitive: "Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi all'Immenso della terra che salva della Gioia".
"È curioso, ma il problema e la nozione dell'Autorità sono stati molto poco studiati" afferma Kojève in apertura di questo libro - scritto nel 1942, ma pubblicato postumo soltanto nel 2004 -, e aggiunge: "raramente l'essenza di questo fenomeno ha attirato l'attenzione. Eppure, in tutta evidenza, è impossibile trattare del potere politico e della struttura stessa dello Stato senza sapere che cosa è l'Autorità in quanto tale. Uno studio della nozione di Autorità, sebbene provvisorio, è quindi indispensabile". E mentre "La nozione di Autorità" giaceva nel chiuso di un archivio, solo in parte la riflessione filosofica è riuscita a colmare la lacuna additata da Kojève. Lo riconosceva esplicitamente Hannah Arendt, che dopo aver constatato "un crollo più o meno generale, più o meno drammatico, di tutte le autorità tradizionali" concludeva: "non siamo più in grado di sapere che cosa è effettivamente l'autorità", precisando che "la risposta a tale questione non si può assolutamente trovare in una definizione della natura e dell'essenza dell'autorità in generale". In realtà la risposta che la Arendt attendeva era già in queste pagine, dove Kojève, muovendo da un'analisi fenomenologica, riconosce quattro tipi "semplici, puri o elementari" di Autorità, che si rispecchiano in quattro filosofie: l'autorità del Padre (la scolastica), del Signore (Hegel), del Capo (Aristotele) e del Giudice (Platone).
La formula vuota e ipocrita che denuncia l’attuale «crisi della politica» nasconde, in realtà, una crisi molto più profonda e inquietante, che accomuna non solo «tutte le forze della tradizione occidentale», ma esse stesse alla loro distruzione, compiuta dalla modernità: un’«“intima mano”, assolutamente più intima (e terribile) di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al “santo Cristo” e al “santo Spi no za”, si chiede: “Quale intima mano congiunge i due in uno?”». Nel suo nuovo libro, Ema nuele Se verino mette a fuoco questo grande occultamento, accompagnandoci nel «sottosuo lo essenziale» del pensiero filosofico del nostro tempo. Severino ci mostra anzitutto la conflittualità e insieme la specularità di tali forze: l’incerta «identità europea», improntata dal duumvirato Usa-Urss, ovvero il più potente «monopolio legittimo della violenza» dell’ultimo secolo; il marxismo defunto e un capitalismo incapace di offrire alternative all’incremento del profitto privato quale «scopo supremo» della società; il cristianesimo e l’Islam come opposti dogmatici accomunati da una rigida connotazione antimoderna; lo Stato e la Chiesa, distinti sulla base di un Concordato «ambiguo» che lede le ragioni di entrambi. Al tempo stesso Severino rileva come tutte quelle forze convergano nell’asservimen to a una «tecnica» modellata dal «sapere ipotetico» della scienza e fondata sul solo «valore della potenza», e dunque sintesi e strema dell’«errore» dell’Occidente: l’«a gire» come un carattere separato dall’es sere, e il percorso dell’uomo come un procedere «tra nulla e nulla». Fitto di spiazzanti provocazioni intellettuali (sull’ancipite idea di Provvidenza, e stesa dal cattolicesimo ai totalitarismi; sulla contiguità tra vecchia e nuova Guer ra Fredda; sulla teologia di Benedetto XVI), L’intima mano è così uno sguardo «a volo d’aquila» sugli snodi essenziali della contemporaneità e un invito a inquadrarli al di là, e al di fuori, della loro ingannevole contingenza.
Durata più di un trentennio, la contesa fra due dei massimi pensatori del Novecento – Leo Strauss e Alexandre Kojève – ha come oggetto la relazione tra il potere politico e la filosofia come saggezza, e dunque la responsabilità della filosofia in rapporto alla società. Nella prospettiva hegeliana di Kojève: la stessa ragione d'essere della filosofia.
I due sono pienamente d'accordo sull'esistenza di una opposizione tra filosofia e società, ma non concordano sulla soluzione del conflitto. Per Strauss quest'ultimo è inevitabile, e la filosofia deve procedere per la sua strada giacché non vi è soluzione politica compatibile con la verità. Dunque la piena conciliazione tra filosofia e società non è necessaria, non è auspicabile, non è nemmeno possibile, e lo sforzo in quella direzione è destinato solo a essere distruttivo per entrambe. Per Kojève, invece, la filosofia è essenzialmente politica e la politica filosofica, il progresso filosofico e quello politico devono procedere di pari passo verso il loro compimento: un uomo libero che riconosca universalmente di esserlo. E già dietro questa elementare contrapposizione si intravede come la disputa Strauss-Kojève investa tutto il Novecento, secolo dei totalitarismi e dell’invadenza capillare della società nel pensiero. Condotta in pubblico e in privato – come testimoniano i saggi e la densa corrispondenza che compongono questo volume –, la lunga sfida speculativa non era destinata a finire con una conciliazione. E ciò la rende tanto più preziosa, perché le questioni che tratta rimangono aperte e urgenti.
L'angoscia più profonda dell'uomo, che da sempre lo accompagna, è che la morte uccida ogni possibilità di salvezza. Tuttavia Emanuele Severino ha mostrato, nella "Gloria", come la salvezza dalla morte sia una necessità, non una semplice possibilità: "L'uomo è atteso dalla terra che salva". Ma nella "cadenza primaria" di "Oltrepassare", che della "Gloria" è al tempo stesso "rischiaramento" e sviluppo, appare come in realtà "la terra che salva sia 'infinitamente' più ampia, cioè più salvatrice" di quanto lo scritto precedente lasciava intendere, e come il senso autentico del divenire "mostri una complessità che nella "Gloria" non viene ancora indicata". Severino ha dedicato molti scritti a una rigorosa messa in atto del principio aristotelico di non contraddizione. E proprio in quanto mostrava le aporie su cui si reggevano celebri edifici della metafisica il suo pensiero suscitava un provocatorio interrogativo: che cosa si apre al di là della contraddizione?
Quale cosa attinge, "in ultimo", l'anima dopo essersi aperta, attraverso l'angoscia, alla ricerca di sé? È questo l'interrogativo che sottende l'articolarsi di questo saggio. Tre voci in dialogo fra loro e con i "Maggiori Loro", da Platone a Husserl, cercano di rispondere a tale domanda, ognuna seguendo il proprio "demone custode": la voce portatrice di un radicale scetticismo dell'Intelletto, la voce che incarna l'atto di fede in lotta contro se stesso e quella dell'Autore, che si rivolge agli amici attraverso due lunghe serie di lettere, riprendendo e sviluppando le idee della sua più importante opera teoretica, "Dell'inizio". L'attenzione di Cacciari torna a volgersi a quel cominciamento che è il "problema" filosofico fondamentale.
Senza rinunciare al proprio punto di vista squisitamente filosofico, e professandosi "in linea di principio ateo", Heidegger interpreta l'esperienza religiosa come matrice esemplare per capire la dinamica originaria della vita umana nella sua "fatticità", quindi nella sua "gettatezza", finitudine e storicità. In particolare egli si accosta ai documenti del primo cristianesimo, e soprattutto alle lettere dell'apostolo Paolo e alle "Confessioni" di Agostino, per assimilarne con avidità le intuizioni filosofiche e delineare sulla loro scorta i tratti genuini della vita umana nella sua fatale tendenza alla perdizione e allo scacco, ma anche nella sua ricerca di un'ardua eppur raggiungibile riuscita.
Tornare a filosofi come Gorgia e Parmenide implica una riscoperta, nella loro versione aurorale, delle categorie che hanno poi dominato il pensiero sino a oggi. Sotto le chiose rivelatrici di Colli, ogni pensatore entra in una rete di rapporti storici e epistemologici mobile e imprevedibile. Così Gorgia, anziché modello della "sapienza apparente" e "non reale" usata da "ingannatori" nemici dei filosofi, è un sofista nell'eccezione di "fisiologo" e di "fisico", e dunque capace di elaborazioni profonde ed eleganti, che culminano nella celebre tesi della "reductio ad impossibile". Quanto a Parmenide, Colli ne ripercorre le vertigini ontologiche indagando aspetti noti e nel contempo prospettando accostamenti arditi e illuminanti.
Come già dichiara il titolo, Cacciari intende volgere lo sguardo a quel "cominciamento" che è il problema del pensiero filosofico. A questa inattualità nel porre il problema di sempre della filosofia corrisponde una novità perentoria nella articolazione della forma, che abbraccia i tre modi della scrittura filosofica: il dialogo (l'ironia, la ricerca), il trattato (la sistematicità), il parergon (la frammentazione aforistica). Da questi tratti apparirà evidente una voluta arcaicità dell'architetura formale, che implica una vis polemica contro ogni discorso filosofico rassegnato all'inerzia. Qui, al contrario, si riconosce che il pensiero filosofico non può che riproporsi le domande del Parmenide platonico.
Questa grandiosa opera non è né una monografia su Nietzsche, né una semplice interpretazione del suo pensiero e nemmeno la ricostruzione di un capitolo di storia della filosofia. Si tratta di un vasto e serrato confronto che Heidegger ingaggia con Nietzsche, interrogandone i testi al fine di scoprire il filo conduttore che lega in una trama unitaria le sue dottrine fondamentali. Lungo un itinerario che va da Nietzsche a Platone, e da Platone a noi, Heidegger giunge a mostrare che tali dottrine non sono lo stravagante parto della mente ormai malata del pensatore, ma costituiscono l'ineludibile compimento della metafisica occidentale. Al tempo stesso il pensiero di Nietzsche attua un rovesciamento della metafisica e apre interrogativi su una crisi ancora attuale.